Arti marziali

La SCIENZA del disarmo delle ARMI A CANNA LUNGA

In questo articolo spiegheremo come difenderci dalle armi da fuoco a canna lunga.

Sicuramente in tutto il mondo sono morti molti poliziotti nel tentativo di disarmare una persona da un’arma

Che fosse un’arma bianca, o una a canna corta, ma ben più difficile è il disarmo di un’arma a canna lunga, ed ancor di più se ad impugnarla è una persona imbottita di droga o riempita di alcool.

Ricordo che durante un corso di aggiornamento con gli S.W.A.T, ci fu raccontato un episodio di violenza domestica dove il marito voleva uccidere la moglie e probabilmente se stesso (ed il poliziotto che gli parlava).

Quando in un attimo di distrazione il poliziotto effettuò il disarmo dell’uomo, ubriaco, attuando la tecnica “a remo in avanti”.

La tecnica a remo in avanti era un disarmo che al poliziotto era stato insegnato dal suo sergente addetto all’istruzione, durante il periodo di addestramento per il Vietnam, quando i veterani insegnavano ogni tipo di combattimento a corta distanza, quelli da manuale e non.

È molto difficile trovare chi e dove insegnino il disarmo della carabina o del fucile

Ma grazie ad un sergente veterano della guerra in Vietnam con due ginocchia Dupon in plastica, la tecnica di disarmo venne insegnata e tutt’ora attuata.

Chiaramente la curiosità per il disarmo di quest’arma mi spinse a studiare scientificamente le tecniche, studiando anche le possibili posizioni di confronto, cercando di risolverle.

Le armi che analizzai furono la carabina, il fucile, la semi-automatica e l’automatica, questo spinse ad affrontare il problema del confronto, studiando psicologicamente i fattori scatenanti di una determinata situazione e le tattiche fisiche attuabili, arrivando alle seguenti considerazioni:

I problemi fisici

  • Valutazione del nemico;
  • Distanza;
  • Posizione.

Metodo con Valutazione del nemico

  • Bisogna valutare la qualità cui porta l’arma e la quantità del nemico;
  • Quale stazza, mentalità, stato fisico ed abilità ha la persona che impugna l’arma.

Distanza 1: Contatto

Quando il foro d’uscita della canna è a contatto con il nostro corpo, tutti quelli che impugnano un’arma, che siano allenati o meno, toccano spesso con la canna l’aggredito, può darsi che il soggetto abbia fretta e ci spinga con l’arma, potrebbe essere furioso e toccarci con la canna a mò di intimidazione.

Potrebbe essere sicuro di sé, benché sembri una strategia sbagliata, succede con una certa regolarità.

Distanza 2: Attacco

Quando il soggetto tiene l’arma ad una distanza nella quale abbiamo l’opportunità di saltargli addosso per sottrargliela.

Distanza 3: Lontananza

Quando ci puntano il fucile contro da una distanza in cui non è possibile saltare addosso all’aggressore, fino, letteralmente, ad una distanza da franco tiratore, in questa situazione l’unica cosa che possiamo fare è utilizzare la psicologia per cercare di salvarci.

Posizione

Il nemico presenterà il suo fucile in quattro posizioni basilari, con tre variazioni in ognuna di esse:

  • Posizione 1- Davanti a noi;
  • Posizione 2- Ad uno dei lati (destro o sinistro);
  • Posizione 3 – Dietro di noi;
  • Variazione A- Al di sopra di noi;
  • Variazione B- Alla nostra altezza;
  • Variazione C- Sotto di noi.

Metodo con cui porta l’arma

Come tiene l’arma, la impugna solo con le mani? O peggio, la tiene assicurata ad un cinturino? Sicuramente terrà l’arma in tre modi basilari:

  • Con le mani;
  • Con il cinturino;
  • Con un qualsiasi arnese di sicurezza.

Con le mani

I criminali normalmente usano armi “civili“ come fucili da caccia ed altre, spesso rubate, e le portano in modo da poterle estrarre rapidamente.

Il cinturino

Per anni si è studiato sulla storia militare, analizzando fotografie sia di truppe internazionali sofisticate ed altamente allenate, che di ribelli senza addestramento, dalle migliaia di fotografie di personale militare armato, esaminate le loro armi, all’incirca metà mostravano di usare il cinturino dell’arma, mentre l’altra metà non faceva caso ad esso e lo lasciava penzolante dall’arma.

Per focalizzare di più la questione, molte di queste fotografie erano di guardie di prigionieri e scorte, un’arma con il cinturino legato ad una parte del corpo evidenzia un ostacolo per il disarmo, il personale militare usa i cinturini.

L’idea basilare del cinturino è poter portare l’arma sia in posizione di riposo che di attacco, poi si scoprì che poteva servire a migliorare la mira, è legato alla canna per poter strisciare a terra in silenzio ed in modo sicuro e permette le seguenti posizioni dell’arma:

  • Di traverso sul petto;
  • Sotto l’ascella;
  • Sulla schiena;
  • Di traverso sull’ascella e sulla spalla a mò di clip.

Molte vittime sono scappate mentre venivano scortate per essere interrogate, mentre mangiavano, mentre erano in bagno o in camera da letto.

Molti hanno sorpreso una guardia stanca o poco allenata, altri hanno sperato che la guardia rimanesse sola.

Molti sapevano che sarebbero morti tramite esecuzione e hanno deciso di morire lottando, ma hanno vinto e si sono salvati, perciò dobbiamo sempre osservare dov’è in nemico, che aspetto ha, come porta l’arma ed identificare come può usarla, prima di risolvere fisicamente la peggiore di tutte le situazioni.

Soluzioni basilari per la sopravvivenza

Non importa in che posizione sia l’arma, né se la canna ci sta toccando o si trova a distanza di attacco, l’equazione per la sopravvivenza è:

  • La minaccia se la canna è a contatto;
  • Deviare la canna;
  • Controllare l’arma deviata e colpire collo o la testa per stordire l’avversario e non far più focalizzare la sua attenzione sull’arma;
  • Colpire le braccia che sorreggono l’arma;
  • Strappare l’arma continuando a colpire l’avversario.

