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[STORIA BUGIARDA] D’Annunzio, Houdini e Dante Alighieri

Continua la rubrica di Paolo Algisi dedicata ai luoghi comuni della storia più duri a morire

DANTE DI PROFESSIONE ERA UN POETA



Dante dedicò gran parte della sua vita a scrivere,ma la sua vera professione era un’altra: Quella di medico.

Lo provano le regolari iscrizioni, a partire dal 1295, all’arte dei medici e degli speziali e il fatto che indossasse spesso un vestito lungo rosso, si trattava del “lucco”, che rendeva ragione di una professione di un certo rango.

La sua scelta ebbe uno scopo preciso, a Firenze una legge obbligava chiunque volesse ricoprire cariche pubbliche ad immatricolarsi in una delle principali associazioni di professionisti, e Dante, per poter esercitare la sua grande passione per la politica, scelse la professione medica.

Ma Dante fece mai il medico?

Pare di si, a giudicare dalle fonti storiche, è certo che tra il 1285 e il 1287 frequentò Taddeo Alderotti, docente all’università di Bologna, figura di punta nell’ambiente medico del tempo, ma la vera prova è la familiarità con i termini medici che il poeta dimostra di avere nel suo capolavoro la Divina Commedia, soprattutto nell’inferno, che è anche un viaggio nel mondo del dolore fisico e della malattia.

Ecco qualche esempio, nel XXIX canto, descrivendo la pena a cui sono sottoposti i falsari, riporta con minuzia i sintomi della scabbia, i dannati, pieni di macchie, (dal capo al piè di schianze macolati) e in preda ad un forte prurito (del pizzicor, che non ha più soccorso), si grattano l’un l’altro, ma forse la descrizione più cruda è quella, nel XXVIII canto, del corpo squarciato di Maometto, con tanto di interiora in bella vista tra le gambe pendean le minugia (le budella) , la coratra (gli organi intorno al cuore) pareva e l’tristo sacco (lo stomaco) che merda fa di quel che si trangugia.

NOME DI BATTESIMO DI MOZART ERA AMADEUS



Quando nacque a Salisburgo, in Austria, il 27 gennaio 1756, fu battezzato Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart, ma allora perché oggi lo chiamiamo Wolfgang Amadeus  Mozart, e lui stesso si firmava così.

In famiglia era chiamato Wolfgang, ma presto cominciò a usare il suo terzo nome latinizzato, il greco Theophilus divenne (per seguire una moda diffusa) il latino Amadeus e, dal 1777 , il francese Amadè. Tutti nomi con lo stesso significato, come nell’italiano Amedeo “amato da dio”.

L’AMORE FRA ABELARDO ED ELOISA FU PLATONICO



La storia di Abelardo (chierico e professore di teologia, nato in Bretagna nel 1079) ed Eloisa, diventata celebre per il focoso epistolario amoroso che i due si scambiarono, iniziò che lei aveva appena 17 anni.

Lui l’avvicinò diventandone il precettore, ma ben presto, come scrive lo stesso Abelardo furono “più i baci che le spiegazioni” Dalla loro relazione clandestina nacque persino un figlio, che fu chiamato Astrolabio, seguì un matrimonio riparatore celebrato in gran segreto (per non intralciare la carriera di lui), ma i parenti di lei mal digerirono la faccenda e fecero evirare Abelardo e rinchiudere Eloisa e il figlio in convento.                        

ALBERTO DA GIUSSANO PARTECIPÒ ALLA BATTAGLIA DI LEGNANO



Niente affatto, anche perché Alberto da Giussano pare non sia mai esistito, si tratta, per la maggior parte degli storici, di un personaggio leggendario che sarebbe vissuto nel XII secolo, citato in opere letterarie scritte nel Tardo Medioevo.

Il nome appare per la prima volta in una cronaca storica dedicata alla città di Milano ( XIV) secolo, scritta per compiacere in toni eroici Galeazzo Visconti .

Qui si parlò di Alberto da Giussano come del cavaliere che si distinse nella Battaglia di Legnano (29 maggio 1176).

Da allora il personaggio è rimasto nell’immaginario collettivo  anche perché la battaglia è stata celebrata nel medioevo come esempio di vittoria di popolo contro l’invasore straniero, (al punto che Goffredo Mameli parla di Legnano nel nostro inno) .

Dal 1982 Alberto da Giussano ha conosciuto un’altra inaspettata fortuna, apparve infatti nel simbolo della Lega Lombarda e, dal 1989, in quello della Lega Nord.

HOUDINI MORÌ DURANTE UN SUO NUMERO



La morte del celebre illusionista Harry Hudini, nel 1926, non fu dovuta ai pericoli a cui si sottoponeva durante i suoi numeri (sotto quello in cui si liberava da una vasca d’acqua sigillata).

Fu invece colpa di uno studente appassionato di arti marziali che lo sfidò ad una prova di forza, colpendolo con un pugno al ventre senza dargli però il tempo di preparare i muscoli addominali.

Il giorno dopo Houdini accusò forti dolori, ma andò lo stesso in scena, pochi giorni dopo a Detroit al calare del sipario stramazzò al suolo con la febbre a 40.

La diagnosi fu peritonite, il colpo all’addome aveva forse contribuito a perforare l’appendice già infiammata. Operato d’urgenza Houdini morì il 31 ottobre 1926, a 56 anni.

DOPO L’ABIURA GALILEO AGGIUNSE SOTTOVOCE “EPPUR SI MUOVE”



Nel 1633 Galileo fu condannato dal tribunale dell’Inquisizione perché sosteneva che la terra ruotasse attorno al sole (e non il contrario), in procinto di recarsi a Roma per il processo, lo scienziato scrisse una lunga lettera all’amico Elia Donati definendo il libro in cui spiegava le sue teorie (il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo) “esecrando e più pernitioso per Santa Chiesa che le scritture di Lutero e Calvino“ Era quindi del tutto consapevole della gravità della situazione e del pericolo a cui lo esponevano le sue scoperte.

La storia ci racconta che Galileo non fu condannato a morte perché accettò di abiurare, cioè di disconoscere le sue intuizioni scientifiche e ristabilire la verità voluta dalla Chiesa.

Risulta però difficile credere che (come vuole la tradizione) in un clima di tale ostilità (che pochi anni prima aveva condotto al rogo il filosofo Giordano Bruno) Galileo si azzardasse a soggiungere, seppur sottovoce, la frase  “Eppur si muove”, riferendosi alla Terra, e infatti non andò così, questa ricostruzione fu inventata nel 1757 dal giornalista Giuseppe Baretto, che scrisse un’antologia in difesa della scienziato.

Fu lui a dipingere galileo più audace e temerario di quanto non fosse stato in realtà.

D’ANNUNZIO SI FECE TOGLIERE DUE COSTOLE?



Quella secondo cui il “Vate” si fece asportare due ossa del torace per praticare l’autofellatio è una diceria diffusissima e non solo tra i banchi di scuola, eppure è decisamente fantasiosa.

Intanto, l’idea dell’asportazione delle costole possa consentire l’autofellatio è priva di fondamento dal punto di vista medico.

E poi nessuna biografia di Gabriele D’Annunzio riporta questo dettaglio, è però facile capire perché la diceria ebbe fortuna, era molto credibile per un personaggio noto per l’intensa attività erotica e per l’esaltazione letteraria del piacere sessuale.

EINSTEIN ANDAVA MALE A SCUOLA



Diversamente da una diffusa leggenda (molto tenace perché paradossale) che lo dipinge come un pessimo studente, soprattutto in matematica. Albert Einstein ebbe invece un rendimento scolastico sempre buono.

È vero però che, in giovane età, il futuro scienziato si sentiva a disagio sui banchi per l’autoritarismo imperante anche nelle scuole tedesche e che i suoi atteggiamenti irritarono più di un professore.

