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[PILLOLE DI STORIA] Domenico Alberto Azuni, l’illustre giurista

Giurista insigne, gettò le basi del moderno diritto internazionale marittimo. Nacque a Sassari nel 1749 da famiglia medio borghese.

Laureatosi nel 1772 in leggi, dopo due anni di pratica legale, nel 1774 lasciò Sassari alla volta di Torino. Qui esercitò la pratica forense e, nel 1777, divenne pubblico funzionario dell’ufficio generale delle regie finanze.

Inviato a Nizza come giudice del consolato del commercio e del mare, ebbe modo di dimostrare la propria competenza e iniziò a pubblicare il Dizionario universale ragionato di giurisprudenza mercantile, in quattro volumi (1786-1788).

Quest’opera era il risultato di una ricerca sistematica di leggi e consuetudini delle città europee e si imponeva per le concezioni ampie e innovative, che raccordavano cambio, traffici ed attività marinare attraverso norme internazionali.

Per il giurista sardo i riconoscimenti non si fecero attendere

Vittorio Amedeo III conferì all’Azuni il titolo e i privilegi di senatore (1789) e lo incaricò di redigere il piano per il codice della marina mercantile degli Stati Sardi (1791).

Occupata Nizza dai francesi nel 1792, lo studioso fu costretto ad abbandonare la città ed a rifugiarsi a Torino. Iniziò un periodo difficile, segnato dalle invidie per la sua rapida e brillante carriera, che lo portò a trasferirsi a Firenze.

Chiese di tornare in Sardegna con un impiego ufficiale, ma anche questo, per volere degli stamenti sardi, gli fu negato. Seguirono privazioni e altri trasferimenti a Modena, Trieste e Venezia.

Nonostante le difficoltà, l’Azuni continuò a studiare, giungendo a pubblicare nel 1796 Sistema universale dei principi del diritto marittimo d’Europa, opera importantissima che gli valse la cittadinanza onoraria della città di Pisa (1796) e l’incarico da parte di Napoleone di redigere con altri giuristi il nuovo codice marittimo e commerciale francese (1801).

Negli anni 1799-1802 ebbe anche modo di dedicare alla Sardegna, sempre amata nonostante il rifiuto patito, le opere Essai sur l’histoire géographique, politique te naturelle du royaume de Sardaigne e Histoire géographique, politique et naturelle de la Sardaigne.

Queste opere mettevano in evidenza la centralità strategica dell’isola nel Mediterraneo e ne analizzavano le problematiche economiche in un’ottica straordinariamente moderna.

Pubblicò Droit Maritime de l’Europe nel 1805 e Origine et progrès de la législation maritime nel 1810, anno in cui fu anche nominato da Bonaparte cavaliere dell’Impero.

Gli ultimi anni

Con la successiva caduta di Napoleone, di cui era ritenuto un sostenitore, l’Azuni fu esonerato da ogni incarico. Come conseguenza si ritrovò a vivere nella sua casa di Genova in un’umiliante indigenza.

Nel 1818 il giurista Azuni entrò nella Reale Società Agraria ed Economica cittadina

Nel 1818, per l’intervento di influenti personaggi vicini al re Vittorio Emanuele I, fu nominato giudice del Supremo Magistrato del Consolato di Cagliari. Entrò infine a far parte della Reale Società Agraria ed Economica cittadina.

Dal 1820 alla pensione, avvenuta nel 1825, fu presidente della biblioteca universitaria di Cagliari: ruolo che svolse con particolare passione, rilanciando l’istituzione.

Morì nel 1827 lasciando i suoi beni ad una giovane donna, Maria Carpi, che l’aveva assistito fino alla fine con l’affetto di una figlia. Fu sepolto, come egli espressamente indicò, nella chiesa di Bonaria.

Note


Storia delle Arti Marziali

Nan-in, un maestro giapponese dell’epoca Meji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.

Nan-in servì il te, colmò la tazza del suo ospite e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè dalla tazza, poi non riuscendo più a contenersi disse “È ricolma, non ne entra più!” 

Come questa tazza disse Nan-in, tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture, come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?

Chiunque si cimenti nella storia delle arti marziali, rimarrà deluso, poiché non esistono documenti e nemmeno date certe sulla loro nascita e sul loro sviluppo

Sicuramente quello che oggi intendiamo come “Arti Marziali“, deriva dall’Oriente e ha nulla o poco a che vedere con i Greci ed il loro combattimento chiamato Pancrazio, che finiva quasi sempre con la morte dello sconfitto. E nemmeno con i gladiatori Romani, dove il combattimento si trasformò in spettacolo.

Pur se tutti si addestravano in scuole speciali, le arti marziali propriamente dette derivano da un elemento comune e fondamentale, dalla tradizione religiosa e medica, cioè dall’uso calcolato della respirazione per acquistare forza, calma e potenza.

Inoltre lo storico si scontra con un aspetto fondamentale dell’Oriente, i maestri di un tempo (ma accade ancora oggi), non rivelavano facilmente il loro sapere e a pochi veniva concesso e tramandato (solo oralmente, dopo un giuramento di segretezza), solo alcune tecniche venivano trascritte su pergamene e consegnate direttamente dal maestro all’allievo.

Quindi non avendo fonti storiche precise, dobbiamo rifarci ai miti e alle leggende e sostenerle con date e avvenimenti storici realmente accaduti. Molti credono che le arti marziali risalgano al Vl secolo d.C. e che si siano sviluppate in Cina.

Ci si basa sulla leggenda di un monaco indiano chiamato BODHIDHARMA, giunto in Cina nel regno dei Wei, nei monti Song Shan, nel tempio di Shao Lin

Questo monaco insegnava un modo nuovo e diretto di approccio al Buddismo, diretto e con lunghe meditazioni (si narra che lui stesso fosse stato in meditazione per nove anni in una caverna).

Per sopportare le lunghe ore di meditazione, insegnò delle tecniche di respirazione e degli esercizi per sviluppare la forza e le capacità di autodifesa.

Da questi insegnamenti è nato il dhyana o “scuola meditativa del Buddismo“ chiamata in Cina Chan ed in Giappone Zen.

Ma la storia ci ha dimostrato che in India e in Cina le arti marziali erano già diffuse prima dell’arrivo del Bodhidharma.

Anche in Cina, come in tutto il mondo, si passò gradualmente da piccoli stati indipendenti ad un’unica nazione.

Logicamente piccoli centri con piccoli eserciti (anche se talvolta l’esito di una guerra era affidato ad un combattimento individuale), successivamente la prosperità portò alla costruzione e alla edificazione di città e centri abitati.

È difficile trovare dei libri che diano indicazioni precise sulle origini delle arti marziali

Vi sono infatti molti dubbi relativi alle fonti, poiché i documenti trovati sono molto incerti e poco chiari in quanto i monaci fondatori, tramandavano verbalmente il loro sapere.

Forse la testimonianza più antica sulle origini delle arti marziali risale al ritrovamento di due statuette babilonesi datate tra il 3000 e il 2000 a.C, che rappresentano la parata, cioè la posizione fondamentale nelle moderne arti marziali.

Altrettanto insicure sono le fonti che testimoniano in Mesopotamia la nascita delle arti marziali

Un luogo che con le sue ricchezze avrebbe avuto la possibilità di mantenere “professionisti “in molti campi, soprattutto i praticanti di arti marziali, in quanto necessitavano di tempo per gli allenamenti e lo studio. Il risultato di queste applicazioni avrebbe portato il praticante di arti marziali a seguire un mercante o un sovrano come guardia del corpo.

Il problema che mette in dubbio una probabile relazione commerciale tra i paesi dell’Asia sarebbe data dall’incredula possibilità dei commercianti di riuscire ad attraversare un continente così vasto.

Ci sono, al contrario delle fonti che testimonierebbero i primi commerci tra la civiltà dell’India settentrionale e la Mesopotamia, verso il 2500 a.C e che, verso il 1300 a.C., in un’area che si estendeva dalla Cina all’Europa, circolava un’ascia di bronzo.

Benché tra India e Mesopotamia si commerciasse già dal 2500 a.c., sembra che gli scambi tra India e Cina si possano far risalire solo al Vl secolo d.C.

Perché fu in quel periodo che i monaci che percorrevano  le vie della seta, iniziarono a fondare templi utilizzati come centri culturali.

L’arte che aveva le radici in Mesopotamia si diffuse in Oriente, dove la Cina e l’India raccolsero le nozioni primitive che trasformarono, fino a culminare in quelle che oggi sono le tecniche più sofisticate che fanno parte dell’arte marziale.

L’arte marziale è il risultato di quello che nel passato fu un uso calcolato della respirazione e di una serie di esercizi combinati, per cercare di sviluppare doti come la forza, la potenza, la calma, unite ad uno spiccato senso religioso.

Nelle scuole, che si identificavano principalmente nei monasteri, la pratica si svolgeva in assoluta segretezza

Perfino le stesse scuole venivano tenute nascoste alle autorità

Il sapere può essere comunicato, ma la sapienza no. Non può essere trovata, ma può essere vissuta

Le tecniche di combattimento non venivano trascritte, ma tramandate verbalmente soltanto a coloro che avevano giurato di mantenere il segreto ed è per questo motivo che si ha difficoltà a recuperare gli scritti.

Se mi accorgo che qualcuno mi guarda con odio, non reagisco. Mi limito a fissarlo negli occhi, avendo cura di non trasmettergli alcuna sensazione d’ira o di pericolo ed il combattimento ancor prima di cominciare è già finito. Il nemico da battere è dentro di noi. Le arti marziali non significano violenza, ma conoscenza di sé stessi e degli altri

In Oriente si presuppone che la differenziazione di questa disciplina avvenne in un periodo compreso tra il V secolo a.C. e il lll secolo d.C.

In questo periodo non si deve fare distinzione tra le arti marziali e la guerra, dato che entrambi hanno a che fare con il combattere.

Prima del 500 a.C. l’attuale Repubblica Popolare Cinese era suddivisa in tante piccole nazioni, dove gli eserciti si trovavano a combattere individualmente, mettendo in pratica ciò che costituisce l’attuale arte marziale.

Gradualmente questi piccoli stati furono annessi a quelli più potenti e il risultato fu uno sviluppo del commercio.

Si crearono nuovi eserciti sempre più addestrati e preparati e anche le armi risultavano più potenti grazie all’utilizzo di acciaio sempre più raffinato e resistente.

Dal 300 a.C. le arti militari si trasformarono in arti marziali grazie allo sviluppo del commercio

Mercanti che dovevano attraversare le campagne colme di fuorilegge, erano obbligati ad assumere “guardie del corpo“ che proteggessero la loro merce, probabilme

Importante è la nascita de Buddismo nel 560 a.C. per opera del principe Gautama Siddharta Buddha in India che ha influenzato in modo radicale le scuole di India, Cina e Giappone.