Affrontare un’arma sciolta, senza cinturino:

Il miglior modo per ottenere questo disarmo è colpire le braccia che sorreggo l’arma per portargliela via.

Affrontare un’arma legata al cinturino

Questo esige la presa dell’arma e tirare con forza per portare al suolo il nemico, bisogna colpire più volte, quanto è necessario, per ottenere un disarmo dovete sganciare il cinturino o liberare la clip che unisce l’uomo all’arma, per sganciare il cinturino, per prima cosa dovete aver ridotto significatamene il nemico abbastanza per manovrare il suo corpo in sicurezza per procedere.

Liberare la clip di un’arma richiede una notevole riduzione della possibile reazione dell’avversario, solo allora si può accedere al sistema per liberarla, sganciandola o tagliando il cinturino, perciò si ha bisogno di un coltello o utilizzare un’eventuale pugnale dell’avversario.


È necessario ricordare che se si tira l’arma, aiuterete l’aggressore ad attivare il sistema d’ingranaggio

Molti esperti suggeriscono di spingere l’arma per ritardare tale azione, analizzando diversi assassini e sparatorie, nei quali i combattenti hanno lottato con armi a canna lunga, la causa generalmente del decesso di uno dei due era dovuto ad un colpo partito mentre si cercava di effettuare il disarmo.

Molti istruttori, non bene allenati, danno troppa enfasi a come forzare il fucile per applicare una leva, senza soffermarsi a spiegare che prima si deve colpire l’avversario, è naturale pensare che un essere umano afferri con forza la propria preziosa arma, specialmente con il gomito o l’avambraccio, a meno che non lo si colpisca, risulterà molto difficile spostargli l’arma per facilitare le chiavi al braccio o al polso.

Ho visto molti istruttori insegnare ai loro allievi a spostargli la canna con il palmo della mano verso l’alto, spingendo con il palmo della mano permettiamo al nemico di alzare la canna e mirare direttamente verso di noi, se spingiamo verso il basso, si riesce ad evitare tutto questo, altri istruttori preferiscono passare ad una serie di nodi da marinaio con il cinturino per legare l’avversario.

Per favore, quando si tratta di armi valutiamo bene ciò che facciamo e pensiamo alla sicurezza su ciò che stiamo facendo e non facciamo rischiare la pelle a chi stiamo insegnando!

Colpire il nemico con due mani con l’arma se necessario, una volta strappata l’arma, non confidate troppo sul fatto che funzioni, potrebbe essere scarica, potrebbe essere una replica, potrebbe essere rimasta danneggiata nella lotta e, con la grande varietà di armi a canna lunga che esiste, potreste non riuscire a farla funzionare.

Inoltre, il fuoco può richiamare l’attenzione su quello che stiamo facendo ed attirare l’attenzione dei suoi compagni.

Potreste essere obbligati ad improvvisare un qualche modo per legare il nemico, una volta sicuri perquisitelo alla ricerca di altre possibili armi che possa detenere addosso.

Note


COPERTINA parliamo ancora di punti di pressione

[AUTODIFESA & SPORT] Parliamo ancora di punti di pressione

Dal semplice singhiozzo all’arresto respiratorio. Tempo fa durante un allenamento per perfezionare il lavoro sui punti di pressione, lavorammo su un punto del braccio chiamato LI-10

Questo punto si trova nel nervo radiale, che è unito al sistema nervoso centrale (SNC) attraverso la vertebra cervicale 5.

In questo punto di unione si trova anche l’inizio del nervo frenico, il nervo che controlla il diaframma e quindi anche la respirazione, ho avuto modo di conoscere questo argomento quando ho studiato la rianimazione polmonare originale, quella precedente alla rianimazione SP-17, più perfezionata ed efficace.

Prima, l’LI-10 si utilizzava tentando la fortuna… e, in combinazione a precedenti immagini individuali. Come si racconta, un uomo assistette ad uno dei primi seminari sui punti di pressione che si tenne negli Stati Uniti e gli chiesero di prendere parte alla dimostrazione di una tecnica, quando ricevette un colpo in un punto del corpo, l’uomo svenne e smise di respirare.

L’intenzione della persona che lo aveva colpito non era nemmeno lontanamente quella di fargli perdere conoscenza e i partecipanti al seminario cominciarono a preoccuparsi, dopo vari tentativi di rianimarlo, la persona che lo aveva colpito ricordò ciò che aveva letto su questo nervo e, disperato, diede un pugno all’uomo sul punto dell’avambraccio con l’intenzione di fargli recuperare almeno la respirazione.

Il colpo fece in modo che l’uomo incosciente tornasse in sé e che riuscisse di nuovo a respirare, il soggetto svenuto ammise di aver fumato marijuana prima di assistere al seminario e questa forse fu la causa dell’effetto sproporzionato del colpo sul punto di pressione.

Non si ha la certezza che sia andata così ma, siccome la marijuana agisce come calmante, potrebbe aver aumentato l’effetto del colpo, specialmente per quanto riguarda la respirazione, ma la cosa incredibile di questo episodio è che servì da stimolo per studiare a fondo l’argomento a molte delle persone presenti e ad altre che non c’erano e che sentirono raccontare la storia.

Da allora, questo metodo è diventato il sistema di rianimazione polmonare più utilizzato

Fino a quando non si è sviluppato un metodo intermedio che corregge la respirazione diaframmatica in modo più efficace e potente, tuttavia, questo metodo non è stato abbandonato dopo aver verificato l’efficacia del metodo intermedio, ma si è continuato a studiare il punto, le sue connessioni e altre possibilità relazionate con il pronto soccorso.