Note


[STORIA BUGIARDA] La Terra Piatta, la lampadina e l’Indipendenza americana

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LA RIVOLUZIONE FRANCESE SCOPPIÒ CON LA PRESA DELLA BASTIGLIA



Per gli storici la Rivoluzione francese, che considerano come una lunga sequenza di avvenimenti durata quasi 10 anni, iniziò con la convocazione degli stati generali il 5 maggio 1789.

Fu allora che il terzo stato (la borghesia) si pose alla testa della rivolta contro il sistema feudale (l’Anciem règime), quanto all’insurrezione violenta di luglio, non cominciò con l’assalto alla Bastiglia.

L’assalto alla Bastiglia del 14 luglio 1789 fu solo uno dei tanti episodi di una rivolta che in Francia era già dilagante (soprattutto a causa della carestia e delle tasse), la capitale stessa da un paio di giorni era preda delle sommosse.

Dal 12 luglio si era insediato un comitato permanente rivoluzionario che si contrapponeva al governatore reale, l’attacco alla fortezza-prigione della Bastiglia, poi, ebbe all’inizio uno scopo pratico: impossessarsi delle polveri e delle armi della guarnigione.

Fu condotto a partire dal mattino da circa 900 rivoltosi, mentre nella città erano già state alzate le barricate.

Dopo il fallimento di una trattativa con il comandante della guarnigione di 114 uomini, Bernard-Renè de Launay, scoppiò una breve battaglia.

Verso le 5 del pomeriggio gli assedianti entrarono dal ponte levatoio, liberando i sette detenuti, la fortezza (eretta nel 1832, ma mai strategica) era stata trasformata in prigione dal cardinale Richelieu nel seicento.

Avendo avuto tra i suoi (mai numerosi) ospiti anche personaggi come l’ illuminista Voltaire, la propaganda rivoluzionaria fece di quell’assalto l’evento scatenante della rivolta e il 14 luglio divenne festa nazionale francese.


L’INDIPENDENZA AMERICANA FU FIRMATA IL 4 LUGLIO 1776



E’ un’errore, l’Independence day, la festa nazionale degli Stati Uniti che commemora l’adozione della Dichiarazione d’Indipendenza delle 13 colonie dalla Gran Bretagna celebra il 4 luglio 1776, ma andrebbe spostato al 2 agosto.

Fu questo infatti il giorno in cui la maggior parte dei delegati delle colonie sottoscrisse lo storico documento, reso pubblico il 4 luglio.

In verità fu accertato però solamente nel 1884, quando lo storico Mellon Chamberlain consultò i verbali manoscritti conservati negli archivi del Congresso, ma ormai la festa era entrata nella tradizione americana e si preferì non modificare quella data.

LE SABINE FURONO RAPITE DAI ROMANI



Al tempo della fondazione di Roma (Vlll secolo a.C.) Romani e Sabini vivevano fianco a fianco, i primi sul colle del Palatino, i secondi su quelli del Campidoglio e del Quirinale.

Originari di Alba Longa (Lazio), i romani erano arrivati lì senza mogli e per assicurarsi una discendenza rapirono le donne dei sabini (attirati con l’inganno di una grande festa).

Questo almeno dice la leggenda di quello che tutti chiamano “il ratto delle sabine”, leggenda appunto,che i romani e i sabini si siano mischiati è vero, come prova l’origine sabina di alcune parole latine come “bos” bue, scrofa, popina, (osteria).

Che abbiano fatto ricorso a un rapimento invece no, i due popoli si fusero pacificamente, tanto che il co-reggente di Romolo fu, per cinque anni, il sabino Tito Tazio.

A LITTLE BIGHORN I SOLDATI DI CUSTER MORIRONO TUTTI



L’epica sconfitta del 25 giugno 1876 subita dal 7° Cavalleggeri del tenente colonnello George Custer spazzò via l’intero reggimento.

Così narra il mito della battaglia svoltasi nei pressi del fiume Little Bighorn (Montana) contro una coalizione indiana agli ordini di Cavallo Pazzo e Toro Seduto, la verità è che non tutti morirono in quella battaglia,del gruppo di Custer sopravvisse il trombettiere-portaordini di origini italiane John Martini, che aveva lasciato la colonna del colonnello e gli squadroni agli ordini di Marcus Reno e Frederick Benteen in gran parte la scamparono.

Il reggimento contava 31 ufficiali, 586 soldati, 33 scout indiani e 20 civili: morirono 268 uomini.

EDISON INVENTÒ LA LAMPADINA



Alla lampadina ad incandescenza si solito si associa il nome dell’inventore americano Thomas Alva Edison (1847-1931).

Il piemontese Alessandro Cruto il 5 marzo 1880 accese la sua prima lampadina

Ma c’è un altro papà, oggi dimenticato, il piemontese Alessandro Cruto (1847-1908). Il 5 marzo 1880, nel laboratorio di fisica dell’Università di Torino, Cruto accese la sua prima lampadina grazie alla messa a punto di un filamento di sua invenzione e ignoto ad Edison.

La lampadina risultò molto più efficiente di quella realizzata appena 5 mesi prima da Edison (500 ore di durata contro le 40 del collega americano)

Chi è Alessandro Cruto?

Nato nel Piossasco, non lontano da Torino, Cruto fu avviato agli studi tecnico-industriali e fin da giovane iniziò a cimentarsi come inventore.

Nel suo laboratorio mise a punto tra l’altro un sistema di graduazione per i termometri. Nel 1879 si convertì agli studi sull’elettricità, allora pionieristici.

Nello stesso anno Cruto aveva assistito a Torino alla presentazione dei prototipi di Edison, che il fisico e ingegnere Galileo Ferraris aveva introdotto come una mera curiosità, dati i loro limiti funzionali.

Il problema era il filamento, che diventando incandescente per il passaggio della corrente elettrica si consumava troppo in fretta.

Cruto trovò pochi mesi dopo la soluzione, usò all’interno del bulbo di vetro filamenti di carbonio purissimo, ottenendo non solo una maggior durata,ma anche una luce più chiara.

Altri Italiani lavorarono alla lampadina

Alti Italiani lavorarono alla lampadina (oltre a numerosi stranieri) come Ferdinando Brusotti (1839-1899), che nel 1877 aveva brevettato una lampadina elettrica ad incandescenza ed Arturo Malignani che aumentò la durata fino a 800 ore.

VESPASIANO INVENTÒ I GABINETTI PUBBLICI



Le toilette pubbliche sono chiaramente vespasiani solo dall’Ottocento, in ricordo dell’imperatore romano che regnò dal 69 al 79 d.C.e al quale si attribuisce una tassa sull’urina, che veniva raccolta in vasi di terracotta lungo le vie.

All’epoca i fullones (tintori e lavandai) riciclavano le urine, da cui ricavavano l’ammoniaca per le loro lavorazioni, senza pagare nulla.

Criticato dal figlio Tito per quella trovata fiscale, l’imperatore avrebbe commentato “pecunia non olet” (il denaro non puzza).

LEONARDO È IL PADRE DELLA BICICLETTA



Questa diffusa credenza deriva dal fatto che su una pagina del Codice Atlantico compare il disegno di una bicicletta con tanto di pedali e catena.

In realtà la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che il disegno non appartiene alla mano del Maestro, né a quella di un suo allievo (si disse per esempio che potesse essere opera di Gian Giacomo Caprotti, detto Salaì).

L’ipotesi più probabile è che sia stato aggiunto nell’800 o anche più tardi, quando la bicicletta era appena stata inventata

Il codice Atlantico, in effetti, nacque nel tardo 500 da un assemblaggio arbitrario da parte dello scultore Pompeo Leoni che aveva acquistato i codici originari da Francesco Melzi (allievo di Leonardo) e che li aveva riorganizzati, altri rimaneggiamenti si ebbero nei secoli successivi.