In India nella seconda metà del l millennio a.C. il grado di specializzazione militare era inferiore rispetto a quello raggiunto in Cina

Il motivo va ricercato nel fatto che qui i combattenti venivano assoldati tra gli aristocratici istruiti e colti che limitavano la pratica dell’arte marziale ad un semplice addestramento generale.

Torniamo alla leggenda del monaco BODHIDARMA

Nel corso del suo pellegrinaggio pare avesse introdotto nel tempio di Sahaolin un metodo basato sull’addestramento relativo alla convinzione che corpo e mente non sono due entità separate ed in contrapposizione tra di loro.

Da questo particolare insegnamento nacque il chan cinese e lo zen giapponese

Se la leggenda corrispondesse alla verità, la figura di BODHIDARMA, avrebbe una doppia importanza in quanto fondatore della lotta Sahaolin e del Buddismo Chan.

Il tempio di Sahaolin fu costruito nel V secolo d.C., dal 528 fu destinato all’alloggiamento delle truppe e bruciò nel 535.

L’arte marziale militare si diffuse grazie all’espansione di religioni quali il taoismo e il buddismo in Cina e lo zen in Giappone.

Si affiancò così alle tecniche di combattimento il concetto di sviluppo spirituale e della salute fisica.

Tra le arti marziali di Cina e India esisteva una relazione molto stretta

Gli stili militari tra Cina e India erano completamente diversi.

Ma tra le arti marziali dei due paesi esisteva una relazione molto stretta.

Per esempio la sequenza dei movimenti di una particolare arte Marziale Indiana, il Kalaripayat, era molto simile a quella del Kung fu praticato ad Hong Kong.

Ci sono alcune fonti che testimonierebbero la nascita delle arti marziali prima ancora dell’arrivo del Grande Maestro.

Secondo Hua Duo, un medico vissuto durante il periodo dei Tre Regni, la tecnica si basava sui movimenti di cinque animali: la tigre, l’orso, la scimmia, la cicogna e il cervo.

La sequenza di questi movimenti sta alla base dell’arte marziale cinese che si pratica attualmente ed è per questo motivo che esistono molte controversie sulla precisa nascita delle arti marziali.

Parallelamente a questo periodo nell’India meridionale si presume tramandassero giá i metodi per colpire i punti vitali dell’avversario (cioè quelli che necessitavano di un solo colpo per abbatterlo).

Ne sono testimonianza i Sastra, gli antichi testi indiani.

Il problema relativo agli scambi culturali tra questi due paesi può essere spiegato se si pensa che a quell’epoca esistevano categorie quali mercanti e monaci diplomatici e la strada che divideva l’India dalla Cina era lunga e pericolosa.

Per questo motivo i mercanti assumevano guardie del corpo ben addestrate che avevano la possibilità di incontrare nuove culture ed evolversi.

Questo successe ancora prima della nascita del BUDDHA. Verso la metà del Vl secolo a.C. quando il Buddismo iniziò a rafforzarsi, i monaci indiani iniziarono a viaggiare.

La prima comunità buddista insediatasi in Cina risale al 65 d.C.

Da questo momento iniziò un’invasione della cultura Indiana in quella Cinese  alla ricerca dei luoghi santi.

È impossibile stabilire con precisione se le arti marziali siano nate prima in Cina o in India

È sicuro che entrambe presentano una stretta relazione con le arti marziali attuali.

Inoltre, le dottrine del Buddismo, Confucianesimo e Taoismo sono alla base delle tradizioni delle arti marziali che hanno coinvolto tutta l’Asia. Dal lll secolo d.C.

Le arti marziali hanno subito un arricchimento sia dal punto di vista tecnico che filosofico a fianco della religione Buddista.

Sono tante le arti marziali che possiamo distinguere oggi. Tale diversificazione è stata determinata dal coinvolgimento di paesi come la Corea, il Giappone ed il sud-est Asiatico.

Il Giappone è il paese che più di tutti ha subito l’influenza della cultura Cinese

Si può affermare che il Giappone è il paese che più di tutti ha subito l’influenza della cultura Cinese.

Attualmente vanta il maggior numero di praticanti in rapporto alla popolazione e la maggior varietà di discipline.

L’Occidente benché avesse avuto fin dal 1400 dei rapporti con l’Oriente, non si avvicinò alla pratica della arti marziali.

Questo perché i Maestri erano molto gelosi delle loro conoscenze e, inoltre, non vedevano positivamente la presenza di questi  “stranieri“

Fu solo nel 1900 che il judo e altre arti marziali vennero importati in Occidente.

L’interesse crebbe sino al 1945 in corrispondenza della seconda guerra mondiale. Molti soldati occidentali che si trovavano in Giappone infatti studiarono le arti marziali che poi insegnarono e diffusero.

Minor successo ebbero, invece, le discipline cinesi anche per la segretezza predetta.

Note


Le Arti Marziali: Un breve cenno introduttivo

Ogni strada è soltanto una tra un milione di strade possibili, perciò dovete sempre tenere presente che una via è soltanto una via.

Se sentite di non doverla percorrere, non siete obbligati a farlo in nessun caso.

Arte Marziale è un termine normalmente utilizzato nella lingua Italiana per definire un insieme variegato di discipline legate all’utilizzo del corpo e di armi per difendersi e combattere.

L’accostamento dei due termini sembra indirizzare chi cerca a percepire in questa forma dell’agire l’umano, una natura simbiotica che è atto filosofico e pura e semplice gestualità insieme, se per la parola Arte possiamo percorrere un percorso descrittivo “largo” e polivalente.

Arte è infatti quella gamma di attività umane regolate da accorgimenti tecnici e fondata nelle sue diverse espressioni o applicazioni dallo studio dell’esperienza vera o idealizzata che si ha degli eventi.

Per l’aggettivo marziale definirne un preciso riferimento etimologico nei termini Mars Martis, quindi a Marte il dio della guerra non è sufficiente a chiarirne i contorni.

Anzi per contrasto arte marziale trova nel dizionario la seguente definizione “insieme di varie tecniche di difesa personale, d’antica origine orientale volte a neutralizzare l’aggressore mediante particolari colpi o movimenti, senza ricorrere all’uso delle armi da punta  da taglio e da fuoco“

Questa descrizione non corrisponde però a quello che le Arti Marziali oggettivamente sono, anche se limitassimo il nostro orizzonte al solo Oriente, che ne sarebbe ad esempio dello Iaido, del Krabi Krabong, dell’Arnis e di tutte le altre arti che utilizzano le armi manesche siano esse solo di bastoni o lame affilate?

Superiamo quindi questa definizione e cerchiamone una più allargata evitando anche la generalizzazione che identifica e collega solo all’Oriente le Arti Marziali

Se vogliamo dare a questo termine un valore universale, la definizione potrebbe suonare all’incirca come

Insieme di pratiche, di diversa collocazione geografica, originate da primordiali espressioni di sopravvivenza ed evolutesi in forme arcaiche e condivise di autodifesa e di difesa della famiglia, clan o gruppo di appartenenza e solo successivamente attraverso lo sviluppo di conoscenze di tecniche a mani nude e con l’ausilio di strumenti e/o armi e da botta sviluppate e codificate in metodi, sistemi di combattimento tramandati in forma orale, scritta o dovuta alla pratica tramandata non senza  tantissime variazioni e segretezza”

Questa condizione finale, filosofico/ pratica, ci offre quella visione “sublime”, che assegna all’Arte Marziale un ruolo ben superiore al normale agire, trasfigurandone gli atti e gli effetti.

Essa non è più l’essenziale e cruda pratica guerriera di chi ci precedette, anche se questo è sempre stata per dato di fatto e per necessità oggettive, ma è o diviene “Arte” attraverso la trasfigurazione della pura violenza in ricerca della purezza del gesto.

Un mondo questo, difficile da collocare (sport, cultura, tempo libero, hobbie,forma fisica, difesa personale, combattimento, cosa fa il praticante di arti marziali di tutto questo)? 

Se non dalle definizioni correnti perché non aderenti al ruolo assunto dall’Arte Marziale per eredità storica e filosofica.

L’uomo è l’unico essere vivente che per la sua stessa natura non è solo il prodotto di un’evoluzione naturale.

La sua parabola dopo i primi incerti instanti dalla sua comparsa è diventata quella di soggetto attivo, creativo ed interattivo.

Nel suo rapporto con il mondo circostante egli infatti ha operato, e continua a farlo, utilizzando idee e strumenti in maniera del tutto propositiva.

Al naturalmente acquisito l’uomo aggiunge l’invenzione, il progetto, la creazione, la procedura, l’analisi e l’esecuzione più consona.

Tutte abilità che non sono naturalmente date e che rappresentano la sacrale elevazione della condizione umana. 

Le Arti Marziali sono una parte di tutto ciò

Come ogni attività umana si fondano sulla capacità umana di pensare e di trovare soluzioni sempre più aderenti alle esigenze.

Come tali nascono insieme all’uomo.

Inizialmente queste prime espressioni di forza focalizzata erano necessità vitale tesa a soddisfare il bisogno naturale di nutrirsi.

Servirono quindi per condizionare e intensificare gli atti legati alla caccia in risposta a capacità naturali ben inferiori a quelle animali.

Soddisfatta la necessità “vitale” di superare l’animale gli ingegni di forza vennero diretti contro altri uomini

In un secondo momento, soddisfatta la necessità “vitale” di superare l’animale, gli ingegni di forza vennero diretti contro altri uomini quale forma di tutela individuale o legata al gruppo di appartenenza.

Lo sviluppo di abilità combattive per successive necessità vitali portò progressivamente verso una “standardizzazione” delle competenze e con l’avvento delle prime grandi civiltà iniziò anche una vera e propria codifica delle tecniche e dei principi che governano le abilità nel combattimento.

I primi documenti ad oggi scoperti che possiamo definire relativi ad Arti Marziali ci portano davvero lontano alla Bibbia (XIX – XVII sec. a.C) dove si trova la descrizione di una tecnica all’interno di una lotta tra Giacobbe ed un angelo:

(…) ed ecco , un uomo lottò con lui fino allo spuntar dell’aurora, questi vedendo che non lo poteva superare, lo colpì nell’articolazione del femore slogandolo (genesi 32,25)

È alla civiltà Egizia che dobbiamo i primi scritti sulle Arti Marziali

Ma è alla civiltà Egizia che dobbiamo i primi documenti scritti, o meglio dipinti, veri e propri manuali tecnici sulle Arti Marziali.

I maggiori reperti sono quelli della tomba di Beni Hassan le oltre 400 figure dipinte da un ignoto artista.