In questo modo si è potuto scoprire nuove applicazioni, per esempio si è scoperto un metodo per alleviare le fitte al fianco provocate dallo sforzo eccessivo ed anche un altro per interrompere il singhiozzo, cominciamo dalle fitte al fianco, che sono dolori muscolari intensi che si avvertono nella parte laterale del corpo.

Si verificano nel gruppo muscolare obliquo esterno (chiamato anche fianco obliquo).

Quando un individuo prova questo tipo di dolore non riesce a pensare a nient’altro, perché il dolore è molto intenso, così di solito si analizza la causa che lo ha prodotto per alleviarlo, i muscoli sono stanchi, ma non tanto per il loro stesso sforzo ma per la tensione provocata all’interno a causa dell’eccesso di attività del muscolo del diaframma.

Può anche essere conseguenza di un’ischemia diaframmatica

Questa è una riduzione del flusso sanguigno generalmente provocata da ostacoli nei vasi sanguigni che causano un danno o una disfunzione del tessuto, alcuni atleti hanno avvertito la manifestazione del dolore nell’estremità della scapola, anziché nei muscoli del fianco.

La causa di questo dolore si attribuisce al fatto che si tratta di un luogo di riferimento del dolore nel diaframma attraverso il nervo frenico (termine utilizzato per descrivere il fenomeno del dolore percepito in un luogo adiacente o a una certa distanza dal luogo in cui si è verificata la lesione, come in un attacco cardiaco, nel quale il dolore si avverte normalmente nel collo, sulle spalle o sulla schiena anziché nel petto).

Utilizzando il punto LI-10, sfregando il nervo lentamente e a ritmo regolare dal gomito verso la mano, il diaframma sembra stabilizzarsi (poiché la respirazione si regola e diventa più profonda), diminuisce anche il dolore e si rilassa il muscolo che sta sopportando gli spasmi, si tratta di una tecnica molto utile in qualsiasi sport o attività, specialmente nel nuoto o in altre attività che aumentano il ritmo della respirazione fino a livelli elevati, nei quali si verifica una maggior incidenza di fitte al fianco.

Così quando si è scoperto che rilassava il diaframma, si è scoperto anche che poteva essere una cura o una tecnica per attenuare il singhiozzo

Il singhiozzo provoca contrazioni repentine ed involontarie del muscolo del diaframma, quando il muscolo si contrae ripetutamente, lo spazio tra le corde vocali si chiude all’improvviso per controllare il transito dell’aria e fa in modo che il singhiozzo si faccia sentire.

Il singhiozzo può essere provocato dall’irritazione dei nervi che vanno dal collo al petto come conseguenza di uno sforzo eccessivo, questo colpisce  specialmente il nervo frenico, che è il responsabile dell’attività del diaframma, può anche essere causato da diverse alterazioni del sistema nervoso centrale e periferico, come conseguenza di lesioni o irritazioni dei nervi frenici vaghi che a volte possono essere provocate da tecniche sui punti di pressione quando si attaccano direttamente quei nervi.

Il ridere prolungato, lo sforzo eccessivo o anche l’ingestione di alimenti troppo in fretta sono cause note del singhiozzo, per esempio, se respiriamo troppo rapidamente o ansimiamo come conseguenza di uno shock corporale improvviso, possiamo liberare od inghiottire aria e provocare il singhiozzo, questo è dovuto al fatto che lo stomaco, che si trova sotto il diaframma e attaccato a questo, è gonfiato o allungato (come quando si mangia o si beve in eccesso).

Siccome il singhiozzo si produce anche quando si mangia o si beve, si crede che sia un atto riflesso per evitare un soffocamento

Ma il singhiozzo può essere indotto, quindi questa non è una spiegazione valida, è interessante che la chirurgia per disabilitare il nervo frenico (il nervo che controlla il diaframma) spesso è l’unica soluzione efficace.

La relazione naturale tra questi due argomenti ci ha aiutato a comprendere ancora una volta i punti di pressione e i suoi effetti con maggior chiarezza, anche le nostre abilità sono migliorate in modo considerevole, poiché abbiamo avuto l’opportunità di lavorare in modo duale, provocando alleviando i sintomi fisici.

La cosa più importante comunque è che si sta indagando di continuo e svelando nuovi metodi in entrambe le modalità.

Per esempio, si sono scoperti molti altri punti del corpo con i quali possiamo indurre il singhiozzo o persino bloccare la respirazione dell’individuo, le ricerche non hanno fine, ci sono sempre nuove possibilità e modi per aiutare le persone nei momenti di difficoltà.

Note


[MAESTRI DELLA STORIA] Bruce Lee, incontro con il TAO (道)

C’è qualcosa di misterioso e di solitario che c’era prima del cielo e della terra, è immutabile, inafferrabile.

È l’unità e il vuoto, percorre eternamente un circolo ed è inesauribile, per quella che può essere chiamata “la madre di tutte le cose”, io non conosco il suo nome, ma faccio uno sforzo e lo chiamo TAO.

Tentare di spiegare il Tao sarebbe un lavoro impossibile.

Come minimo si dovrebbe scrivere un altro libro sul TAO The King e nonostante questo non ce la faremmo, perché invece di avvicinarci al Tao ci saremmo allontanati.

Perché il Tao nella sua essenza è inspiegabile e inesprimibile, si sente o non si sente, ma non si può descrivere.

Perché per quanto si parli di lui è difficile arrivare alla sua piena comprensione, principalmente in un mondo così materialista.

Forse alcuni possono pensare che questa sia un’utopia, qualcosa di irreale, creato dall’immaginazione di alcuni, tuttavia risulta insolito che tutti i grandi Maestri abbiano descritto la stessa cosa: l’unione tra la mente e il corpo con l’ambiente circostante, qualcosa di tanto facile da spiegare, ma al tempo stesso tanto complicato da fare e, soprattutto da applicare…



Alcuni esempi storici sul TAO


MASUTATSU OYAMA

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale Mas Oyama è un 4° dan di Karate, forgiato e indurito dagli orrori della guerra e dell’occupazione, è allora che avviene un fatto che cambia completamente la sua vita e le sue motivazioni: l’avvio di una guerra civile tra il Nord e il Sud della Corea.