IL PRIMO A FARE IL GIRO DEL MONDO FU MAGELLANO



Il portoghese Ferdinando Magellano partì nel 1519 da Siviglia al comando di cinque velieri, con l’obiettivo di raggiungere le Molucche, nell’arcipelago indonesiano, allora note come le isole delle spezie.

Decise però che ci sarebbe arrivato navigando verso ovest invece che verso est circumnavigando l’Africa, come si usava allora.

Una volta superata la punta meridionale dell’America del Sud attraverso lo stretto che oggi porta il suo nome, riuscì a raggiungere le Filippine. Dimostrando la praticabilità della nuova rotta qui, il 27 aprile 1521, perse la vita durante uno scontro con gli indigeni.

Magellano dunque non completò la circumnavigazione del globo.

Fu il capitano basco Juan Sebastian Elcano

Fu il suo vice, il capitano basco Juan Sebastian Elcano, a prendere il comando della spedizione e a diventare il primo a compiere il giro del mondo, riportando in Spagna, nel 1522, i pochi sopravvissuti dell’equipaggio.

IL PRIMO A RAGGIUNGERE L’AMERICA FU COLOMBO



In realtà ci arrivò un vichingo, secoli prima, Leif Eriksson nel 992 sbarcò infatti in tre punti della costa canadese Helluland, Markland e Vinland (le attuali Baffin, Labrador e Terranova).

E prima di lui, nel 986, un altro vichingo, Bjarne Herjolfsson, aveva avvistato la costa americana, pur senza raggiungerla, negli anni 60 sono state trovate prove archeologiche di un insediamento vichingo databile al mille circa.

GALILEO INVENTÒ IL TELESCOPIO



Galileo Galilei (1564-1642) si limitò a perfezionarlo e fu il primo a puntarlo verso il cielo.

Fondando l’astronomia moderna, ma lo strumento fu inventato dal fabbricante di occhiali olandese Hans Lippershey, che nel 1608 chiese il brevetto per il “vetro prospettico olandese”.

FLEMING SCOPRÌ LA PENICILLINA



Nel 1928, osservando al microscopio una coltura contaminata da una muffa, Alexander Fleming (1881-1955) medico e biologo scozzese, si accorse che la crescita dei batteri si era fermata, ne dedusse che la muffa conteneva una sostanza antibatterica (la penicillina).

Già nel 1895 il medico napoletano Vincenzo Tiberio aveva notato gli effetti del fungo Penicillium

Questo gli valse il premio Nobel, ma già nel 1895 il medico napoletano Vincenzo Tiberio aveva notato gli effetti del fungo Penicillium sulle infezioni, pubblicando anche uno studio. Altrettanto ignorato fu il francese Ernest Duchesne, che si accorse del fenomeno nel 1897.

NEL MEDIOEVO SI CREDEVA CHE LA TERRA FOSSE PIATTA



La teoria della sfericità della Terra, avanzata da vari filosofi dell’antica Grecia, fu dimostrato intorno al 240 a.C. da Eratostene di Cirene, che calcolò con precisione il raggio terrestre.

Quella nozione arrivò intatta al mondo medioevale, come provano diversi trattati, e il falso mito che fino all’epoca dei grandi navigatori (XV secolo) si credesse alla Terra piatta si affermò solo nell’Ottocento.

Note


[STORIA BUGIARDA] I Magi, gli Apostoli e i “300” spartani

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LE GUERRE PUNICHE FURONO TRE



Sui libri di scuola si legge che fra Roma e Cartagine il duello per la supremazia nel Mediterraneo si esaurì in tre guerre, dette puniche dal latino Poeni, nome con cui i romani chiamarono i Cartaginesi. Solo che non furono tre ma quattro.

Dopo un primo scontro, avvenuto per il controllo della Sicilia (264-241 a.C.) ci fu infatti una quasi dimenticata guerra-lampo, che ebbe come teatro i mari tra Sardegna e Corsica.

Nel 241 a.C. Cartagine era padrona della Sardegna e Corsica

Ma si trovò a fronteggiare le rivolte dei suoi mercenari in Africa, fomentate dai Romani. Roma, approfittandone, nel 238 a.C. inviò alcune sue legioni ad invadere Sardegna e Corsica.

I Cartaginesi furono colti di sorpresa e cedettero quasi subito, perdendo il controllo delle isole, che nel 227 a.C. divennero province romane.

I riottosi isolani ottennero l’aiuto segreto di Cartagine, ma con la Seconda Guerra Punica (che quindi in realtà fu la terza) combattuta fra il 218 e il 202 a.C., fu sancito il controllo romano, che portò alla distruzione di Cartagine al termine dell’ultima (quarta e non terza) guerra del 149-146 a. C.

GLI EROI DELLE TERMOPILI ERANO 300



Secondo la tradizione, tra il 19 e il 21 agosto del 480 a.C. al passo delle Termopili (Grecia Orientale) 300 spartani fermarono (o, a onor del vero, rallentarono solamente) l’avanzata dei Persiani invasori.

In realtà i soldati greci inviati alle Termopili furono fra i 5 e i 7 mila

È vero che, stando alle fonti del tempo, gli uomini del re spartano Leonida (la cui guardia contava 304 uomini oltre al sovrano e ai comandanti) rimasero isolati dal resto delle truppe alleate.

Ma, sempre secondo le fonti antiche, con loro c’erano anche 700 guerrieri della città di Tespie e 400 di Tebe (già conquistata dai Persiani).

I COMANDAMENTI DI MOSÉ SONO 10



Nella Bibbia le Tavole della legge ricevute da Mosè sul monte Sinai non hanno numerazione e non sono affatto un “decalogo“ (espressione peraltro introdotta nei testi soltanto nel lll secolo d.C.)

Si tratta infatti di numerosi e vari precetti, di cui quelli che sono poi diventati i 10 comandamenti sono i primi.

Non solo, esistono discordanze tra ebraismo e cristianesimo: per gli ebrei, per esempio, il primo comandamento è “Io sono il Signore Dio tuo“ (per i cristiani è “Non avrai altro Dio all’infuori di me“) e il nono e il decimo sono accorpati (mentre i cristiani distinguono tra “Non desiderare la donna d’altri“ e “Non desiderare la roba d’altri“)

GLI APOSTOLI ERANO 12



In totale furono 20, oltre ai canonici 12, il più noto è San Paolo, il cui titolo apostolico è confermato da varie fonti cristiane, Paolo definisce a sua volta apostoli: Timoteo e Silvano, Apollo, Andronico e Giuia.

Negli Atti, poi Barnaba è chiamato apostolo e, dopo il tradimento di Giuda, all’inizio degli stessi Atti, Pietro propone di sostituire Giuda con Giuseppe oppure con Mattia, prevalse quest’ultimo, per sorteggio promosso ad apostolo.

GLI ANTICHI RE DI ROMA FURONO 7



In realtà ce ne fu un ottavo, Tito Tazio, nato a Cures (oggi Fara in Sabina, 37 km a sud di Rieti), regnò per cinque anni e probabilmente in co-reggenza con il primo dei sette (Romolo).

Eppure fu un personaggio tutt’altro che secondario

Si tramanda che fu lui a urbanizzare il Colle per eccellenza, cioè il Quirinale, già residenza dei papi e oggi del presidente della Repubblica, perché quindi nessuno lo ricorda?

Quasi certamente non compare nelle liste tradizionali perché ricevette la corona solo in seguito al cosiddetto “ratto delle Sabine“ Per questo avrebbe soltanto affiancato il fondatore dell’Urbe.