In rosso chiaro e tinta bruna su muro per evidenziare attaccante e difensore, rappresentano scene di lotta con innumerevoli prese e azioni di lotta.

Altre sessanta immagini di lotta sono state ritrovate sulle pareti della tomba di Amenapt monarca di Menat-Khuffa e altre 220 azioni di combattimento tra lottatori egizi e stranieri sono quelle dipinte nella tomba di Baktas, monarca dell’ Opice Bianco.

Altri documenti Marziali sono quelli a Saqqara nella tomba di Ti

Altri importanti documenti Marziali sono quelli scolpiti sulle pareti di roccia a Saqqara nella tomba di Ti, un alto funzionario della V dinastia.

Gli egizi furono anche i precursori dei giochi a carattere agonistico sacrale che troveremo poi nella Grecia e a Creta.

Erodoto infatti, quando visitò l’Egitto, lasciò descrizioni di questi grandiosi tornei (vere e proprie feste popolari) nei quali si poteva assistere a confronti di lotta, corsa, regate ed anche combattimenti con bastoni.

Erodoto definì questi eventi con il nome greco Panegirie

È interessante osservare, per avere un riscontro sull’importanza di questi, che i geroglifici dell’obelisco che si trova a Roma attribuiscono al Faraone Ramsete il titolo si signore delle Panegirie.

Mille anni dopo ritroviamo immagini di lotta e combattimento nelle pitture minoiche della civiltà Cretese.

Con la bellissima scena di pugilato dipinta sul muro della casa di Thera (1550 a. C.) anche se dobbiamo aspettare l’illiade di Omero per avere la prima relazione su un incontro di lotta Marziale tra Ulisse ed Aiace Telamonio

(…) Pensò inganno Odiesseo (Ulisse) e al polpaccio riuscì a colpirlo da dietro, gli sciolse le gambe, cadde all’indietro Aiace e anche Odesso sul petto gli cadde, la gente guardava e rimaneva stupita (Illiade XXIII 725)

Note


[CULTURA ORIENTALE] La filosofia del Ki (氣)

Comincia così l’autentico cammino verso la trasformazione: l’osservazione senza giudizio delle azioni o dei pensieri positivi o negativi.

Qui si trova la chiave per la quale il desiderio non si trasforma in sofferenza, ed è la ragione più nobile per praticare le arti marziali o qualunque altra attività.

Nel cammino cosciente non dare importanza a ciò che ti succede (bene,male,positivo o negativo), limitati ad osservare il pensiero o l’avvenimento che sta succedendo e a sentire l’emozione che produce nel tuo corpo.

Un’emozione che è la reazione del corpo ad un pensiero ed una finestra per sentire il KI.

Affacciati, senza giudicare. Osserva semplicemente ed in quello stesso istante avrai iniziato il processo di trasformazione verso una nuova coscienza spirituale, in quel “qui ed adesso”.

Questo significa essere presente.

La ripetizione della cosiddetta “osservazione senza giudizio” col tempo finisce per trasformare una persona, permettendole di entrare tranquillamente in un mondo in armonia nel quale può portare a termine qualunque attività fisica o mentale, anche di grande intensità, ma sempre in armonia col presente, il qui e adesso che è l’unica cosa che merita importanza.

Questo è il cuore delle arti marziali o di qualunque altra attività: la capacità di trasformare l’essere umano rendendolo cosciente che il passato, il futuro ed il pensiero parassita sono le pesanti remore che ci impediscono di vivere nel presente, che è l’unica cosa che realmente viviamo.

Per fare un esempio è nel presente che deve manifestarsi l’amore, non nel passato o nel futuro che sono solo illusioni. Questo significa vivere in armonia.

Tutti conosciamo quegli anziani Maestri che c’impressionano per il KI che irradiano, al solo parlar con loro o stare alla loro presenza senza parlare, si avverte un alone di calore che ristora lo spirito, si “sente” ma non si sa cosa sia, né si è in grado di misurarlo, il che rende questa esperienza qualcosa di inquietante.

Sentono, non cercano, semplicemente ci sono

È ammirabile e desideriamo raggiungere quel grado di essere, ma l’obiettivo ci sembra impossibile da raggiungere e sfortunatamente i mezzi che usiamo finiscono per sembrare ginnastica aerobica o procedimenti di autosuggestione.

La motivazione e la ricerca sono due forme di KI allo stato primordiale, che possono interagire senza creare ego.

Il cammino è lungo, ma solo attraverso la conoscenza di noi stessi possiamo finalmente trovarlo, il KI!

Come può essere allenato il KI? È una domanda alquanto delicata. Quando qualcuno me lo ha chiesto, la mia risposta è stata “non si allena, lo si trova”. Approfondiamo l’argomento dell’articolo precedente.

Sembra però che durante il cammino molti si perdano e non trovino il modo di giungere a sentirlo, tanto meno a materializzarlo.

Non si possono fornire ricette per trovarlo o che garantiscano un sicuro successo, non si può giungere alla coscienza del KI neppure attraverso un cammino di forza o un allenamento estenuante, per questa via si arriva all’arroganza e alla fantasia dell’Ego.

Entrare attraverso la porta delle emozioni, che sono il riflesso fisico dei pensieri e non per intricati ed impervi luoghi della tecnica, è il modo migliore.

Osservare ogni azione realizzata e soprattutto non giudicare se stessi, né gli altri, è una buona via per cominciare a sentire la sottile energia che attraversa il corpo, il KI.

Questo è un cammino di sensibilità che ci arricchisce come persone e pertanto ha un gran potere di trasformazione.

La ricerca del KI avviene nel momento in cui siamo chiaramente coscienti di voler cercare qualcosa di non visibile che ci interessa e che racchiude un mistero, tutto ciò fa sì che questa esplorazione sia molto attraente.

Desideriamo trovare qualcosa che è nascosto dentro di noi, ciò che ci ha animati per tutta la vita e che alla fine essa continuerà fino all’infinito, ed è proprio qui che iniziano i problemi, perché il KI è un concetto astratto che non può essere misurato. È un’impressione, è sottile.

Non esiste nessuna macchina che possa dire “lei ha 15 unità di KI”, forse potrebbe manifestarsi attraverso qualche tipo di forza esteriore, ma questa non sarebbe altro che un semplice aneddoto, sarebbe come paragonare un riflesso di luce con l’energia emanata dal sole.

Il Desiderio, affermava Buddha, è la fonte di ogni sofferenza

Questa è una grande verità, tutto ciò che l’essere umano ha generato fin dagli albori, è stato spinto da una forma di energia chiamata “Desiderio”. Se non si riesce ad ottenere quanto desiderato, compare la frustrazione. Da questo stato mentale si passa poi ai pensieri errati che fanno perdere l’orizzonte di ciò che stavamo cercando all’inizio.

Ci perdiamo quindi in un mare di frustrazione che, sfortunatamente, finisce col trasformarsi in una molteplicità di nuove forme di pensiero che si alimentano da sole senza tregua ed indefinitamente. Il desiderio ed il maggior desiderio conducono alla distruzione di ciò che si stava cercando inizialmente. Questa avidità finisce facilmente col trasformarsi in violenza, le notizie d’attualità lo confermano quotidianamente.

Quindi, come trovare quel “qualcosa” che nelle arti marziali si chiama KI, senza che intervenga il desiderio, la frustrazione e perfino la violenza? La risposta si trova nella frase “Io sono quando io comprendo”.

Qui si esprime il profondo senso dell’Essere e del Stare. Quando io “Io Sono”, penetrò nell’oceano dell’Essere e “quando comprendo” mi trovo nel qui e adesso, che è l’unica cosa che esiste e che pertanto ci permette di relazionarci con il mondo fisico.

Nella frase “Io Sono quando io comprendo”, che non ha una forma, il desiderio non si attiva e senza una forma fisica o mentale non può esserci desiderio, se durante pratica delle arti marziali ci alleniamo senza desiderio e siamo mossi solo dal “desiderio” di comprendere, allora le vere pietre d’inciampo del cammino che si manifestano sotto, forma di arroganza, gelosia, violenza, vanità ecc… vengono usati come oggetti di meditazione.

Note


Capire la rabbia: Consigli utili per ogni evenienza!

Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile, ma arrabbiarsi con la persona giusta, nella misura giusta, al momento giusto e nel modo giusto, questo non è nelle possibilità di chiunque e non è facile

Aristotele

La rabbia è una emozione tipica, considerata fondamentale da tutte le teorie psicologiche poiché per essa è possibile identificare una specifica origine funzionale, degli antecedenti caratteristici, delle manifestazioni espressive e delle modificazioni fisiologiche costanti, delle prevedibili tendenze all’azione.

Essendo un’emozione primitiva, insieme alla gioia e al dolore, essa può essere osservata sia nei bambini molto piccoli che in specie animali diverse.

Essa è inoltre l’emozione la cui manifestazione viene maggiormente inibita dalla cultura, dalle società attuali

La rabbia fa parte della triade delle ostilità insieme al disgusto ed al disprezzo e ne rappresenta il fulcro e l’emozione di base.

Tali sentimenti si presentano spesso in combinazione e pur avendo origini, vissuti e conseguenze diverse, risulta difficile identificare l’emozione che predomina sulle altre.

Moltissimi risultano essere i termini linguistici che si riferiscono a questa reazione emotiva, collera, esasperazione, furore ed ira, e rappresentano tutti lo stato emotivo intenso della rabbia, altri invece esprimono lo stesso sentimento ma di intensità minore, come irritazione, fastidio, impazienza.

Per la maggior parte delle teorie la rabbia rappresenta la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione sia fisica che psicologica

Pur rappresentandone i denominatori comuni, la costrizione e la frustrazione da sole non costituiscono le condizioni sufficienti e neppure necessarie perché si origini il sentimento della rabbia.

La relazione casuale che lega la frustrazione alla rabbia non è affatto semplice.

Altri fattori sembrano implicati affinché si origini l’emozione della rabbia, quali la responsabilità e la consapevolezza che si attribuisce alla persona/cosa che induce frustrazione o costrizione sembrano altri fattori importanti.

Ancor più delle circostanze concrete del danno, quello che più pesa nell’attivare una emozione di rabbia sembra cioè essere la volontà che si attribuisce all’altro di ferire e l’eventuale possibilità di evitare l’evento o situazione frustrante.

Insomma ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno, soprattutto quando viene percepita l’intenzionalità di ostacolare l’appagamento.

L’emozione della rabbia può essere quindi definita come la reazione che consegue ad una precisa sequenza di eventi:

  • Stato di bisogno;
  • Oggetto (vivente o non vivente) che si oppone alla realizzazione di tale bisogno;
  • Attribuzione a tale oggetto dell’intenzionalità di opporsi;
  • Assenza di paura verso l’oggetto frustrante;
  • Forte intenzione di attaccare, aggredire l’oggetto frustrante;
  • Azione di aggressione che si realizza mediante l’attacco.