Questa divisione del suo paese natale lacera il cuore del giovane esiliato coreano, che non sopporta di vedere come la sua gente sia spinta a massacrarsi reciprocamente, in una lotta fratello contro fratello.

Profondamente deluso e schifato di tutto, Mas Oyama si lascia prendere dalla disperazione e dal disinteresse.

Abbandonando tutto, il mondo gli sta cadendo addosso.

Quando conosce un Maestro carismatico di Karate Goju-Kai, anch’egli di origine coreana, questo mistico personaggio gli dà solamente un consiglio, abbandonare la sua vita attuale, ritirarsi in una montagna e coltivare nella natura il suo corpo e il suo spirito, e forse così riuscirà a ristabilire il suo equilibrio emozionale.

Oyama comprende che solo un cambio radicale di esistenza può restituirgli la gioia e l’energia, perciò decide di seguire i consigli del Maestro.

Il resto è già pubblicato sulla sua biografia in un precedente articolo.


YAMAGUCHI GOGEN

Quando la Seconda Guerra Mondiale finì, il Giappone era materialmente e moralmente distrutto, davanti a questo desolante scenario, Yamaguchi Gogen pensa di ricorrere all’Harakiri.

Un giorno pregando per la purezza dello spirito prima di commettere il suicidio, ha una rivelazione che cambia il suo destino.

Visualizza la sua missione: la ricostruzione della scuola Goyu Ryu per aiutare il Giappone e il mondo.

Dopo quella visione intensifica i suoi allenamenti di Karate, ma ancor di più la meditazione e la pratica della religione Scintoista, della quale è monaco e che considera indissociabile dal suo Karate.

Lo Scintoismo era la religione ancestrale dei giapponesi, la cui base è la venerazione dei principi della natura e il contatto con essa attraverso pratiche sui monti, mari e fiumi.

Per questo motivo il Maestro era solito andare una volta al mese in montagna per mettersi in contatto con la natura e meditare nella più assoluta solitudine, oltre che per perfezionare i suoi Kata sotto le cascate d’acqua gelida cercando di mantenere il suo spirito sereno, pur essendo nel mezzo delle più severe condizioni.


MORIHEI UESHIBA

Secondo diversi racconti, dopo anni di pratica e allenamento in diverse arti marziali, un giorno ebbe una visione che cambiò completamente la sua vita.

Attraverso di essa trovò il suo equilibrio con l’universo.

Su questo ci sono molti scritti e le spiegazioni su questa fantastica visione non smettono di essere incredibili.

Alcuni raccontano che vide una specie di gnomo o folletto, il quale gli raccontò i segreti dell’Universo, in altre biografie raccontano che un giorno, meditando, contemplò come il suo spirito si fondesse in lui formando carne e anima in un unico blocco, coscienti ambedue di questa unione…

La cosa certa è che dopo aver avuto la succitata visione, cambiò completamente vita, si iniziò a chiedere a cosa servisse sconfiggere un avversario, quali benefici ne avrebbe avuto, perché se hai sconfitto una persona, prima o poi ti sconfiggerà un altro rivale, il vincitore di oggi sarà lo sconfitto di domani.

Un giorno avrebbe perduto quella vitalità e avrebbe trovato qualcuno di più giovane e con meno conoscenze che lo avrebbe sconfitto.

Morihei cercava quell’arte marziale in cui la forza bruta passasse in secondo piano e prevalesse la tecnica, nella quale esistesse un equilibrio universale e grazie alla quale qualunque persona, per quanto debole fosse, potesse sconfiggere qualunque rivale, per quanto forte o giovane fosse.

A partire dall’idea che la forza non è tutto nelle arti marziali, creò il concetto basilare dell’Aikido che è Al:unione, Ki: vita, energia e Do:via o strada.

La via dell’armonia con l’energia universale, con questo concetto cominciò a lavorare e a perfezionare la tecnica di base per due anni, fino a sviluppare quello che oggi è l’Aikido.


Tutti i grandi Maestri delle arti marziali hanno un denominatore comune: la rivelazione del TAO

Un giorno hanno un’esperienza che cambia completamente la loro vita e le loro concezioni delle arti marziali, cioè che li spinge a contemplare tutto da un’ottica diversa, da allora esiste un “prima” e un “dopo” nella loro esistenza.

Grazie a quel momento o esperienza, riescono a trovare l’equilibrio tra mente e corpo, vale a dire l’unione tra l’uomo e il suo ambiente.

Da allora acquisiscono quel grado di “intendimento” che fa si che i loro progressi nelle arti marziali siano notevoli, segnando un sentiero che altri, più tardi trasformeranno in strada.

Nel caso del Piccolo Drago non poteva essere altrimenti

Esiste uno scritto dello stesso Bruce Lee in cui spiega quel momento trascendentale della sua vita.

La cosa curiosa in questo caso è che successe quando aveva 17 anni, era molto giovane.

Tuttavia, dopo averlo letto, non vi è spazio per i dubbi, quel “momento” ebbe luogo quando navigava solo in un giunco nel porto di Victoria (Hong Kong), grazie ad esso Bruce Lee riuscì a raggiungere quello che i cinesi chiamano Tun Wu e i giapponesi Satori.

Lo Zen considera questo momento come un intendimento spirituale inaspettato o un risveglio nei sensi del quale l’uomo aderisce con la natura.

È ciò che i cinesi denominano Tao

Quell’esperienza cambiò la vita di Bruce Lee ed evidentemente anche la sua filosofia di vita.

Anni dopo il Drago descrisse questo cruciale momento con una grande quantità di dettagli e sfumature, in uno dei suoi scritti scolastici dell’università, intitolandolo “un momento di comprensione” fu scritto nel suo primo anno di facoltà, quando studiava filosofia e sorprende per la sua semplicità e la sua profondità rende comprensibile ai neofiti quella connessione tra l’uomo e il “Tao”.