LE REPUBBLICHE MARINARE ERANO 4



La semplificazione storica è stata rafforzata persino dalla marina italiana, che nello stemma dal 1941 ha, al centro del tricolore, i simboli delle “4 Repubbliche marinare“ Venezia, Genova, Amalfi e Pisa.

L’ equivoco ebbe origine nella storiografia dell’Ottocento che, in pieno fervore risorgimentale,esaltò queste quattro città (effettivamente molto potenti) come esempi italiani di indipendenza. Per gli storici di oggi, invece, furono repubbliche marinare molti altri comuni e signorie cittadine dedite al commercio marittimo, rette da governi repubblicani o da oligarchie, spesso di banchieri.

Tra i requisiti:

  • Possedere una propria valuta;
  • Avere proprie leggi marittime;
  • Possedere una flotta commerciale;
  • Possedere fondaci (magazzini) e rappresentanti diplomatici all’estero (ed esteri in patria).

Corrispondono in tutto o in parte alla descrizione Ancona, in competizione con la Repubblica di Venezia per i traffici nell’Adriatico, e la laziale Gaeta, in corsa per il controllo del Tirreno.

Va indicata inoltre La pugliese Trani, dove nel 1063 furono redatti gli Ordinamenta maris, tra i più antichi codici marinari.

Anche la piccola Noli, in Liguria, Ragusa (oggi in Croazia, ma nel medioevo Italiana), Sorrento e Capua.

I MAGI ERANO RE ED ERANO TRE



L’episodio dei Magi che giunsero da Gesù appena nato richiamati da una stella è raccontato in uno solo dei Vangeli canonici, quello di Matteo. Tuttavia la tradizione differisce molto da quello che è effettivamente raccontato dall’evangelista.

Da nessuna parte, infatti, Matteo scrisse che si trattava di re

I Magi o Maghi erano probabilmente sacerdoti del profeta Zoroastro, che interpretavano i sogni e studiavano gli astri e Matteo non scrisse neppure quanti fossero.

L’evangelista dice genericamente che «alcuni Magi giunsero da Oriente» e fu solo nel Vl secolo che si stabilì che fossero tre.

Nei secoli successivi furono loro assegnati anche dei nomi, che nella tradizione occidentale sono Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Ma ad esempio per la Chiesa etiope si chiamano Hor, Basanater e Karsudan.

I COLLI ROMANI ERANO 7         



Palatino, Aventino, Celio, Campidoglio, Viminale e Quirinale

Sarebbero questi i nomi tradizionali dei colli all’interno delle mura serviane (fatte erigere da Servio Tullio nel Vl secolo a.C.) su cui sarebbe nata la potenza di Roma.

Ma rileggendo le fonti del tempo i conti cambiano, di sette colli, pur senza nominarli, parlano scrittori come Cicerone, Virgilio, Orazio, Marziale, Properzio e Stazio, ma c’è chi mette il Gianicolo al posto del Campidoglio. Complicando la faccenda, testi successivi, del lV secolo d. C. escludono Aventino e Viminale, ma conteggiano Gianicolo e Vaticano.

Sommandoli tutti si deduce che i romani distinguevano una ventina di alture,da dove spuntarono allora i sette colli? Forse dalla cerimonia del Septimontium, nome che deriverebbe però da saepti, cioè recintati, e non dal numero sette.

I trecento “Giovani e forti“ della Spedizione di Sapri erano appunto 300



Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti! […]

Luigi Mercantini, La spigolatrice di Sapri (1858)

Sono i versi della poesia risorgimentale di Luigi Mercantini, La Spigolatrice di Sapri, sull’impresa di Carlo Pisacane.

Ma ecco i fatti: Il 25 Giugno 1857 il rivoluzionario napoletano diede vita a una fallimentare impresa che avrebbe dovuto scatenare l’insurrezione del Meridione e finì invece in un massacro.

Pisacane (che inizialmente puntava alla Sicilia) sbarcò sull’isola di Ponza dopo aver dirottato un piroscafo.

Con lui c’erano 24 compagni, coi quali Pisacane assaltò il carcere dell’isola e liberò 333 detenuti, aggregandoli quasi tutti alla spedizione. Sbarcò poi sulla costa di Vibonati (Sa), quindi la poesia (scritta alla fine del 1857) approssimò sia il numero che il luogo (Vibonati è più a nord di Sapri).

Note


[STORIA BUGIARDA] L’Apocalisse, le corna di Satana ed Eva


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In questo capitolo tratteremo due fatti riguardanti Eva, uno dei protagonisti biblici della Creazione. Parleremo di Papa Pietro I, di Satana e dell’Apocalisse

EVA OFFRÌ AD ADAMO UNA MELA



Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò

(Genesi, 3:6)

La Bibbia racconta che Adamo ed Eva mangiarono il frutto dell’albero della conoscenza del Bene e del Male contravvenendo alla proibizione di Dio.

Per questa ragione i due furono scacciati dall’Eden, perdendo i privilegi di cui godevano al momento della creazione.

La decisione di mordere questo frutto fu dunque il “peccato originale“ in conseguenza del quale Dio condannò per sempre l’uomo a un’esistenza difficile degradata dal punto di vista morale, fisico e spirituale.

Nel testo però non è specificato di quale frutto si trattasse

Molti commentatori hanno ritenuto che fosse un fico.

Questo anche perché, poche righe più avanti, la Bibbia riferisce che appena Adamo ed Eva “si accorsero di essere nudi, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture“ (Genesi, 3:7).

Altri hanno ipotizzato che si trattasse di un grappolo d’uva, di un cedro o di un melograno.

L’identificazione dell’albero con un melo avvenne solo durante il Medioevo

Forse per via di un’assonanza presente nella lingua latina, in cui “malum“ è sia il male sia la mela, l’albero della conoscenza del male può essere diventato, per un errore di traduzione, un melo.

Una svista, o un’interpretazione, che poi ebbe molta fortuna, che coinvolse anche altre espressioni linguistiche: il “pomo d’Adamo“, ovvero la sporgenza della cartilagine nel collo frequente negli uomini dopo la pubertà, è detto così con riferimento al peccato reso possibile dalla maturità sessuale.

La scelta della mela fu aiutata dalla tradizione

La simbologia della mela è presente in molte altre culture.

Nei miti greci, dove una mela è il frutto che Paride dà in premio ad Afrodite designandola la più bella tra le Dee dell’Olimpo, ma anche nell’iconografia medioevale, dove accanto al melograno è simbolo di fertilità.

Dalla tradizione biblica la mela passò a sua volta fuori dall’ambito sacro

Fu una mela posta sulla testa del figlio quella che Guglielmo Tell, leggendario eroe svizzero, dovette colpire con una freccia, ed è con una mela che la strega cattiva avvelena Biancaneve nella favola dei fratelli Grimm.

Una continuità che arriva fino alla mela come simbolo di New York, ma anche della casa discografica fondata dai Beatles e dell’azienda informatica Apple: una mela morsicata, secondo alcuni simboli di conoscenza.

LA PRIMA DONNA FU EVA



Per i credenti la prima donna dell’umanità fu Eva.

Tuttavia nei versetti della Bibbia in cui si descrive la creazione dell’uomo (Genesi, 1: 27) si legge che “maschio e femmina li creò“ ma non si dice quale fu il nome della donna.

Che la moglie di Adamo si chiamasse Eva è detto più avanti (Genesi, 3: 20 e Genesi, 4: 1) e da questa lacuna nacque una tradizione ebraica secondo la quale prima di Eva ci fu un’altra donna: Lilith.

Nella Bibbia Lilith, ispirata forse ad una divinità mesopotamica, è citata una sola volta (nel libro di Isaia definita “civetta” Lilith in ebraico), ma la sua storia è raccontata in un testo cabalistico del Vlll-Xl secolo d. C.