Questo avviene in natura, anche se l’evoluzione sembra aver plasmato forti segnali che inducono la paura e di conseguenza la fuga, impedendo così l’aggressione dell’avversario.

Nella specie umana si assiste non solo ad una inibizione della tendenza all’azione di aggressione attacco, ma addirittura al mascheramento dei segnali della rabbia verso l’oggetto frustrante

Nella specie umana inoltre la cultura e le regole sociali a volte impediscono di dirigere la manifestazione dell’azione direttamente verso l’agente che scatena la rabbia.

Tre possono quindi essere i fondamentali destinatari finali della nostra rabbia:

  • Oggetto che provoca la frustrazione;
  • Un oggetto diverso rispetto a quello che provoca la frustrazione (spostamento dell’obiettivo originale);
  • Autolesionismo ed auto aggressione (la rabbia quindi può infine essere diretta verso sé stessi).

Per quanto siano estremamente forti le pressioni contro la manifestazione della rabbia, essa possiede una tipica espressione, ben riconoscibile in tutte le culture studiate:

  • Aggrottaménto violento della fronte e delle sopracciglia;
  • Scoprire e digrignare i denti;
  • Tutta la muscolatura del corpo può estendersi fino all’immobilità;
  • La paura di perdere il controllo;
  • L’irrigidimento della muscolatura;
  • La voce si fa più intensa, il tono sibilante, stridulo e minaccioso;
  • L’organismo si prepara all’azione, all’attacco e all’aggressione attraverso una forte attivazione del SNA Simpatico, ossia accelerazione del battito cardiaco, aumento della pressione arteriosa e dell’irrorazione dei vasi sanguigni periferici, aumento della tensione muscolare e della sudorazione.

Le modificazioni psicofisiche che si manifestano attraverso la potente impulsività e la forte propensione all’agire con modalità aggressive sono funzionali alla rimozione dell’oggetto frustrante

La rabbia è sicuramente uno stato emotivo che aumenta nell’organismo il propellente energetico utilizzabile per passare alle vie di fatto, siano queste azioni oppure solo espressioni verbali.

La rimozione dell’ostacolo che si oppone alla realizzazione del bisogno può avvenire sia attraverso l’induzione della paura e la conseguente fuga, sia mediante un violento attacco.

Le numerose ricerche compiute sui comportamenti di specie diverse dall’uomo hanno dimostrato che l’ira e le conseguenti manifestazioni aggressive sono determinate da motivi direttamente o indirettamente legati alla sopravvivenza dell’individuo e delle specie.

Gli animali spesso attaccano perché qualcosa li spaventa oppure perché vengono aggrediti da predatori, per avere la meglio sul rivale sessuale, per cacciare un intruso dal territorio o per difendere la propria prole.

Negli uomini invece, i motivi alla base di un attacco di rabbia riguardano maggiormente la frustrazione di attività che erano connesse con l’immagine e la realizzazione di sé. Lo scopo in questo caso sembra più rivolto a modificare un comportamento che non si ritiene adeguato.

Riconoscere la rabbia

Il punto importante da comprendere a proposito della rabbia è che, nonostante venga spesso etichettata come emozione negativa e da evitare in noi come negli altri.

Di fatto diventa negativa e soprattutto distruttiva quando non viene riconosciuta e usata al momento in cui emerge, ma viene repressa con conseguenze dannose non solo per se stessi ma anche per gli altri.

Il problema è che fin dalla tenera età ci viene insegnato che è cattivo e sbagliato esprimere la collera, ancora oggi questa emozione viene considerata inopportuna, irragionevole, associata all’aggressività ed al capriccio.

La gente è spesso spaventata dalla propria rabbia, teme che la spinga a compiere qualche azione dannosa e, di conseguenza, ci si rifiuta di prestare attenzione alla collera degli altri e si esita ad esprimere la propria.

È importante quindi considerare che se non ci siamo mai concessi di esprimere la rabbia probabilmente ne abbiamo accumulato una montagna dentro di noi.

Reprimendola, è più probabile che la rabbia esploda in momenti inopportuni e soprattutto verso persone o situazioni che hanno poco a che fare con la causa originale della rabbia che ci ribolle dentro, ed è anche più probabile che ce la prendiamo con chi crediamo sia più debole di noi, non fosse altro che per avere un minimo di senso di potere.

Un atteggiamento questo, tipico delle bestie. Temere il più forte e sopraffare il più debole, quando invece l’essere umano, a differenza degli animali, può dominare i suoi istinti.

La rabbia repressa si ritorce contro noi stessi con attacchi depressivi e alimenta uno stato di inferiorità

Inoltre quando la mente non riesce più a gestire i conflitti, il corpo ne soffre, numerose affezioni psicosomatiche come mal di schiena, ulcere, psoriasi, possono essere legate al soffocamento della rabbia.

È fondamentale dunque per la nostra salute psicofisica imparare ad esprimere la collera in maniera costruttiva ed appropriata. Sono numerosi gli episodi, per esempio, negli sport da combattimento.

Le provocazioni dell’avversario anche in maniera pesante affinché la rabbia venga fuori e si perda l’autocontrollo necessario per poter gestire il combattimento.

Senza la rabbia si è privi di protezione

Senza la rabbia siamo alla mercé delle imprevedibili reazioni altrui. Per noi e per gli altri, la rabbia usata costruttivamente aiuta a sviluppare fiducia in se stessi in quanto non è necessario che monti fino ad esplodere per esprimerla.

È importante riconoscerla nel momento in cui emerge per quello che è: un meccanismo di protezione che ci segnala che c’è qualcosa che non va, una reazione di insoddisfazione intensa, suscitata generalmente da una frustrazione che ci riguarda e che giudichiamo inaccettabile.

Dunque la rabbia, comunque venga espressa in modo esplosivo o in forma repressa, agisce come un segnale d’allarme; la nostra rabbia ci mette a conoscenza del fatto che in quel momento ci stanno facendo del male, che i nostri diritti vengono violati, che i nostri bisogni e i nostri desideri non sono soddisfatti.

Imparare a manifestare la propria rabbia significa conoscere i propri reali bisogni e intrattenere relazioni più autentiche con le persone che ci circondano.

Come esprimere la rabbia

Riabilitare la rabbia non significa tuttavia lasciarsi andare in comportamenti irosi. Non c’è bisogno di urlare o di arrivare alle mani per esprimere la propria irritazione, l’arma migliore è la parola, è bene però utilizzarla consapevolmente per esprimere i veri motivi delle nostre insoddisfazioni.

Dietro la collera si nasconde sempre una sofferenza, sempre più ci si ritrova ad affrontare situazioni molto pesanti (licenziamenti, costo della vita, paura di non farcela, divergenze con il proprio coniuge, vessazioni etc…), per cui basta un piccolo e futile pretesto per far scatenare la rabbia che ci portiamo dentro.

Adirarsi ad ogni costo e contro chiunque è un modo per sottrarre energia alla disperazione e non guardare in faccia il dolore, perché il proprio malcontento sia preso seriamente in considerazione è bene esprimerlo con la massima calma. Per fare in modo che questa emozione diventi costruttiva:

Placare la rabbia parlandone con un amico

Per rendere possibile un approccio disteso alla discussione con la persona che ci ha fatto arrabbiare può essere utile scaricare preventivamente le proprie tensioni parlando ad esempio con un amico per raccontargli l’accaduto.

Questo serve a far passare il primo moto di rabbia, quello più aggressivo, senza contare che una terza persona potrebbe suggerirci un modo diverso di guardare le cose.

Chiarirsi le idee

Avere un’idea precisa di cosa si sente dentro e di cosa ci si aspetta possa accadere dopo una discussione ci aiuta a mettere a fuoco le cose da dire, gli argomenti da mettere in campo e ci da una mano a controllare le cose in modo che l’emozione non prenda il sopravvento facendoci sfuggire il controllo della situazione. Per acquisire chiarezza, può essere utile porsi delle domande:

  • Che cosa ha scatenato la nostra rabbia?
  • Il nostro interlocutore ci ha nuociuto intenzionalmente?
  • Siamo sicuri di non esserci sbagliati sulle sue intenzioni?
  • Non abbiamo mostrato eccessiva suscettibilità?
  • La situazione merita che scateni la mia rabbia?
  • Abbiamo cercato di sdrammatizzare?
  • Abbiamo capito bene?
  • Dopo aver scatenato la nostra rabbia che risultato ci aspettiamo?

Esprimere le proprie opinioni

è necessario farlo dopo aver placato la propria rabbia.

L’atteggiamento da adottare è di tipo assertivo, evitando dunque di scadere in eccessi di alcun tipo, quali accuse o ingiurie.

Lo scopo è infatti quello di ristabilire un equilibrio e non di schiacciare l’interlocutore, lo psicoterapeuta americano Thomas Gordon ha elaborato il sistema dei cosiddetti “messaggi-io“ , che si basa sul principio di parlare di se in questo modo: definendo con precisione ciò che ci ha disturbato (quando tu …), raccontando le nostre emozioni (mi sento…), condividendo le nostre aspettative (perché io …), esprimendo i nostri bisogni attuali e le motivazioni (e io ti chiedo di…in modo da…). il beneficio di esprimere la rabbia va oltre il sollievo di togliersi un peso, significa ridefinire le relazioni con se stessi e con gli altri.

Esprimere apertamente la rabbia

è importante permettere a se stessi di avvertire completamente la rabbia, creando un posto sicuro per poterla esprimere, da soli, o con un amico fidato o con un esperto, se siamo soli in un posto sicuro, permettiamoci di parlare ad alta voce, di vaneggiare, di dare calci o urlare, di lanciare qualcosa.

Dopo aver fatto ciò in un ambiente sicuro, (per un periodo potremmo aver bisogno di farlo regolarmente) non avremo più paura di compiere un atto distruttivo e saremo capaci di affrontare in modo più efficace le situazioni che ci si presenteranno davanti.

Esistono delle tecniche per il controllo della rabbia, in America i manuali si sprecano, Robert Puff ad esempio è uno psicologo che ha lavorato diversi anni sulla gestione della rabbia ed ha elencato diverse tecniche di controllo della stessa, ma personalmente penso che il controllo della collera è soggettivo, c’ è un aspetto che secondo me è molto importante, le conseguenze di un’eventuale reazione rabbiosa ad una provocazione, non bisogna mai dimenticare ciò che la legge ci impone, onde non incorrere in guai che potrebbero toglierci il sonno e non solo.

Note


La DISCIPLINA marziale di BRUCE LEE basata sull’ATTACCO

Bruce Lee descrisse il JKD come un sistema di difesa offensiva

A differenza di molte arti marziali, il jeet kun do è centrato più sull’attacco che sulla difesa.