Un qualcosa che altri Maestri tentarono con scritti molti più ampi e spiegazioni più estese, ma secondo la mia opinione, meno chiari.

Un altro “tocco” della genialità del “Piccolo Drago”, il Gung Fu è il tipo di pratica molto particolare un’arte splendida più che un puro esercizio fisico, l’arte consiste nel coniugare l’essenza della mente con le tecniche su cui lavorare.

Il principio del Kung Fu non è qualcosa che si può imparare come una scienza, mediante costrutti e cercando riscontri.

In sostanza infatti deve crescere spontaneamente, come un fiore, in una mente libera da emozioni e desideri, il nucleo di questo principio del Gung Fu è il Tao, la spontaneità dell’universo.


Un aneddoto del Piccolo Drago

Dopo quattro anni di duro allenamento, cominciai a capire e sentire l’essenziale, che altro non era che l’armonia di queste pratiche, l’arte di neutralizzare il rivale, minimizzando l’uso della mia energia, tutto questo deve essere fatto con calma e senza sforzo.

Tutto sembrava semplice, ma nella pratica risultava molto difficile da fare

Quando affrontavo un avversario in combattimento, la mia mente era completamente turbata e instabile, specialmente dopo aver dato e ricevuto una serie di colpi e calci, tutta la mia teoria di armonia era sparita, l’unico pensiero che persisteva era quello di dover, in un modo o nell’altro, attaccare e sconfiggere il mio avversario.

Un giorno il mio Maestro di Wing Chun, si avvicinò a me e mi disse: “Loong, rilassa e calma la tua mente, dimentica te stesso e segui i movimenti del tuo rivale, lascia agire liberamente la tua mente, senza nessun tipo di ragionamento che interferisca, soprattutto impara l’arte della separazione”.

E lì stava la soluzione: dovevo rilassarmi, tuttavia, in quello stesso momento avevo appena fatto qualcosa di contrario alla mia volontà, questo accadde nel preciso istante in cui mi dissi: “devo rilassarmi”

La pretesa dello sforzo in quel “devo” era già di per sé in contraddizione con l’idea di rilassarmi, soprattutto mentre la mia accentuata timidezza cresceva fino a quella che gli psicologi chiamano “doppio legame”, per me era terribilmente difficile farlo, allora il mio Maestro si avvicinò nuovamente e mi disse “Loong, prova a liberarti e a lasciarti trasportare dai tuoi istinti naturali, senza che tu interferisca, ricorda che non devi mai contraddire la natura: non ti opporre mai ostinatamente a nessun problema, ma cerca piuttosto di risolverlo analizzandolo, non allenarti questa settimana, vai a casa e pensaci su“.

La settimana seguente rimasi a casa, dopo aver passato varie ore a meditare e allenandomi, mi diedi per vinto e decisi di uscire in barca un momento da solo, in mare pensavo a tutto il mio allenamento passato, mi irritai con me stesso e diedi un colpo sull’acqua, giusto in quel momento mi sovvenne un’idea: non era proprio quell’acqua la vera essenza del Gung Fu?

La colpii nuovamente e non subì nessun danno, sferrai un altro colpo con tutte le mie forze e, ovviamente ancora una volta l’acqua non subì alcun danno, quindi tentai di afferrarne un po’ ma fu impossibile.

L’acqua, la sostanza più serena del mondo, potrebbe riempire qualunque recipiente acquisendone la forma, benché sembri debole, potrebbe penetrare la sostanza più grezza e dura della terra, ecco il punto!

Io dovevo essere come l’essenza dell’acqua! Improvvisamente un uccello che volava, si riflettè sull’acqua del mare, in quell’istante, mentre io ero assorto nella lezione dell’acqua, mi venne rivelato un altro significato mistico dell’enigma: non è che forse i miei pensieri e le mie emozioni di fronte al mio avversario dovessero essere come il riflesso di un uccello sull’acqua?

Questo era esattamente ciò che il professor Yip Man voleva dire quando parlava di slegarsi, non si trattava di non possedere pensieri o sentimenti, piuttosto essi non dovevano bloccarmi, dovevo in primo luogo accettarmi in relazione con la natura e non contrappormi ad essa, finalmente sentivo di essermi unito con il Tao, mi ero unificato con la natura.

Ero disteso dentro la barca e la lasciai scivolare liberamente sull’acqua in sintonia con la sua volontà, da quel momento ottenni uno stato di benessere peculiare e non ci furono più conflitti nella mia mente, la totalità del mondo è l’unità.


In virtù di quell’esperienza la mentalità di Bruce Lee cambiò

In virtù di quell’esperienza, la mentalità di Bruce Lee cambiò, forse in quei momenti non era pronto a “quello“.

Ciò che è indiscutibile è che quell’esperienza lo segnò e, come gli altri Maestri, gli indicò la strada da seguire, trasformando quella “lezione“ nel principio del Jeet Kune Do, dove impera l’adattabilità di fronte a qualunque avversario e circostanza, senza opporre resistenza, fondendosi con l’ambiente, come piegava Bruce Lee in una delle sue più conosciute massime:

Sii come l’acqua, l’acqua non ha forma e tuttavia ce l’ha.

È l’elemento più morbido della terra, ma penetra nella pietra più dura. Non ha una propria forma, ma può adattarla all’oggetto che la contiene.

In una tazza acquisisce la forma di una tazza, in un vaso da fiori adotta la forma del vaso e circonda i fusti dei fiori, mettila in una teiera e si trasforma in teiera.

Per favore, osserva l’adattabilità dell’acqua, se la comprimi a gran velocità, fluisce velocemente, se la comprimi lentamente, fluisce pian piano.