Qui si narra che, dopo la creazione insieme ad Adamo, Lilith si rifiutò di sottomettersi al maschio e pronunciò il nome di Dio

Fu cacciata dall’Eden e fu costretta ad una vita errabonda.

Trasformandosi in demone, solo allora da una costola di Adamo (genesi 2 : 2) Dio creò Eva, devota e fedele.

Per alcuni la figura di Lilith rappresenta il passaggio dalle culture matriarcali a quelle patriarcali, simboleggiato dalla sua cacciata dall’Eden.

PIETRO FU IL PRIMO PAPA



Per diversi secoli dopo la morte di Gesù non ci fu un unico luogo che fungesse da “centro direttivo” della cristianità.

Altrettanto importanti del vescovo di Roma erano ad esempio, quelli di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme.

Fu Leone l detto “Leone Magno” il primo a sostenere che il vescovo di Roma fosse superiore agli altri vescovi

Egli stilò inoltre la prima lista di pontefici che partiva appunto da Pietro, vissuto a Roma all’epoca di Nerone e crocifisso tra il 64 e il 68 d.C.

Niente lascia però supporre che Pietro avesse assunto la guida della prima comunità cristiana della città, già presente prima del suo arrivo.

Inoltre mai nei suoi scritti l’apostolo rivendicò un potere speciale sulla chiesa, né sostenne che la propria autorità sarebbe stata trasmessa ai successori.

SATANA HA LE CORNA



Il Satana biblico è un angelo che si contrappone a Dio, ma le corna sono un’attribuzione medioevale.

Quando per rappresentare il diavolo ci si ispirò a Pan, dio pagano della fertilità. Con zampe e corna caprine.



APOCALISSE VUOL DIRE CATASTROFE

Il greco “apokalygipsis” significa “rivelazione” e non catastrofe.

Il termine si diffuse intorno al ll secolo d.C. ed era originariamente riferito a un particolare genere letterario tipico degli scrittori giudaico-cristiani.

In quei libri si descrivevano visioni mistiche che rivelavano i segreti della fine del mondo.

Le immagini simbolo della fine dei tempi erano mostri, draghi, angeli che annunciavano il giudizio universale.

L’esempio più celebre è l’Apocalisse attribuita all’apostolo Giovanni

Chiamata così dai primi Padri della chiesa, da lì vengono le catastrofiche immagini di fiamme e distruzione che oggi definiamo appunto apoca

Note


Lo Yawara-Kubotan: La MILLENARIA arma da difesa buddista

Lo Yawara è un’arma millenaria che in origine fu uno strumento utilizzato nelle cerimonie religiose buddiste.

Il suo uso marziale venne sviluppato prendendo come riferimento IL Tanto-Jutsu, maneggiandolo senza sfoderare per non tagliare né produrre emorragie.

Questo piccolo cilindro, di circa quindici centimetri di lunghezza, è diventato un’arma efficacissima sia nella difesa personale civile, che nella difesa personale poliziesca

La sua fabbricazione in diversi materiali non rilevabili, leggeri ed estremamente solidi, lo hanno reso famoso tra le persone che desiderano portare con se un’arma dissuasiva che sia anche discreta, altamente efficace e, contemporaneamente facile da utilizzare, specialmente nel misurare l’intensità della violenza da applicare in caso di necessità, inoltre è generalmente un prodotto economico e di facile fabbricazione.

In legno, policarbonato, metallo, con punta arrotondata, appuntito o meno, le varietà possibili sono infinite, ma il suo utilizzo tattico è fortunatamente simile.

Lo Yawara è effettivamente versatile ed è proprio questa versatilità ed il suo intuitivo maneggio che, forse, hanno fatto si, che pochi stili abbiano sviluppato seriamente le possibilità implicite al momento di sfruttare tutto il suo potenziale, fortunatamente il nostro “Mondo Marziale“ è talmente ricco ed attivo che, sapendo cercare, si trova sempre l’esperto adeguato.

Questa piccola meraviglia è un accessorio, che più di una volta ci ha tirati fuori da una difficoltà inaspettata, ma parliamo dei suoi precedenti storici.

Le tecniche di combattimento del Kakushijutsu

Le antiche scuole di ju jitsu, Taijitsu e Yawara, contemplavano nei loro insegnamenti tecniche di Kakushijutsu (combattimento con armi nascoste), utilizzate per aumentare considerevolmente gli effetti degli Atemi o dei colpi e delle pressioni esercitate nei punti di pressione.

La sua denominazione generica giapponese è Yubi Bo ed essendo utilizzato principalmente nell’arte dello Yawara, assunse il nome dello stile stesso.

La scuola di Takenouchi Ryu utilizzava un’arma simile, benché più lunga (20 cm circa) che denominarono Koshi No Bo, conosciuta nelle altre scuole sotto la denominazione Kakushi Bo (bastone nascosto).

Normalmente erano fabbricati in legno, benché li utilizzassero anche in metallo con le estremità molto appuntite, che servivano per colpire nelle zone più vulnerabili gli avversari che indossavano armature leggere.

Le tecniche impiegate derivavano dal Tanto-Jutsu, con una peculiarità di maneggiare il Tanto coperto dal suo fodero, per non causare tagli o ferite mortali, poiché spesso i Samurai dovevano condurre i prigionieri preziosi senza provocare loro ferite gravi o mortali.

Cosa è lo Yubi Bo

Gli Yubi Bo hanno una corda inserita nella porzione centrale, che serve per legarli introducendo il dito medio e l’anulare, in modo che, chiudendo la mano, emergano le estremità da entrambi i lati, in questo modo, si può colpire in stoccata o a martello, la lunghezza della corda deve essere adeguata, poiché deve permettere allo Yawara di muoversi all’interno della mano per ottenere maggior forza.

La corda permette di colpire con la mano aperta, trasversalmente e perfino di eseguire delle prese ed esercitare pressioni sulle articolazioni.

La conoscenza e il maneggio di quest’arma venne ristretto alle succitate scuole fino a quando Frank Matsuyama giapponese nato a Miyakonojo nel 1886, emigrò negli Stati Uniti.

Dopo aver esercitato diversi mestieri, cominciò ad insegnare nel 1927 l’Arte dello Yawara che aveva imparato da suo padre insegnando a diversi corpi di polizia, si rese conto della necessità di un’arma pratica ed efficace che sostituisse il classico randello.

Matsuyama sviluppò nel 1948 lo Yawara – Stick

Sembra sensato dire che Matsuyama non inventò nulla di nuovo, bensì approfondì il maneggio e l’utilizzo dell’antico Yubi Bo.

In realtà possiamo parlare di una  “evoluzione simultanea“ nell’utilizzo di questo tipo di armi, alle quali sono stati dati altri nomi, a seconda delle diverse Arti Marziali e delle diverse provenienze.

Il Kubotan

Il celebre maestro di Karate Takayuki Kubota, nacque nell’isola giapponese di Kyushu ne 1934, cominciò a praticare Arti Marziali a quattro anni.

Karate, Judo e Keibo-Jutsu; nel suo apprendistato conobbe una moltitudine di stili e di Arti Marziali, il che gli conferì una versatilità ed un’efficacia straordinarie, cominciò ad insegnare ai poliziotti ed ai corpi di sicurezza in Giappone.

Nel 1964 in breve tempo divenne famoso negli Stati Uniti per la sua durezza e per la sua efficacia, insegnò Karate, Judo, Kendo e Gyokute-Jitsu a diversi corpi militari e di polizia.

Esperto nel maneggio del Tambo poliziesco e nel Thaio-Jutsu, nel 1970 sviluppò, partendo dallo Yawara, il Kubokan, che prese il suo cognome come denominazione, attualmente è cintura nera 10° Dan di Gosoku Ryu Karate.