Mentre molte arti marziali si concentrano sul difendere un attacco con qualche tipo di blocco seguito da un colpo particolare, Bruce Lee credeva che, se ci si concentrava sul blocco, il colpo del difensore era troppo passivo e, per quanto rapido fosse, lo spazio di tempo tra il blocco e il colpo lasciava tempo all’attaccante per fare un’opposizione alla difesa dell’avversario.

Chiamò questo metodo “difesa passiva“, come vedremo poi, una delle cinque forme di attacco del JKD, l’attacco progressivo indiretto utilizza la difesa passiva dell’avversario, investigando su diverse arti marziali Bruce Lee incappò in alcuni principi della scherma occidentale.

Nella scherma occidentale, il metodo di difesa più efficace era il colpo fermato

Il praticante cerca l’attacco del suo avversario e lo intercetta con il suo stesso attacco, perché funzioni, dobbiamo controllare la distanza, in modo che l’avversario debba fare un passo in avanti per raggiungerci con la spada.

Questo offre il tempo al difensore per contrattaccare con il suo colpo, prima che l’attaccante trovi il momento per colpire, il passo avanti si chiama preparazione, lo “stop hit“ può essere eseguito quando l’attaccante sta facendo il passo avanti e si chiama “attacco in preparazione“ o quando sta eseguendo la stoccata con la sua spada, gesto che si chiama “attacco in slancio“ .

Bruce Lee si rese conto che se avesse messo la sua mano forte davanti e l’avesse utilizzata come uno schermitore usa la  spada, avrebbe ottenuto il metodo di difesa più efficace, come in uno “stop hit“ si intercetta l’attacco, Bruce Lee chiamò questa nuova arte “Jeet Kun Do“, che significa “la via del pugno intercettatore“.

Questa nuova arte si formò principalmente a partire dalla scherma occidentale, del pugilato occidentale e del Wing Chung Kung Fu, oltre allo stop hit, Bruce Lee aggiunse anche uno “stop Kick“ alla difesa basilare del JKD, che utilizza l’arma più lunga per il bersaglio più vicino, come metodo basilare d’attacco,l’arma più lunga è il calcio laterale e il bersaglio più vicino è il mento dell’avversario, mentre fa il passo avanti per attaccare, Bruce Lee scoprì che quando un avversario attacca, lascia un vuoto nel quale possiamo approfittare.

Utilizzando ancora una volta la teoria della scherma, trovò le cinque forme basilari per realizzare un attacco, non tutte le forme funzionano con tutti gli avversari e l’allievo deve imparare quali funzionano con ogni tipo di avversario.

La prima forma è l’attacco semplice diretto SDA (Single Direct Attack),

L’ SDA è esattamente ciò che suggerisce il suo nome, è un attacco semplice, con un’arma che arriva al bersaglio in linea retta, il pericolo di questo attacco sta nel fatto che, affinché funzioni, è necessario essere molto più rapidi dell’avversario o sorprenderlo in un momento di squilibrio.

Bisogna ricordare che se facciamo un passo avanti per dare un pugno, l’avversario potrà contrattaccare facilmente con un stop kick sulla nostra gamba avanti, un’altra versione dell’SDA è l’attacco semplice angolare SAA (Single Angular Attack), la differenza sta nel fatto che, anziché essere diritto, si tratta di un angolo, la cosa che può rendere il nostro attacco più facile da intercettare, entrambi gli attacchi possono essere utilizzati come contrattacco.

La seconda delle cinque forme è l’attacco in combinazione ABC (Attack By Combination)

In questo attacco si combinano vari strumenti, per esempio, si può colpire con un pugno diretto e poi continuare con un altro pugno o calcio, di solito l’ABC inizia con un SDA e si applica la combinazione solo se è necessaria per finire l’avversario.

Si intercetta il ginocchio dell’avversario con un calcio laterale e si continua con un jab di dita agli occhi, di solito un ABC è la continuazione di un SDA che è stato schivato o a una tattica per continuare a colpire l’avversario fino a quando non cede.

L’ABC può essere fatto ad un ritmo regolare o interrotto, fermandosi tra i colpi (colpo-pausa-colpo-pausa), si può anche utilizzare un ritmo interrotto iniziando a colpire lentamente e poi velocemente, il ritmo interrotto è difficile da descrivere a parole e con fotografie statiche, permette all’attaccante di approfittare della tendenza naturale a difendersi da un attacco ad un ritmo stabile, colpendo tra le finte o i blocchi difensivi dell’avversario.

Il terzo metodo di attacco si chiama attacco progressivo indiretto, PIA (Progressive Indirect Attack)

Un attacco indiretto nella terminologia del JKD è quello in cui si minaccia di attaccare in una linea, ma si cambia in un’altra, la minaccia può essere fatta con un piccolo movimento di un’estremità del corpo.

Per esempio, si può abbassare il corpo e fare un piccolo movimento con il braccio frontale, come se si stesse facendo un Jab basso, ma poi colpire con un pugno posteriore alto da sopra la testa, si può anche ingannare con gli occhi, guardando in basso per poi colpire in alto.

La differenza tra una minaccia ed una finta è che per la finta si utilizza un’estremità che si muove verso il bersaglio, facendolo apparire come un bersaglio reale, il suo obiettivo è aprire una linea d’offesa, per esempio, si può iniziare con un calcio all’inguine con la gamba avanti e cambiare improvvisamente in un calcio alto circolare in testa dell’avversario.

Si chiama progressivo perché la finta non si ritira, ma prosegue con un’azione diversa e non attesa, un altro esempio, si finge un pugno diretto basso con la mano anteriore e il difensore abbassa il suo braccio per bloccare, si può cambiare in un pugno alto o in un gancio alto, senza portare il braccio in caricamento.

Il colpo “progredisce“ verso il bersaglio in un movimento continuo

Questo tipo di attacco funziona bene contro chi ha una difesa forte e può bloccare con uno SDA, non funzionerà con chi sa intercettare bene, perché finirà con il colpire qualcuno che fa una finta o una minaccia, è meglio contro chi è abituato a bloccare o è esperto con i calci.

Il quarto metodo di attacco è l’immobilizzazione delle mani HIA (Hand Immobilization Attack), questa immobilizzazione può essere utilizzata per eliminare la barriera di un attacco, per esempio, se qualcuno sta bloccando un attacco di pugno, si può immobilizzare quel braccio ed eliminare la barriera, lasciando libera la linea per poter colpire.

Si può anche evitare un contrattacco

Altro esempio, se si entra e si pesta un piede all’avversario, questi non potrà darci un calcio, la maggior parte della gente tenta di immobilizzare quando sta ricevendo un pugno, lui blocca, noi immobilizziamo quel braccio e colpiamo, lui blocca, noi immobilizziamo il braccio che blocca e, quando abbiamo afferrato le braccia di chi si difende, abbiamo la via libera per colpire. Crediamo che il modo migliore per immobilizzare sia bloccare il pugno di un attaccante quando lo sta portando al bersaglo, o quando lo sta ritirando.

Il quinto ed ultimo metodo di attacco del JKD è l’attacco da induzione ABD (Attack By Drawing), l’offesa da induzione è quello nel quale il difensore finge di lasciare spazio in modo che l’attaccante si avvicini, deve essere fatto in modo sottile e per niente ovvio, per esempio, il difensore lascia il suo braccio arretrato più in basso di quanto dovrebbe essere, l’attaccante può approfittare della linea che è rimasta aperta e tentare di colpire con un gancio alto.

Il difensore può allora contrattaccare con un pugno diretto, l’ABD può essere utilizzato per indurre un attacco preciso o una linea d’attacco, si può così lasciare spazio per un attacco di pugno o di calcio ed approfittare dello spazio che si crea in quell’attacco.

Quando cerchiamo di utilizzare uno qualsiasi dei cinque attacchi con un avversario, dobbiamo ricordare che sono completamente diversi e che potrebbero non funzionare con tutti gli avversari, quello che funziona bene con uno che blocca, o che è un esperto il calci, può non funzionare con uno che ferma i pugni e i calci.

Il miglior attacco in ogni momento dipenderà dalla propria esperienza e dalla capacità di “interpretare“ l’avversario

Bisogna ricordare che, quando attacchiamo, dobbiamo sempre lasciare uno spazio in modo che l’avversario ne approfitti e contrattacchi, ricordiamo inoltre che, quando si va a caccia di un orso, a volte siamo noi a cacciarlo e altre volte è l’orso a cacciare noi.

Note


[AUTODIFESA & SPORT] Punti di pressione: ultime considerazioni

Ultime considerazioni sui punti di pressione.

Introduciamo il discorso parlando delle gambe e delle potenzialità ad esse collegate.

Le gambe, oltre ad essere il nostro punto d’appoggio e di sostegno, sono un’arma letale specialmente in alcune arti marziali

Neutralizzarle quindi, è un obiettivo prioritario per qualsiasi sistema di difesa, sia realizzando schivate, che blocchi, un attacco di gambe può colpire punti particolarmente vulnerabili dell’anatomia.

In questa occasione e su questo aspetto, per neutralizzare l’azione offensiva di un attaccante che ci sferra un calcio, sia frontale che laterale, posteriore, a giro ecc…, è necessario applicare dei blocchi o i movimenti di spazzata, (sia con le braccia che con le gambe), su aree specifiche dell’arto in questione, perché non attaccare i punti vitali di questa zona?

Analizziamo gli effetti che tali azioni possono produrre e gli angoli di attacco per agire correttamente e più efficacemente sui punti sensibili

Le gambe però si possono trasformare in bersagli di attacchi specifici, anche quando vogliamo inabilitare il nostro avversario, ovvero privarlo della sua capacità di proseguire l’attacco.

Esse sono parti molto resistenti del nostro corpo, basti pensare come atleti ben preparati resistano ai tremendi low kicks degli avversari.

Tuttavia quando si riesce ad accedere ai punti vitali delle gambe, lo shock o il crampo risultanti sono estremamente dolorosi.

Può darsi che molti di voi abbiano sperimentato casualmente il contatto con uno di questi punti, non necessariamente in combattimento, ma per esempio semplicemente urtando il bordo del letto, di un tavolo o di qualunque altro oggetto, se questo è il caso, sapete a cosa mi riferisco!

Con i punti di pressione si prova ad investigare scientificamente le ragioni che concorrono in queste occasioni e a trarne da esse vantaggi nella pratica delle arti marziali.

LE GAMBE

Questi arti ed i nervi periferici, sono i più lenti a rispondere o a reagire agli stimoli, sono anche più difficili da controllare, rendendo gli attacchi con queste “armi” una sfida maggiore, ma queste stesse qualità li trasformano in un bersaglio eccellente nell’allenamento del combattimento e della difesa.