Può sembrare che l’acqua si muova in modo contraddittorio, perfino verso l’alto, ma in realtà sceglie qualunque strada libera per poter arrivare al mare, può fluire rapidamente o lentamente, ma il suo proposito è inesorabile, il suo destino sicuro…

Bruce Lee impregnò il Jeet Kune Do dell’ideologia che abbiamo appena letto

La base del JKD tratta l’individualismo, l’auto espressione e la capacità dell’uomo di imparare ad adattarsi in modo immediato e armonioso a qualunque ostacolo che possa trovarsi durante il tragitto.

Attraverso questo processo di adattamento, Bruce Lee pensava di poter superare tutte le difficoltà.

Il suo punto di vista era diverso, la sua prospettiva della condizione umana unica e, soprattutto, la filosofia della quale fu pioniere, ha indicato una via da seguire nelle arti marziali.

Sfortunatamente si è considerata solo la grande diffusione delle arti marziali che realizzò con i suoi film o i suoi eccezionali attributi fisici.

Tuttavia Bruce Lee fu, come abbiamo potuto vedere, molto più di questo.

Suppongo che trasmettere questo, in quegli anni, quando non si conoscevano nemmeno le arti marziali, fosse qualcosa di molto difficile, in ogni modo la sua eredità è li, ora è compito dei suoi allievi e praticanti di Jeet Kune Do perpetuarla e diffonderla.

Note


[PAURA & AUTODIFESA] Psicologia di un conflitto inaspettato

La paura, una volta manifestata in sintomi, non è altro che una sindrome che si concretizza in un quadro ben definito di alterazioni psicosomatiche. Vediamo assieme alcuni esempi di questa condizione


Alcuni esempi reali

Primo scenario

NEW YORK, giovedì 3 giugno 2005. I giornali della città riportavano la notizia di una sparatoria nella quale ferirono un poliziotto: si era salvato miracolosamente grazie al suo corpetto antiproiettile.

In quella stessa notizia veniva sottolineato il fatto che, mentre l’ufficiale risultato ferito aveva affrontato il delinquente, il suo collega era fuggito spaventato dalla scena.

Tutti i giornali erano d’accordo nel dare risalto al fatto in particolar modo per l’impressionante atto di vigliaccheria del collega.

Secondo scenario

Tempo fa fece scalpore la notizia che Alex Gong, direttore del Fairtex Gym in California, era stato vittima di alcuni colpi di pistola ed era morto in una delle strade più frequentate di San Francisco.

Gli avvenimenti erano stati i seguenti: un conducente, che viaggiava in una jeep, era andato a sbattere contro la sua auto che era parcheggiata, immediatamente si era dato alla fuga.

Alex lo aveva seguito a piedi fino ad acciuffarlo più avanti, il conducente si era fermato ad un semaforo rosso, nel momento in cui Alex lo aveva raggiunto, l’individuo in questione aveva estratto un’arma ed aperto il fuoco contro di lui, perdendosi poco dopo in mezzo al traffico.

Alex era stato colpito appena sopra il cuore, una ferita mortale. Più tardi ritrovarono il Cherokee abbandonato in un altro luogo.

Per chi non conosce Alex Gong, va detto che era campione del mondo di Muay Thai, il suo nome aveva brillato di luce propria a Las Vegas, in altre parole un artista marziale molto ben preparato.

Terzo scenario

Giovedì 12 settembre 1991, l’ufficiale di polizia Hèctor Antonio Fontanez Diaz morì a causa dei colpi di pistola ricevuti inseguendo in un vicolo cieco un criminale armato.

Gli ufficiali avvistarono Il criminale nella zona su una bicicletta ed in possesso di un’arma da fuoco.

L’ufficiale Fontanez fu in grado di rispondere al fuoco facendo centro almeno cinque volte, ed il criminale fu arrestato alla fine da altri ufficiali.

A suo tempo, questi fatti hanno occupato le prime pagine dei mezzi di comunicazione giungendo a catturare l’attenzione dell’opinione pubblica in generale.


Analizziamo assieme i dati

La ragione per la quale ne parlo è che nei tre eventi si è prodotta una violenza non prevedibile.

Essi rappresentano perfettamente la reazione umana che essa scatena.

Vale a dire le condotte che palesiamo di fronte ad un conflitto inaspettato, quando una persona affronta una situazione di stress come quelle a cui furono esposte le persone di questi esempi.

La reazione “normale, umana” è istintiva di sopravvivenza, e può essere di due tipi, paura (fuga) o rabbia (aggressione).

La fuga

Nel primo caso, cioè in quello del poliziotto in fuga, è facile giungere alla conclusione che la paura si sia impadronita di lui e sia riuscita a dominarlo.

La paura è un’emozione umana naturale, che ci aiuta a focalizzare le situazioni di stress.

Tuttavia essa è generalmente presentata come una debolezza del carattere, la paura può essere provocata da una minaccia reale o percepita come tale, la nostra reazione istintiva sarà quella di intervenire o, al contrario, quella di fuggire.

La condizione di paura una volta manifestata in sintomi non è altro che una sindrome

La paura, una volta manifestata in sintomi, non è altro che una sindrome che si concretizza in un quadro ben definito di alterazioni psicosomatiche quali:

  • Tachicardie o bradicardie;
  • Diminuzione o l’aumento di determinate attività ghiandolari;
  • Cambiamenti della temperatura del corpo;
  • ecc…

A sua volta tutto ciò produce negli individui trasformazioni in determinate parti del corpo, che li spingono ad agire in una direzione o in un’altra.

Nel caso di Alex Gong e del poliziotto Fontanez, furono la rabbia e il coraggio a determinare la loro reazione.

Le tre reazioni umane primarie sono il coraggio o rabbia, la paura e l’amore

Le prime tre esplodono come risultato di una reazione immediata ad uno stimolo esterno, o come risultato di un processo soggettivo indiretto, derivante dalla memoria, dall’associazione o dall’introspezione.

La cosa curiosa di tutto ciò è che le strutture anatomiche dove risiedono i controlli di queste reazioni, si trovano tutte nella stessa porzione del nostro cervello centrale, l’ipotalamo.