La novità del Kubotan risiede nel suo utilizzo come portachiavi, dando la possibilità di utilizzare le chiavi come arma, benché, in sostanza, il Kubotan sia uno Yawara senza corda, in realtà, prima che il Maestro Kubota sviluppasse il Kubotan, esistevano già adattamenti dello Yubi Bo o Yawara senza corda, e le prove le troviamo in diverse pubblicazioni militari e manuali di utilizzo delle armi che mostrano oggetti simili.

Attualmente poche Arti Marziali utilizzano qualche tipo di bastone di piccole dimensioni, con o senza corda,nei loro insegnamenti, e in quelli che li usano, lo fanno solo a livelli avanzati.

Confrontando lo Yawara con il Kubotan

Quanto al Kubokan si sta diffondendo come arma di difesa a livello urbano e, specialmente nelle forze di sicurezza, se lo Yawara più utilizzato è quello di legno, i Kubokan si fabbricano di diversi materiali, come il Titanio, l’Alluminio o PVC, ed oltre alla forma cilindrica classica, si stanno usando anche con delle palline alle estremità, con fessure per le dita e perfino vuoti all’interno per alloggiare un piccolo deposito di gas urticante.

Confrontando lo Yawara con il Kubotan, le possibilità del primo sono maggiori, oltre alla sicurezza che deriva dal fatto di averlo legato con la corda, con il vantaggio che aprendo la mano non cadrà, come succede con il Kubokan.

Con lo Yawara la possibilità di tecniche è molto maggiore

Dal punto di vista tecnico con lo Yawara la possibilità di tecniche è molto maggiore, permettendo prese e pressioni con tutta la sua superficie, oltre alla possibilità di premere e colpire con la mano aperta e trasversalmente.

Il Kubotan, tuttavia, che tutte le sue tecniche possono realizzarsi con una penna, una matita, ecc…

Le possibilità dello Yawara al momento di colpire sono infinite, con il pugno chiuso , tutti i colpi di Karate sono possibili, sia quelle che si sferrano con le nocche e con il dorso,che i colpi a martello in qualsiasi angolazione e direzione o di stoccata a qualsiasi altezza o senso.

Anche i colpi di pugilato sono molto efficaci impugnando lo Yawara, ma è molto importante avere conoscenza dei punti vitali per trarre il maggior vantaggio dagli Atemi, bisogna anche dire che i colpi con le estremità dello Yawara sono dolorosi anche se non incidiamo su un punto vitale, nonostante ciò i punti più efficaci sono le tempie, il sopracciglio, il labbro superiore, il mento, le carotidi, la trachea, lo sterno, le costole, i genitali, e le grandi zone muscolari.

In conclusione tutto ciò che è difesa può essere effettuato senza limiti dallo Yawara.

Lussazioni e strangolamenti, spazzate e conduzioni, l’importante è non eccedere se non necessario ed avere la manualità necessaria per il suo utilizzo, essendo coscienti che stiamo stringendo in mano un nostro caro amico che mai ci tradirà!

Note


[SARDEGNA] La Bandiera dei Quattro Mori

Lo scudo con croce rossa accantonata da quattro mori bendati è il simbolo del popolo sardo

Studiosi di tutti i tempi si sono mossi in un intrico di leggenda e realtà storica, tra Sardegna e Spagna.

Tutti hanno cercato di ricostruire origini e significati, ma lo stemma dei quattro mori rimane ancora oggi sostanzialmente un mistero.

La tradizione iberica lo considerava la bandiera della Sardegna una creazione di Re Pietro I d’Aragona

Il fine fu la celebrazione della vittoria di Alcoraz (1096).

La vittoria sarebbe stata ottenuta anche grazie all’intervento di San Giorgio (campo bianco e croce rossa) e che avrebbe lasciato sul campo le quattro teste recise dei re arabi sconfitti.

Sulla tradizione iberica si innestò la tradizione sarda.

Questa, contro ogni evidenza storica, legava lo stemma al leggendario gonfalone dato da papa Benedetto II ai Pisani in aiuto dei Sardi.

I pisani furono mandati contro i crudeli saraceni di Museto che in quegli anni minacciavano di conquistare Sardegna e Italia (1017).

In realtà, la più antica attestazione dell’emblema della Sardegna risale al 1281 ed è costituita da un sigillo della cancelleria reale di Pietro il Grande d’Aragona

Ma fu soltanto nella seconda metà del XIV secolo che i quattro mori apparvero per la prima volta legati alla Sardegna.

Questo fu come simbolizzandone il Regno all’interno della confederazione della Corona d’Aragona (Stemmario di Gerle).

Importato dunque dai re aragonesi, il simbolo comparve nella Sardegna spagnola su opere a stampa, monete e sui gonfaloni dei corpi speciali dei Tercios de Cerdeña, istituiti da Carlo V per la difesa dell’isola e distintisi a Tunisi (1535) e Lepanto (1571) nelle operazioni contro i Turchi.

L’iconografia del simbolo fu quanto mai confusa e le teste dei mori furono rappresentate in vario modo: volte a destra e a sinistra o affrontate, scoperte, coronate, cinte da una benda sulla fronte

Bandiera del Regno di Sardegna (1324-1848)

Risale alla metà del Settecento l’iconografia destinata a perdurare, con le teste volte a sinistra e le bende calate sugli occhi.

Delle ragioni di quest’ultima innovazione, se dettate dal caso oppure più maliziosamente alludenti agli atteggiamenti (illiberali) del governo piemontese verso la popolazione isolana, non sapremo mai.

Lo stemma comparve nell’arma composita della dinastia piemontese su atti, monetazione di zecca sarda e bandiere dei miliziani


Successivamente ornò gli stendardi delle brigate combattenti sarde, tra queste la “Sassari”, divenuta leggendaria per le imprese eroiche sul fronte austriaco della Grande Guerra.

Nel 1952 lo scudo dei quattro mori diventava stemma ufficiale ed ornava il gonfalone della Regione Autonoma della Sardegna (DPR del 5 Luglio 1952).

Oggi i sardi hanno la loro bandiera.

I quattro mori però, memori dell’antico affronto piemontese, hanno voltato la testa e aperto gli occhi, non più fasciati dalla benda che torna a cingere la fronte.

Note

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  • Fonte: www.regione.sardegna.it

[PILLOLE DI STORIA] Il ribelle Amsicora

Latifondista sardo-punico originario di Cornus. Parliamo di Amsicora, protagonista della rivolta che nel 215 a.C. vide contrapposti i sardi ai romani.

Gli episodi salienti della ribellione sono giunti fino a noi attraverso due importanti fonti latine : Tito Livio, storiografo di età augustea, e Silio Italico, poeta del periodo flavio.

La vicenda di Amsicora si svolse negli anni critici della seconda guerra punica

I dominatori romani, per far fronte alle spese del conflitto contro Annibale, attuavano in Sardegna una durissima politica fiscale, imponendo tributi e requisizioni granarie.

Fu così che i sardi, logorati dal malcontento e stanchi dell’arroganza romana, si ribellarono schierandosi apertamente con Cartagine.

Il senato della metropoli africana decise di appoggiare i rivoltosi inviando nell’isola uno dei suoi uomini più validi: Asdrubale il Calvo.

Il senato romano di contro affidò il comando delle operazioni militari al valente generale Tito Manlio Torquato.

La rivolta di Amsicora ebbe come epicentro la pianura del basso Tirso

La rivolta ebbe come epicentro la pianura del basso Tirso con i suoi fiorenti centri punici, tra cui Cornus, considerata da Livio la “capitale” della regione.

Furono i possidenti terrieri sardo-punici di queste città, che temevano di rimanere vittime delle confische romane, a farsi promotori del movimento di liberazione.