Trovandosi lontani dalla fonte degli impulsi nervosi, impiegano più tempo ad arrivare alla stessa ed anche a ritornare all’arto, la loro risposta è più lenta, tuttavia non vuol dire che la reazione dell’avversario ad un attacco sia lenta, nonostante non risulti evidente a prima vista, le reazioni saranno differenti a quelle delle altri parti del corpo.

Come basi portanti dell’individuo nella posizione in piedi, ed a volte anche prono, sono responsabili della gran parte della forza sinergica necessaria in un attacco o in una difesa convenzionali, se la base si debilita o si distrugge, lo stesso destino toccherà anche alla piattaforma da dove sferrare l’attacco o le misure difensive richieste.

Allo stesso modo, sopportando il peso del corpo devono essere prese in considerazione determinate precauzioni e valutazioni nell’utilizzo di questi attacchi

Come le braccia sono bilaterali e speculari l’una all’altra, la differenza con le gambe è che queste influenzano molto di più il corpo rispetto alle braccia, poiché il messaggio neurologico viene inviato al cervello attraverso il sistema nervoso centrale, che devia nel suo percorso ad altre parti del corpo ,debilitando quindi tutta la struttura e la capacità di eseguire un attacco o una difesa forti, tutti i punti all’interno delle gambe le porteranno a torcersi verso l’esterno, spostando il peso della persona nella zona laterale, contro il tessuto connettivo delle articolazioni, questo può produrre un danno permanente, per cui si raccomanda di nuovo una certa precauzione.

I nervi periferici delle gambe, come tutti i nervi periferici del corpo, sono compresi in due sistemi principali: il somatico e l’autonomico, il sistema nervoso somatico è composto dai nervi motori, responsabili di controllare la struttura muscolare ed ossea per il movimento e la stabilità del corpo, anche il cervello partecipa a questo processo di posizionamento dei muscoli e delle ossa.

Con questa informazione possiamo comprendere facilmente che attaccando un nervo per mezzo di un punto di pressione (ricordando che un punto di pressione è una parte del corpo attraverso cui possiamo accedere al nervo senza l’ostacolo dei muscoli, dei tendini e delle ossa circostanti), possiamo debilitare o variare la posizione di altre parti del corpo, causando contemporaneamente la disfunzione dell’arto attaccato.

Può creare anche confusione, mentre il cervello cerca di mantenere il controllo sull’arto attaccato o su altre strutture del corpo

Se il cervello è occupato ma mantenere il controllo sull’equilibrio, sulla struttura e sul muscolo, l’avversario non combatterà più contro di noi, bensì contro se stesso, a sua volta questo ci offre il vantaggio ed il controllo della situazione, per renderla più intensa o per evitarla.

Se per esempio, il nostro obiettivo fosse l’interno della coscia di una persona su un punto che influisce sul fegato, l’impatto sul nervo debiliterebbe automaticamente la gamba portandola verso l’esterno, questo debiliterebbe contemporaneamente anche altre parti e funzioni del corpo, collocando l’avversario in posizioni da dove non potrebbe lottare né avere la capacità per controllarsi e sferrare un attacco.

Tutto questo risulta facile da capire, ma approfondendo questo concetto scopriremo nuove ed incredibili possibilità

Come ho già detto, i nervi periferici colpiscono anche il sistema nervoso autonomico, responsabile delle funzioni corporali involontarie, come la respirazione, la digestione, la circolazione ed altri processi primari vitali.

Dato che tutti gli organi interni sono influenzati dai nervi del sistema autonomico, interferendo sul nervo della gamba, possiamo debilitare gli organi interni e provocare danni o aumentare la vulnerabilità, è evidente che i medici e gli artisti marziali sapevano questo, vista e considerata la scoperta e la documentazione delle linee immaginarie che uniscono i punti di pressione interrelati.

All’interno della coscia si trovano le linee o i meridiani del fegato, della milza e del rene, non sono linee indipendenti, ma relazionate, prendiamo per esempio il meridiano del fegato, tutti i punti sulla linea del fegato si trovano in progressione dal secondo dito del piede fino all’interno della coscia, ed influenzano specialmente il fegato, attaccando questi punti origineremo a sua volta ciò che si conosce come  “riflesso di ritirata”, ossia il tentativo del corpo di creare distanza a partire dal fuoco del dolore, non solo con la gamba, ma anche con la parte del corpo che ospita il fegato.

Si tratta di una risposta automatica, fuori dal controllo dell’individuo, la stessa cosa succede con tutti i punti su meridiani specifici corrispondenti ad un organo

Un’altra risposta sarà il cosiddetto “riflesso estensore incrociato”, quando comincia il riflesso di ritirata su un punto, viene estesa anche la parte opposta del corpo per aiutare la ritirata  ed evitare ancora di più la ritirata ed evitare ancora di più il dolore, perciò causando dolore in un punto su una gamba, faremo si che il braccio dello stesso lato si estenda involontariamente per aiutare ad alleviare il dolore, allontanandosi contemporaneamente dal fuoco del dolore.

Di conseguenza gli arti opposti agiranno esattamente al contrario, così ora sappiamo cosa succede e come approfittare della funzione involontaria, un altro riflesso sarà la paralisi del muscolo o dei muscoli nella zona del nervo ed a partire da quel punto verso il basso.

Questo accade se riusciamo a fermare il messaggio neurologico prima della contrazione del muscolo, quest’azione paralizzerà il muscolo dal fuoco, perciò colpendo il punto del fegato blocchiamo efficacemente l’impulso nervoso ai muscoli della parte inferiore della gamba, non solo paralizzandoli ma anche debilitando la loro capacità di contrarsi e di tendersi per sostenere il peso del corpo o per portare a termine un’altra azione.

Un’analisi più profonda dimostra che il sistema autonomico può suddividersi a sua volta in due parti: il sistema parasimpatico ed il sistema simpatico

Stimolando o attaccando il sistema parasimpatico diminuiremo efficacemente la pressione sanguigna ed il ritmo cardiaco e respiratorio, con la riduzione di queste funzioni corporali vitali si diminuisce anche la quantità di ossigeno che arriva ai muscoli, diventando un’altra causa di debolezza  e di disfunzione.

Il flusso sanguigno diminuisce quando il corpo lo conduce al sistema digestivo come un processo naturale, questo abbassamento della pressione sanguigna e le funzioni corporali che l’accompagnano, si possono illustrare meglio come il tipo di svenimento da KO, quando l’avversario perde lentamente il controllo e la coscienza, questo normalmente succede quando colpiamo questi punti nella parte interna della coscia, come abbiamo detto prima, poiché il flusso sanguigno è condotto al processo digestivo, il che normalmente produce anche nausea ed affaticamento.

Attivando o attaccando l’avversario in modo tale da influenzare il sistema simpatico, l’effetto sarà il contrario, si produrrà l’aumento rapido del ritmo respiratorio, del ritmo cardiaco, della pressione sanguigna e la stimolazione di tutto il sistema nervoso centrale, è come un sovraccarico del corpo e si produrranno spasmi come quelli prodotti colpendo i punti Yang.

Verificandosi uno stato di sovraccarico e di tensione del ritmo normale delle funzioni di questi sistemi vitali, il cervello rapidamente si svincola, mentre il corpo adotta la posizione supina e si blocca per evitare maggiore tensione, e ulteriori danni all’organismo

Questo può essere illustrato attraverso il cosiddetto KO YANG, quando il corpo si agita fino a perdere conoscenza, i sintomi che normalmente si producono in questo caso sono: mal di testa, irritabilità e crampi corporali o muscolari.

Questo metodo di attacco produce anche molto dolore o riflessi incoscienti del corpo e facilita l’accesso al resto dei nervi periferici del corpo, dato che il suo messaggio converge verso il midollo spinale ed il cervello, vediamo chiaramente che attaccando i punti delle gambe (ed anche tutti gli altri punti) colpiamo molti sistemi e funzioni del corpo, attraverso l’osservazione e la sperimentazione, le culture antiche scoprirono ed identificarono i punti specifici, nonché le influenze e gli effetti  corrispondenti.

Questi sono stati descritti in molti modi nel corso della storia, assieme a molti metodi per utilizzarli, usando la nomenclatura di fegato, milza, rene ecc…, possiamo comprendere all’istante che quel punto preciso corrisponde ad un organo interno e che attaccando quel punto in particolare, in qualche modo colpiamo anche quell’organo vitale.

Che relazione c’è tra questo e le combinazioni d’attacco?

Accedendo ai nervi delle gambe abbiamo visto che non interrompiamo solo la funzione del sistema nervoso, ma anche i muscoli, gli organi e le funzioni vitali, attaccando questo punto del fegato nella gamba.

Causeremo in questo modo un effetto nell’organo interno corrispondente (il fegato), il quale può essere attaccato con altri colpi in altre aree del corpo che influenzino questo stesso organo, in questo caso, però, l’organo sarà più indebolito e suscettibile all’influenza esterna e all’attacco.

Dato che gli effetti si amplificano, avremo bisogno di minor forza per ottenere maggiori risultati, con l’attuazione dei punti di pressione pregiudichiamo non solo la struttura fisica, ma tutta la fisiologia dell’avversario, usando meno forza lasceremo meno anche segni esterni di attacco o di danno …osservabile (accade lo stesso anche nel caso dei punti delle braccia, della testa, del collo e del corpo).

Le gambe, che sono le più difficili da proteggere, rappresentano un’entrata stupenda che offre un vantaggio al praticante dei punti di pressione

Le gambe, che sono le più difficili da proteggere e nella maggior parte dei casi sono meno allenate nella difesa, rappresentano un’entrata stupenda che immediatamente offre un vantaggio al praticante i punti di pressione, gli stessi metodi di attacco che usa  ed allena, servono ad istruire anche la sua mente ed il suo corpo affinché siano vigili ed efficaci al momento di evitare, bloccare o restituire gli attacchi alle proprie gambe.

Questo conduce a un’impostazione globale e all’allenamento di tutte le parti del corpo, particolarmente utile in questo aspetto della preparazione dell’artista marziale spesso sottovalutato.

Un altro vantaggio da imparare sui punti di pressione delle gambe riguarda la loro efficacia nel caso di lotta al suolo, le gambe hanno un ruolo molto più importante nella lotta al suolo che nella lotta in piedi

Questo perché condividono il cinquanta per cento delle tattiche usate nello stile difensivo ed offensivo, usando questi punti possiamo controllare meglio o eludere l’uso che l’avversario fa di questo strumento, eludere la guardia, migliorare le chiavi alle gambe e alle caviglie, perfino manovrare le sue gambe per ottenere una posizione migliore risulta molto più facile.