L’ipotalamo controlla un’ampia gamma di funzioni vitali del nostro organismo.

Dirige anche la risposta tipica del “correre o lottare” del sistema nervoso autonomo, l’eccitazione o la paura costringono i segnali a viaggiare verso l’ipotalamo, il quale produce a sua volta tachicardia o accelerazione del polso e della respirazione, pupille dilatate ed aumento del flusso sanguigno.

Quando le persone si arrabbiano o hanno paura cominciano a pensare dal cervello centrale invece che dal cervello anteriore

Quando le persone si arrabbiano o si spaventano, cominciano a pensare e, quindi, ad agire dal cervello centrale invece che dal cervello anteriore, che è dove risiede la “mente umana” o il cervello più avanzato.

So che non suona molto attraente, ma nonostante la nostra evoluzione apparente, l’unico modo di avere influenza su questa zona del cervello è usare lo stesso metodo che funziona con i cani: il condizionamento psicologico.

Vale a dire ripetere esattamente lo stimolo che si potrebbe affrontare nella realtà e perfezionare la risposta desiderata una volta dopo l’altra, in modo che nel bel mezzo di un’eventuale crisi il cervello abbia una più alta probabilità di reagire nel modo desiderato, benché ci si trovi in una situazione di stress estremo.

In definitiva, questo è ciò che facciamo quando ci alleniamo ,imparare a condizionare o a controllare queste emozioni primarie, sia se si tratta di allenamenti polizieschi, che di arti marziali.

CONDIZIONAMENTO PSICOLOGICO

Come sappiamo la maggior parte dei dipartimenti di polizia e delle agenzie di sicurezza cerca di educare i loro membri con qualche tipo di allenamento, che li aiuti a fare meglio il loro lavoro, tuttavia le limitate possibilità in termini economici, la perenne mancanza di personale, oltre alla minaccia costante delle procedure giudiziarie, fanno si che, sia i dipartimenti di polizia che le agenzie di sicurezza, limitino in un certo senso le possibilità di allenare il loro personale in modo più realistico.


Un altro esempio pratico: l’addestramento al poligono

Per esempio nella maggior parte dei poligoni di tiro polizieschi si seguono protocolli di sicurezza che vanno a scapito dell’introduzione della pressione psicologica nell’esercizio, cosa che apporterebbe agli esercizi stessi molto più realismo ed efficacia.

  • Si spara dopo aver sentito un suono preciso emesso dagli istruttori;
  • Si usano cuffie per diminuire il rumore degli spari (per prevenire il danno acustico);
  • Si spara da una linea predeterminata, la quantità di pallottole che stabilisce la torre di controllo;
  • Si spara ad un’ora e in un luogo predeterminato, ad oggetti generalmente immobili, che naturalmente non rispondono al fuoco.

In realtà, l’allenamento offerto è generalmente accettabile quanto alla formazione fisica e tecnica dell’allievo, sarà l’atteggiamento del partecipante di fronte all’allenamento che alla fine deciderà la portata e l’autenticità dello stesso.

È l’allievo che deve trovare un modo di integrare la parte psicologica e tattica al suo allenamento, ed adattare i livelli della sua preparazione personale alla realtà.


Ci sono quattro livelli di condizionamento mentale

Tutti rispondiamo agli stimoli in funzione dello stato mentale in cui ci troviamo in quel momento, per questo motivo, per essere capaci di rispondere ad un possibile attacco inaspettato, dobbiamo coltivare l’allerta rispetto a tutto quello che sta succedendo intorno a noi.

Sebbene sia vero che non è pratico né appropriato vivere “col dito sul grilletto”, non lo è nemmeno voler vivere la propria vita in un limbo di spalle al mondo che ci circonda, trasformandosi così in un bersaglio ambulante.

In alcuni corpi militari come nei servizi di pronto soccorso, i differenti livelli di allerta sono insegnati attraverso un sistema che usa un codice di colori, che rappresenta i differenti tipi di coscienza dell’esperienza di un essere umano.

CONDIZIONE BIANCA

È lo stato mentale in cui la maggior parte delle persone vive la sua vita.

Nella condizione “bianca” non ci si aspetta nessun tipo di problemi, né si cercano problemi, in questa condizione ci sentiamo ed agiamo perfettamente fiduciosi e sicuri.

È come se il mondo che ci circonda fosse la nostra stanza, e noi avessimo il controllo di tutto quello che succede attorno a noi.

Pensiamo che niente di male ci può succedere, è la condizione idonea per diventare delle vittime.

CONDIZIONE GIALLA

Questa è la condizione nella quale si dovrebbe stare quando ci si trova in pubblico, cioè in un ambiente che non è intimo o familiare.

Corrisponde all’equivalente mentale del semaforo, cioè, questo stato ci suggerisce di procedere con precauzione, si deve essere coscienti di ciò che accade attorno a noi.

Per esempio chi vi sta dietro, va mantenuta sempre la distanza perlomeno di un braccio dagli estranei.

È conveniente, inoltre, abituarsi a giocare un gioco mentale, analizzando le persone che ci circondano: che tipo di persone possono essere… che situazioni potrebbero prodursi inaspettatamente ecc…

In questa condizione si devono ascoltare i propri istinti, attenti a qualunque eventuale pericolo.

CONDIZIONE ARANCIONE

A questo livello si deve capire che sicuramente… qualcosa non va per il verso giusto.

Si deve ammettere che esiste un pericolo, questo è uno stato d’allarme, essenzialmente la decisione è di allontanarsi o di prepararsi ad agire.

CONDIZIONE ROSSA

In questa condizione l’azione è imminente.

Non appena la minaccia si manifesta, si deve agire, qualunque risposta o colpo che si stia preparando, deve essere portato a compimento immediatamente, con tutta la velocità e l’aggressività possibili.

In questo momento si deve esercitare un controllo sulle proprie emozioni, non sopprimerle.