Alla testa dei possessores ribelli vi era Amsicora, definito da Tito Livio «il primo, di gran lunga, per prestigio e per ricchezze».

Si narra che il primo atto dell’offensiva ebbe luogo mentre Amsicora si trovava nei monti della Barbagia

Egli si era recato in quei luoghi con l’intento di coinvolgere nella ribellione le tribù dei Balari e degli Iliensi, i cosiddetti “Sardi Pelliti” (Sardi coperti di pelli) della testimonianza liviana.

Nel frattempo Josto, figlio e luogotenente di Amsicora, in assenza del padre, affrontò imprudentemente Tito Manlio Torquato con i suoi 22.000 fanti e 1.200 cavalieri, subendo una dura sconfitta.

In questo scontro, probabilmente nel Campidano di San Vero Milis, perirono 3.000 rivoltosi e 800 uomini furono fatti prigionieri.

Mentre il vittorioso Manlio si ritirava verso Carales, le forze di Amsicora e di Asdrubale si riunivano per organizzare una nuova offensiva.

Quest’ultima battaglia si svolse in una località non lontana da Carales, forse tra Sestu e Decimo, e vide vittoriosi i romani

Morirono 12.000 sardo-punici, 3.700 furono catturati, fra questi Asbrubale. Josto, secondo il racconto di Silio Italico, cadde vittima della lancia di Ennio, illustre poeta latino che in quegli anni serviva fra le truppe romane di stanza in Sardegna.

Amsicora, sconvolto per la morte del figlio e per l’esito disastroso della battaglia, si uccise durante la notte perché nessuno potesse impedirgli di compiere l’estremo gesto.

Note


[SEPPUKU] Cosa è lo Harakiri (腹切り)?

Per quanto strano possa sembrare, nessuno è in grado di precisare le origini del seppuku; questa forma atroce di suicidio.

Ma il seppuku (lettura più colta dei due ideogrammi di harakiri, “ventre – taglio“) divenne col tempo il modo di morire in quattro situazioni diverse.

Era l’ultimo rifugio per evitare un’indicibile disgrazia come quella di cadere nelle mani del nemico.

Poteva essere effettuato come JUNSHI, suicidio alla morte del proprio signore, oppure essere l’ultima risorsa per contestare un superiore di cui non si approvava il comportamento. Infine poteva essere la sentenza capitale imposta a un guerriero dalle autorità.

Lo HARAKIRI, detto anche seppuku, era naturalmente prerogativa della classe samuraica

A monaci, contadini, artigiani e mercanti non era concesso darsi questo tipo di morte.

Un nobile della corte di Kyoto, ad esempio, avrebbe preso il veleno, ciò sta a significare che lo harakiri fu scelto perché principalmente era la dimostrazione di un coraggio quasi sovrumano, qualità che insieme alla lealtà era la somma, indispensabile virtù del Samurai.

Per usare le parole di uno storico:

la scelta di tale estrema sofferenza fu senza dubbio correlata all’idea che era obbligatorio per i membri dell’elitaria classe marziale mostrare il proprio eccezionale coraggio e la propria determinazione nell’affrontare una prova così atroce che la gente comune non poteva affatto sopportare

Bisogna anche tener presente che il ventre (hara) in Giappone era considerato il centro dell’uomo, dove risiedevano il suo spirito, la sua volontà, le sue emozioni.

Chi si apprestava a fare il harakiri doveva essere pronto a esporre questa sede per dimostrare la propria sincerità. Un brano da Sole e acciaio di Mishima ci fornisce una spiegazione alquanto singolare di questa specifica concessione:

Prendiamo una mela, una mela intatta, l’interno della mela è naturalmente invisibile, così all’interno di questa mela, rinchiuso nella polpa del frutto, il torsolo si nasconde nella sua livida oscurità, tremante nell’ansiosa ricerca di sapere se è una mela perfetta.

È certo che la mela esiste, ma per il torsolo questa esistenza è ancora insufficiente, se le parole non possono confermarla, allora l’unico mezzo per farlo sono gli occhi.

In realtà per il torsolo la sola sicurezza di esistere è esistere e vedere allo stesso tempo, c’è un solo modo per risolvere questa contraddizione: conficcare un coltello ben dentro la mela, spaccarla ed esporre il torsolo alla luce, a quella stessa luce che vedeva la buccia.

Yukio Mishima, Sole e acciaio (titolo originale 太陽と鉄
Taiyō to tetsu)

Ma l’esistenza della mela finisce a pezzi, il torsolo sacrifica l’esistenza per vedere.

Col tempo si realizzò che la morte per seppuku era non solo coraggiosa, ma anche “bella“

Era considerata un’onorevole e quindi esteticamente soddisfacente fine per una vita, per quanto breve, di leale servizio.

Sin dall’inizio del Xlll secolo almeno, il seppuku come pratica comune divenne talmente parte della tradizione Samuraica, che al figlio di un guerriero gli venivano impartite già nell’infanzia istruzioni al riguardo.

In epoca posteriore il Seppuku divenne una cerimonia rituale, specie quando a un samurai veniva imposto (o dal Governo o dal suo signore feudale) il suicidio.

Già verso la fine del XVll secolo erano state codificate regole molto complicate, come il numero di tatami da usare e la loro disposizione.

I tatami erano stuoie di giunchi di circa un metro per due, usate per coprire i pavimenti delle case.

Dovevano essere bordati di bianco e su questi veniva posto un grande cuscino sul quale il guerriero che doveva fare seppuku si poneva in atteggiamento formale.

Inginocchiato e seduto eretto sui talloni, circa un metro dietro di lui alla sua sinistra, stava inginocchiato il kaishakunin, l’assistente al seppuku. Egli era un amico intimo del protagonista, che brandiva la spada nelle due mani e il suo compito era di decapitare l’amico nel momento concordato insieme prima della cerimonia.

Così a meno che non gli fosse ordinato diversamente, il kaishakunin cercava di cogliere il minimo accenno di sofferenza o di incertezza, pronto a decapitare il condannato appena questi si conficcava il pugnale nel ventre dopo averlo preso dal vassoio che gli stava di fronte.

Si dice che sovente la decapitazione avesse luogo appena il pugnale era tolto dal vassoio o addirittura al solo stendersi della mano verso di esso.

I coraggiosi che riuscivano a portarlo a termine, si tagliavano da sinistra a destra e quindi volgevano la lama verso l’alto, questa tecnica era conosciuta come jumonji, taglio traverso, poi interveniva il kaishakunin.

Note

Bibliografia

  • Yukio Mishima, Sole e acciaio (titolo originale 太陽と鉄
    Taiyō to tetsu) tradotto da Lydia Origlia, Prosa contemporanea, Guanda, 1982  ISBN 8877462159.

Harakiri (腹切り): Da Konishi Yukinaga all’Incidente di Kobe

Harakiri. Non tutti però avevano tale coraggio

Nella disfatta di un esercito per esempio, il comandante Ispida Mitsunari fu fatto prigioniero, ma non lo ritenne un’infamia intollerabile, disse agli uomini che avrebbe potuto uccidersi da solo, ma pensava fosse meglio lasciare il disturbo ai propri nemici.

Un altro importante prigioniero fu Konishi Yukinaga, il generale cristiano divenuto famoso durante la guerra di Corea.

Catturato, gli venne imposto di suicidarsi, ma rifiutò sostenendo che la sua fede cristiana lo considerava un peccato. In seguito venne decapitato sulle rive del fiume Kamo.

Un esempio ben documentato di Harakiri: L’incidente di Kobe

Esiste un classico resoconto di un seppuku, scritto da A.B. Mitford rappresentante della delegazione britannica.