Prendiamo per esempio il punto di prima del fegato, in posizione di guardia, accedendo a questo punto la gamba dell’avversario si debiliterà e perderà il controllo, poiché il dolore attiva il riflesso di ritirata ed il riflesso di estensione incrociato,questo ci permetterà di passare più facilmente la guardia o di situarci sopra l’avversario.

Non provocherà una debilitazione e dei sintomi interni eccessivi, poiché l’attacco è in un certo senso ammortizzato se paragonato ad un attacco con arma da fuoco, tuttavia, debiliterà tutte le strutture corporali corrispondenti, rendendole più sensibili e vulnerabili, all’artista marziale normalmente viene insegnato a bloccare o a parare i calci dell’avversario, ma tutto questo non considera una cosa importante,l’attacco ai calci dell’avversario.

Armato di questi preziosi bersagli, quando ad un praticante dei punti di pressione viene sferrato un calcio, gli si presenta una buona occasione per usare il suo metodo, colpendo un punto sulla gamba che ci sferra il calcio.

Facendo ciò causeremo nell’avversario dolore, disfunzione ed una delle tre risposte riflesse menzionate precedentemente, debiliteremo anche tutto il processo e la struttura anatomica, evitando l’applicazione di altre tecniche o metodi contro di noi.

Se, per esempio ci sferrano un calcio alto e colpiamo i punti interni della gamba (fegato per esempio), il riflesso di ritirata neutralizzerà rapidamente ed automaticamente l’attacco, farà in modo che l’altra gamba si distenda per il riflesso di estensione incrociato.

Questa operazione lascerà l’arto vulnerabile all’attacco, allo stesso modo paralizzerà i muscoli della gamba attaccante e l’aggressore non potrà utilizzarla né servirsene come appoggio.

Praticando i bersagli più bassi delle gambe nelle tattiche d’attacco, guadagneremo maestria ed impareremo altre manovre difensive, un altro esempio potrebbe essere un calcio con lo stinco contro la coscia.

Quest’ultimo è un attacco molto diffuso in molte arti del combattimento, che può essere bloccato facilmente utilizzando un ginocchio sullo stesso punto di fegato

Sulla parte interna della coscia della gamba attaccante, la paralisi dell’arto a partire dal bersaglio verso il basso avrà diversi effetti nelle differenti fasi del calcio.

Se attacchiamo in questo modo il calcio, prima che raggiunga la metà della sua estensione, il riflesso di ritirata lo farà retrocedere estendendo contemporaneamente l’altra gamba, evitando o immobilizzando successivi attacchi dell’avversario.

Se il calcio ha superato il 50 percento della sua estensione, il riflesso di paralisi, con disfunzione e perdita di controllo, farà in modo che la gamba si sovra-estenda nel ginocchio e non sarà necessario dire altro.

Dobbiamo tenere in considerazione alcuni dei punti o dei nervi delle gambe sono vicini alle principali arterie, influenzando così direttamente ed anche indirettamente (attraverso i sistemi simpatici e parasimpatici) il flusso sanguigno che aiuta la contrazione dei muscoli. e di conseguenza la loro funzione.

Vediamo che attaccando i punti di pressione possiamo influire direttamente ed indirettamente su molte funzioni vitali del corpo

Altre osservazioni realizzate per mezzo della sperimentazione con il passare degli anni hanno fornito informazioni interessanti sui punti della gamba di cui stiamo parlando, se una persona possiede una struttura che protegge in modo naturale i punti della parte superiore del corpo, del braccio, della testa o del collo, le gambe non saranno protette allo stesso modo.

Per esempio alcune persone (una piccola percentuale di circa il 5%), non presentano un accesso facile ai nervi delle braccia o della parte superiore del corpo e della testa.

Questo non significa che i punti di pressione non funzionino con questi individui, poiché sentono e possiedono il senso del tatto, i nervi lavorano per trasmettere i segnali neurologici, ma accedervi risulta più difficile, tuttavia, si è osservato che gli individui di questo gruppo sono estremamente vulnerabili sui punti delle gambe.

Questi punti così preziosi ci forniranno maggiori conoscenze e comprensione, e porteranno la nostra capacità e la nostra abilità a livelli più alti, sapere esattamente come reagirà il corpo e le funzioni fisiche ed anatomiche che rimarranno danneggiate, paralizzate o comunque influenzate, sarà un ottimo contributo al vostro arsenale, aumenterà la vostra abilità e la vostra capacità in molti aspetti, e migliorerà i vostri metodi di lotta qualsiasi sia lo stile praticato, poiché sono universali.

Conclusioni

Per concludere vorrei dire che i nervi se si colpiscono adeguatamente, causano sempre dolore, ma per un attacco con maggiori potenzialità colpiremo contemporaneamente verso il basso aumentandone straordinariamente gli effetti.

La pratica in palestra con Maestri o Istruttori esperti faranno si che gli allievi imparino perfettamente l’applicazione di queste tecniche per far si che la conclusione di un attacco di calcio venga neutralizzato immediatamente senza errori si sorta, ma è la palestra il posto in cui lavorare ed imparare, individuatele e buon lavoro!

Note


[STORIA ANTICA] Il Pancrazio, l’antico sport da combattimento

La lotta e il pancrazio devono la loro origine alla utilità nella guerra

Lo dimostra la battaglia delle Termopili in cui gli Spartani, spezzatisi gli scudi e le spade, combatterono gloriosamente ed a lungo con le sole mani.

Sin dai tempi remoti tutto il bacino del mediterraneo era interessato all’arte di combattere disarmati

Questa disciplina nata per la guerra e divenuta presto anche metodo di confronto singolare, vanta origini antichissime che ci portano nelle fertili terre dell’Eufrate come testimoniato dal bassorilievo del ll millennio a.C. conservato nel museo del Louvre a Parigi.

Nella culla d’Occidente il combattimento senza armi trovò il più audace sviluppo e, nella Grecia dei filosofi e dei guerrieri, divenne l’arte suprema di combattere con le sole armi naturali che fu cantata nell’Iliade di Omero e nell’Odissea, diversi scrittori Greci oltre ad Omero documentarono l’arte di lottare.

Come Pindaro, poeta lirico corale greco 518 A.C. Che narra:

L’animo ha pari ai leoni dal cupo ruggito nella lotta, sagace come una volpe, che stesa sul dorso sostiene l’assalto dell’aquila che si deve colpire d’ogni colpo il nemico“

Luciano, scrittore e avvocato greco nato a Samosara nel 125 D.C afferma “Non senza ragione gli atleti dei nostri dì sono chiamati leoni “ e descrive in un racconto la lotta tra una ragazza chiamata Palestra e un altro atleta chiamato Lucio.

È bene ricordare che per i greci l’esercizio della lotta era chiamato palestra e che solo successivamente il vocabolo designò il  luogo annesso al ginnasio presso il quale si svolgevano esercizi di lotta e gare.

Quando la parola passa a Palestra, la giovane si rivolge a Lucio e dice:

Senti giovanotto, ricordati bene che hai incontrato una Palestra, perciò devi dimostrare che sei un palestrita vigoroso e che hai imparato molti tipi di lotta, la prova la voglio così: io a guisa di un Maestro di ginnasio ti ordinerò le lotte che mi verranno in mente e tu le dovrai eseguire a puntino! “

La ragazza inizia dunque a richiedere al giovane diverse applicazioni di lotta tra cui una interessante nella quale avverte: “prima, come è d’uso, annodalo con le braccia, poi ripiegalo, inchioda e batti senza allentare”.

Flavio Filostrato, detto l’Ateniese, è l’autore di un libro ”Della Ginnastica“ che tratta di cose riguardanti l’arte di combattere disarmati, ed è considerato tra i più attendibili cantori dell’arte di combattere a mani nude.


Cosa è il Pancrazio

Il Pancrazio, il cui nome ricordiamo sembra discendere da pankrates = onnipotente, pan = tutta, kratos = forza, così come può essere descritto dal termine Pankration = tutta la potenza, è stata la più feroce e completa fucina di tecniche marziali nel combattimento a mani nude.

Il Pancrazio era una perfetta fusione tra gli aspetti della lotta in piedi e a terra e l’uso sistematico di percussioni e leve, il tutto senza la minima protezione né guanti, in quanto i pancraziasti non indossavano i terribili cesti (una sorta di armatura della mano fatta con strisce di cuoio avvolte attorno alla mano, alle quali in seguito furono applicate anche “nocche“ in metallo),combattendo a mani libere.

Essi potevano colpire con il pugno chiuso e utilizzare le mani aperte per sferrare i loro colpi di palmo o con la punta delle dita. Ancora, il pancraziaste poteva intrecciare le proprie dita con quelle dell’avversario ed infine andare alle prese sulle braccia o al corpo.

Il pankraziaste quindi poteva colpire con la testa, afferrare con le mani, colpire con le dita tese, a pugno chiuso, con gomiti e calci.

Galeno, celebre medico greco, racconta che nel Pancrazio si potevano torcere gli arti, fratturare le ossa, slogare le articolazioni e perfino tentare il soffocamento senza arrivare alle estreme conseguenze.

A Sparta diversamente che a Olimpia si poteva anche graffiare e mordere anche se era vietato accecare l’avversario.

Questo non deve far pensare al Pancrazio come una rissa sconclusionata

Si tratta invece di un preciso sistema codificato e regolato e le competizioni venivano severamente arbitrate per evitare degenerazioni dovute ai vari stili praticati.

Il Maestro si chiamava Listarca Agonistarca per il pugilato e il Pancrazio.

Egli, in qualità di tecnico (alcuni Maestri erano ex atleti che avevano cessato l’attività come il pancraziaste) seguiva ed insegnava le tecniche e le strategie di combattimento osservando nell’addestramento in palestra regole severe.

A coadiuvare l’opera del Maestro vi erano poi i Podotribi (avvisatori, oggi li chiameremmo assistenti), il loro compito era quello di portare agli atleti le informazioni e i consigli tattico/strategico del Maestro.

Anche l’alimentazione aveva le sue linee guida

Gli atleti seguivano quello che possiamo definire un regime dietetico nel quale figurava l’utilizzo di cereali, di fichi e uva secca, di carne di maiale e di montone aromatizzata con aneto e finocchio, annaffiati di buon vino.

Certo gli atleti non passavano le giornate a trangugiare costate o a sbronzarsi, ed integravano la dieta, date le necessità energetiche derivate da un allenamento durissimo, con infusi di erbe tra cui sembra vi fosse una bevanda fatta con i semi di fieno greco (trigonella foenum-graecum), pianta conosciuta per le sue naturali proprietà anabolizzanti, non esistendo allora i famigerati e nocivi prodotti dopanti di sintesi.

Nella palestra trovavano posto non solo gli adulti, ma anche i giovani ed i giovanissimi

La cosa non era certo nuova, nell’antico Egitto i bambini si allenavano in esercizi di lotta e destrezza.

In Grecia la pratica, che in Egitto era ristretta alla classe sociale dei nobili più vicini al Faraone, divenne pubblica e fin dalla tenera età i bambini erano chiamati ad iniziare i giochi di lotta e di confronto ludico.

Il Maestro, che doveva aver superato i quarant’anni d’età, doveva istruire i suoi allievi alle tecniche di combattimento e curarne la preparazione fisica ed alimentare con particolare riguardo.

La preparazione precisa ed intensa era necessaria poiché si trattava di combattimenti estremamente completi che richiedevano un eccellente stato fisico, coraggio e notevole acume tattico/strategico, dato che si poteva lottare e combattere anche a terra.

Il Pancrazio fu la forma di combattimento totale senza armi più cruento e micidiale ideata dall’uomo

La disciplina venne diffusa in diverse zone dell’Europa proprio dai greci e dai romani tanto che l’Imperatore Silla dopo che la Grecia (nel 146 a.C.) era passata sotto il dominio di Roma, volle nell’80 a.C. Tenere a Roma le Olimpiadi con tutte le gare di Pancrazio e lotta.

Campioni di Pancrazio furono non solo nativi della Grecia, ma anche provenienti da Alessandria, da Antiochia in Siria, Egitto e Armenia e in diverse occasioni furono vincitori atleti provenienti dalla penisola italiana.

Lo fu Brito, il primo re dei britanni, che secondo la leggenda era un fuoriuscito troiano, compagno d’armi dell’iliaco un Corineo che fondò la Cornovaglia, come racconta il dottor Alberto Cougner nel suo libro “Pugilato e Lotta per la Difesa Personale“ del 1898.

Sempre Cougner scrive:

Gli stessi pastori brettoni, gaelici ed armoricani continuano tuttora ad essere i più famosi lottatori e pugilisti, così pure gli scozzesi o higlanders moderni, che nei loro clan tengono in onore il westriling (lotta corpo a corpo) e il boxing, oltre alla danza pirrica dei claymors e il getto dei martellio aber, come per i discoboli greci“

È plausibile che proprio il Pancrazio sia matrice di molte tecniche e strategie diffusisi in Occidente e sviluppatesi in varie forme.

Il cornish hug, tecnica di sgambetto anche il modo di portare i colpi del primo Boxing con i pugni verticali, che vedremo praticati anche nel pugilato venatico, sono una caratteristica del Pancrazio e così pure prese alle gambe sui calci, azioni di controllo articolare che ritroviamo nel gioco stretto di scuola medioevale germanica e italiana.

Note

Bibliografia

  • Alberto Cougner “Pugilato e lotta per la difesa personale: box inglese e francese” Milano, Hoepli, 1898.

[ARTI MARZIALI] Il JU JITSU nella DIFESA PERSONALE

Il significativo incremento di praticanti del ju jitsu deriva anche da un aumento di richiesta di corsi di difesa personale: quale risposta tecnica migliore del ju jitsu si può offrire a questa necessità?

Il programma da svolgere è interessante e colpisce per la sua efficacia pratica, prevede ogni tipo di gesto tecnico, comprendendo proiezioni, percosse, leve articolari e tutto quello che serve nel corpo a corpo o nel combattimento a corta distanza, difendendosi per lo più a mani nude anche da attacchi armati.

Le tecniche di ju jitsu, insegnate correttamente ee apprese, costituiscono un valido ed efficace sistema di autodifesa, anche per la loro intrinseca natura di tecniche difensive e quindi di risposta a un’aggressione.

Certo, il maestro deve trasmettere al principiante i principi fondamentali della pratica e dello studio marziale

Si devono evidenziare dunque durante l’insegnamento non solo la tecnica, ma anche le peculiarità etiche ed educative della “Tradizione degli antichi Ryu“ e così infondere uno spirito di reciproca collaborazione tra gli allievi per progredire insieme.

L’apprendimento delle tecniche di ju jitsu come metodo di autodifesa comporta però un’analisi delle linee di comportamento e di approccio al sistema per certi versi radicalmente differente rispetto alle norme che hanno sempre regolato e regolano tuttora la pratica di un’arte marziale tradizionale all’interno di un Dojo o, nella nostra cultura occidentale, di una palestra.

Le nuove prospettive offerte dalla richiesta di corsi specificamente destinati alla difesa personale, solo apparentemente in contrasto con lo spirito del ju jitsu, impongono quindi l’esame di aspetti spesso tralasciati

Ma non totalmente estranei alla pratica delle discipline marziali orientali come studio di elementi di psicologia e la conoscenza della regolamentazione giuridica dell’utilizzo del ju jitsu ai fini di autodifesa

L’utilizzo di tecniche di autodifesa è ammesso dal nostro sistema giuridico nei limiti di cui si dirà tra poco, la legge penale italiana, similmente alle altre, prevede che io cittadino che commetta un fatto normalmente considerato come antigiuridico (quindi reato), per esempio percosse, lesioni, omicidio, non sia punito per la sua azione quando questa sia stata commessa nell’esercizio di un proprio diritto.

Le circostanze che giustificano un uso di tecniche di difesa (normalmente vietate in considerazione del loro carattere potenzialmente lesivo) sono analiticamente illustrate nell’art. 52 del codice penale che disciplina la legittima difesa, “non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalle necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa“.

I giudici della cassazione hanno chiarito negli anni i confini di questa norma, i presupposti essenziali della legittima difesa (giustificazione ammessa nei confronti di tutti i diritti, personali e patrimoniali) sono costituiti da un’aggressione ingiusta e da una reazione legittima.

L’offesa deve, quindi e prima di tutto, essere ingiusta o ingiustificata, prodotta cioè al di fuori di qualsiasi norma che la imponga o autorizzi, e che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocerebbe nella lesione di un diritto tutelato dalla legge es. vita, incolumità, proprietà, riservatezza

Il pericolo (la probabilità del danno) deve essere attuale cosicché non può in alcun modo giustificarsi la reazione ad un’offesa ormai passata, per esempio un aggressore che ormai si è dato alla fuga, in quanto rappresenterebbe una vendetta o rappresaglia, né tanto meno è legittima una reazione ad un pericolo immaginario o futuro, perché in tal caso potrebbe essere richiesto l’intervento delle forze dell’ordine.

Il pericolo non dovrà in ogni caso essere causato volontariamente da chi si difende e pertanto non potrà essere invocata la legittima difesa in caso di rissa, di atteggiamenti di sfida e dove lo scopo concreto è quello di offendere l’aggressore provocando così la sua reazione.

La reazione deve essere inoltre, necessaria ed inevitabile, nel senso che chi si difende non ha la possibilità di evitare l’offesa in nessun’altra maniera

Infine l’ultimo, ma indispensabile requisito per il carattere legittimo della difesa reattiva è costituito dalla proporzione tra l’azione offensiva e la difensiva, la reazione difensiva deve cioè essere adeguata facendo riferimento al modo in cui si manifesta l’aggressione, il genere di bene attaccato, l’uso dei mezzi a disposizione dell’aggredito in un preciso contesto spazio –temporale e personale e, non ultimo, l’abilità dell’aggressore (ma anche dell’aggredito che si difende) di utilizzare tali messi.

Nel caso in cui un soggetto si introduca fraudolentemente in un’abitazione o in un esercizio commerciale altrui, è consentito a chi si difende, utilizzare un’arma (legittimamente detenuta) o qualsiasi altro mezzo di difesa, sempre che, naturalmente, l’aggressore non interrompa la propria azione allontanandosi.

Se utilizzando le tecniche di autodifesa si oltrepassano i limiti precedentemente descritti, chi si difende sarà tenuto a risponderne penalmente a titolo di colpa (art. 55 del codice penale quando nel commettere alcuno dei fatti prevenuti dall’art. 51 (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, difesa legittima,53, uso legittimo delle armi, 54 stato di necessità), si eccedono colposamente, normalmente per un errore di valutazione, i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità, ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo, o addirittura di dolo, quando l’eccesso è previsto e volontario.

Note


[PRATICHE DI LOTTA] Le Arti Marziali: ed in Oriente?

Secondo la leggenda fu Bodhidarma, nel 520 d.C. a portare in Cina una serie di esercizi che fondevano aspetti di pratiche per la salute a movimenti di lotta

Secondo la leggenda fu i monaco indiano Bodhidarma, nel 520 d.C., a portare in Cina presso il tempio dei Monaci Shaolin ad Honan una serie di esercizi (18 per la precisione) che fondevano aspetti di pratiche arcaiche per la salute ed il vigore fisico a movimenti di lotta e pugilato.

Questi primi 18 esercizi vennero in seguito sviluppati in vari altri movimenti e forme dando origine a diversi metodi di lotta disarmata, con strumenti e armi bianche.

L’ipotesi ulteriore è che dalle feconde terre del Nilo si siano formate due grandi e forse collegate linee di pratica marziale:

  • La prima in Occidente, che ebbe come madri la cultura greca, i popoli indo europei (Celti in testa) ed i romani;
  • La seconda ad Oriente, che ebbe come padri i persiani, gli indiani e la culla nella vastità delle terre cinesi.

Tutto ciò che venne dopo mantenne senza dubbio il patrimonio genetico iniziale, ma modellò necessariamente al proprio ambiente e condizioni, le pratiche guerriere scoperte e tramandate, che si diffusero così nel corso dei secoli divenendo espressione compiuta delle diverse realtà geografiche.

Pratiche di lotta, ed altrove?

Ad Oriente l’India, la Cina con centinaia di scuole e stili di Kung Fu, il Giappone con altrettanti stili discendenti dall’antico Bujiutsu, la Corea con l’antica arte dei guerrieri Hwarang e persino la piccola isola di Okinawa con il Te-Kobudo una pratica armata e disarmata dalla quale alcuni studiosi vogliono derivi il Karate.

Nel sud est asiatico le arti guerriere trovarono forte sviluppo in diversi paesi tra loro vicini come la Thailandia (Muay Thay), il Vietnam (Vo- Viet –Vo – Dao), la Birmania con il Bando e all’estremo sud l’insieme di isole e arcipelaghi costituiti da Filippine Indonesia e Malesia (Bersilat- Silat, Kali) sinteticamente questa è la mappa marziale ad Oriente.

Sono nate altre discipline, anche su studi recenti legati agli aspetti difensivi, come il Krav Maga israeliano.

Conclusioni

Finisco questa breve carrellata dicendo che c’è stata una forte e straordinaria forza evolutiva nelle arti marziali, anche se in alcuni casi non si può più definire un’arte marziale, ma una lotta senza alcuna regola ed all’ultimo sangue!

Note