L’avvenimento ebbe luogo alla fine del periodo feudale, in una notte del 1868, in un tempio presso Kobe.

Protagonista un Samurai di nome Taki Zenzaburo, reo di aver ordinato ai suoi uomini di far fuoco sulla colonna straniera di Kobe, con mano ferma prese il pugnale che gli stava dinnanzi e lo fissò intensamente, quasi con affetto.

Restò assorto per un momento, poi se lo conficcò in profondità al di sotto della cintura nella parte sinistra, lentamente lo portò a destra, poi lo rigirò nella ferita e lo trasse verso l’alto.

Durante questa tremenda operazione non in un muscolo della sua faccia si mosse, estrasse il pugnale e si abbandonò in avanti reclinando il collo.

A questo punto il kaishaku, che era rimasto accoccolato al suo fianco spiando attentamente ogni sua mossa, balzò in piedi brandendo alta la katana.

Un lampo, un tonfo sinistro, e con un solo colpo la testa rotolò via dal corpo.


Conclusioni

I tempi cambiano, ma chi ha innata la cultura e il senso dell’onore ancora oggi effettua il suicidio l’Harakiri.

Le motivazioni sono diverse, (vedi quel direttore di banca che aveva truffato i clienti) ma il risultato è lo stesso.

Harakiri anche senza il proprio kaishaku, il giappone una tradizione, una popolazione, un solo onore.

In Italia se ci fosse lo stesso principio dell’onore con relativo Harakiri, troveremmo tantissimi kaishaku e nessun candidato al Harakiri. Di questo ne sono più che convinto!

Note


[CULTURA ORIENTALE] La filosofia del Ki (氣)

Comincia così l’autentico cammino verso la trasformazione: l’osservazione senza giudizio delle azioni o dei pensieri positivi o negativi.

Qui si trova la chiave per la quale il desiderio non si trasforma in sofferenza, ed è la ragione più nobile per praticare le arti marziali o qualunque altra attività.

Nel cammino cosciente non dare importanza a ciò che ti succede (bene,male,positivo o negativo), limitati ad osservare il pensiero o l’avvenimento che sta succedendo e a sentire l’emozione che produce nel tuo corpo.

Un’emozione che è la reazione del corpo ad un pensiero ed una finestra per sentire il KI.

Affacciati, senza giudicare. Osserva semplicemente ed in quello stesso istante avrai iniziato il processo di trasformazione verso una nuova coscienza spirituale, in quel “qui ed adesso”.

Questo significa essere presente.

La ripetizione della cosiddetta “osservazione senza giudizio” col tempo finisce per trasformare una persona, permettendole di entrare tranquillamente in un mondo in armonia nel quale può portare a termine qualunque attività fisica o mentale, anche di grande intensità, ma sempre in armonia col presente, il qui e adesso che è l’unica cosa che merita importanza.

Questo è il cuore delle arti marziali o di qualunque altra attività: la capacità di trasformare l’essere umano rendendolo cosciente che il passato, il futuro ed il pensiero parassita sono le pesanti remore che ci impediscono di vivere nel presente, che è l’unica cosa che realmente viviamo.

Per fare un esempio è nel presente che deve manifestarsi l’amore, non nel passato o nel futuro che sono solo illusioni. Questo significa vivere in armonia.

Tutti conosciamo quegli anziani Maestri che c’impressionano per il KI che irradiano, al solo parlar con loro o stare alla loro presenza senza parlare, si avverte un alone di calore che ristora lo spirito, si “sente” ma non si sa cosa sia, né si è in grado di misurarlo, il che rende questa esperienza qualcosa di inquietante.

Sentono, non cercano, semplicemente ci sono

È ammirabile e desideriamo raggiungere quel grado di essere, ma l’obiettivo ci sembra impossibile da raggiungere e sfortunatamente i mezzi che usiamo finiscono per sembrare ginnastica aerobica o procedimenti di autosuggestione.

La motivazione e la ricerca sono due forme di KI allo stato primordiale, che possono interagire senza creare ego.

Il cammino è lungo, ma solo attraverso la conoscenza di noi stessi possiamo finalmente trovarlo, il KI!

Come può essere allenato il KI? È una domanda alquanto delicata. Quando qualcuno me lo ha chiesto, la mia risposta è stata “non si allena, lo si trova”. Approfondiamo l’argomento dell’articolo precedente.

Sembra però che durante il cammino molti si perdano e non trovino il modo di giungere a sentirlo, tanto meno a materializzarlo.

Non si possono fornire ricette per trovarlo o che garantiscano un sicuro successo, non si può giungere alla coscienza del KI neppure attraverso un cammino di forza o un allenamento estenuante, per questa via si arriva all’arroganza e alla fantasia dell’Ego.

Entrare attraverso la porta delle emozioni, che sono il riflesso fisico dei pensieri e non per intricati ed impervi luoghi della tecnica, è il modo migliore.

Osservare ogni azione realizzata e soprattutto non giudicare se stessi, né gli altri, è una buona via per cominciare a sentire la sottile energia che attraversa il corpo, il KI.

Questo è un cammino di sensibilità che ci arricchisce come persone e pertanto ha un gran potere di trasformazione.

La ricerca del KI avviene nel momento in cui siamo chiaramente coscienti di voler cercare qualcosa di non visibile che ci interessa e che racchiude un mistero, tutto ciò fa sì che questa esplorazione sia molto attraente.

Desideriamo trovare qualcosa che è nascosto dentro di noi, ciò che ci ha animati per tutta la vita e che alla fine essa continuerà fino all’infinito, ed è proprio qui che iniziano i problemi, perché il KI è un concetto astratto che non può essere misurato. È un’impressione, è sottile.

Non esiste nessuna macchina che possa dire “lei ha 15 unità di KI”, forse potrebbe manifestarsi attraverso qualche tipo di forza esteriore, ma questa non sarebbe altro che un semplice aneddoto, sarebbe come paragonare un riflesso di luce con l’energia emanata dal sole.

Il Desiderio, affermava Buddha, è la fonte di ogni sofferenza

Questa è una grande verità, tutto ciò che l’essere umano ha generato fin dagli albori, è stato spinto da una forma di energia chiamata “Desiderio”. Se non si riesce ad ottenere quanto desiderato, compare la frustrazione. Da questo stato mentale si passa poi ai pensieri errati che fanno perdere l’orizzonte di ciò che stavamo cercando all’inizio.

Ci perdiamo quindi in un mare di frustrazione che, sfortunatamente, finisce col trasformarsi in una molteplicità di nuove forme di pensiero che si alimentano da sole senza tregua ed indefinitamente. Il desiderio ed il maggior desiderio conducono alla distruzione di ciò che si stava cercando inizialmente. Questa avidità finisce facilmente col trasformarsi in violenza, le notizie d’attualità lo confermano quotidianamente.

Quindi, come trovare quel “qualcosa” che nelle arti marziali si chiama KI, senza che intervenga il desiderio, la frustrazione e perfino la violenza? La risposta si trova nella frase “Io sono quando io comprendo”.

Qui si esprime il profondo senso dell’Essere e del Stare. Quando io “Io Sono”, penetrò nell’oceano dell’Essere e “quando comprendo” mi trovo nel qui e adesso, che è l’unica cosa che esiste e che pertanto ci permette di relazionarci con il mondo fisico.

Nella frase “Io Sono quando io comprendo”, che non ha una forma, il desiderio non si attiva e senza una forma fisica o mentale non può esserci desiderio, se durante pratica delle arti marziali ci alleniamo senza desiderio e siamo mossi solo dal “desiderio” di comprendere, allora le vere pietre d’inciampo del cammino che si manifestano sotto, forma di arroganza, gelosia, violenza, vanità ecc… vengono usati come oggetti di meditazione.

Note