IN CONCLUSIONE

Allenarsi per partecipare ad un torneo, per migliorare la propria immagine fisica, persino per mantenere la salute sono ragioni adeguate, ma naturalmente non ci si prepara ad affrontare situazioni spontanee di vita o di morte.

Malgrado la paura sia un’emozione così frequente, sono molto poche le persone che si allenano immergendosi in circostanze che evochino questa emozione.

L’obiettivo durante l’allenamento dovrebbe essere quello di considerare seriamente questo tema e lavorare di fatto sullo sviluppo dell’autocontrollo totale della paura e della rabbia, due reazioni tra le più sconvenienti in un conflitto inaspettato, che possono risultare letali.

Note


Traumi da prestazione sportiva: prevenzione e cura 2/2

Prima di affrontare questo argomento molto importante, (mi è costato mesi di ricerche ed elaborazioni per le mie tesi), è necessario parlare prima di una parte fondamentale dell’arto: la capsula.

Continuiamo il nostro articolo precedente.

Fondamentali di un arto: La capsula

Non si può parlare di spalla se non si descrive anatomicamente un’altra struttura anatomica fondamentale, la capsula articolare.

Questa struttura è formata da un manicotto fibroso che circonda tutta l’articolazione.

Esso è diviso convenzionalmente in una porzione anteriore ed una posteriore. Essendo estremamente flessibile, la capsula può subire retrazioni o lassità in base ad una genetica (prevalenza di fibre elastiche o collagene) sia in base al tipo di fisico (lasso, tonico, ecc..), all’età (fino all’età puberale c’è una tendenza alla lassità) alla funzionalità dell’arto superiore, al dolore, ed altro ancora.

La valutazione di tale struttura si esegue tramite il movimento passivo (meglio se eseguito in clinostatismo perché si riesce ad isolare in modo migliore il movimento gleno-omerale), appunto perché la capsula è una struttura passiva e quindi l’influenza delle forze muscolari o del movimento attivo contro gravità dell’arto potrebbero determinare l’insorgere di dolori secondari che, con ogni probabilità, svierebbero anche un bravo terapista dalla vera e propria natura della patologia.

Inoltre è necessario escludere le limitazioni di escursione che possono dipendere da un’insufficiente forza muscolare, evidenziabili in modo maggiore in ortostatismo.

Le retrazioni possono essere solo riferite ad una porzione o a tutta la capsula, nel caso avessimo una rigidità nell’anteposizione passiva dell’arto superiore, si tratterebbe di una retrazione della capsula anteriore.

Al contrario se avessimo una rigidità della rotazione interna passiva dell’omero, si tratterebbe di una retrazione della capsula posteriore.

Un’attenta valutazione permette di individuare quale struttura è responsabile dell’eventuale dolore ed agire in modo specifico evitando protocolli prestabiliti, infatti il presupposto fondamentale di un buon recupero è quello di esaminare il soggetto che si ha di fronte, personalizzando e tarando il programma al suo preciso quadro patologico.

Non bisogna dimenticare che la capsula è una struttura riccamente innervata

Una sua alterazione quindi provoca nel soggetto una sensazione di dolore intenso e difficile da sopportare.

Infatti, in presenza di retrazione, durante lo stiramento della capsula si manifesta un’allodinia, ossia una sensazione dolorosa dovuta ad uno stimolo che normalmente non provoca dolore.

Il soggetto, cioè, avverte dolore in un angolo di movimento fisiologico che normalmente non dovrebbe provocare dolore.

Tale sensazione dolorosa è il campanello d’allarme che ci deve far pensare ad una rigidità capsulare, altro fattore da tener presente per individuare una rigidità capsulare è l’irradiazione del dolore lungo tutto l’arto, dolore che può estendersi fino alla mano.

In una capsula rigida, oltre al dolore da stiramento, si vengono a creare anche degli importanti attriti interni che con il passare dl tempo potrebbero determinare una degenerazione delle strutture anatomiche, complicando così ulteriormente la situazione.

Parliamo ora della varietà vasta delle patologie che potrebbero interessare la spalla, per cui è fondamentale non generalizzare, ma identificare e “chiamare per nome” la specifica patologia.

Non è più possibile sentir parlare solo di “periartrite scapolo-omerale, perché è un termine troppo generico per identificare realmente il problema.

Se ci trovassimo di fronte ad un dolore addominale cercheremmo di capire quale organo ne è la causa, la stessa cosa deve essere fatta a livello della spalla

Si deve comprendere quale struttura dell’arto è più interessata alla patologia: i muscoli, la capsula, i tendini, le ossa ecc… Dopo di che bisogna dare un nome ben preciso a ciascuna patologia: infiammazione del sovraspinato, tendinopatia calcifica della cuffia, tendinite del CLB, artrosi gleno-omerale, lussazione gleno-omerale, lussazione  acromion-claveare, fino ad elencarle tutte.

Tra le numerose patologie della spalla, quella della cuffia dei rotatori è quella che riveste il maggior interesse nel mondo sportivo, un buon terapista deve però conoscere l’intero quadro patologico, per avere la possibilità di risolvere il problema in ogni momento e situazione.

A tale scopo, di seguito ed in breve descriverò le varie patologie della spalla che spesso si possono incontrare in soggetti che svolgono un’attività sportiva regolare e non solo.

TENDINOPATIA CALCIFICA

Tra tutte le patologie che si presentano di frequente a seguito di movimenti ripetitivi, la prima è la tendinopatia calcifica, ossia la presenza di calcificazioni a livello tendineo su uno o più tendini della cuffia dei rotatori.

Questa patologia si manifesta soprattutto i soggetti giovani che, spesso, non sono a conoscenza del problema reale.

Esistono diversi tipi di calcificazioni:

  • TIPO A: a margini netti e ben definiti;
  • TIPO B: a margini non definiti, ma situata in una posizione inserzionale;
  • TIPO C: eterogenea polilobata a limiti ben definiti;
  • TIPO D: calcificazione distrofica inserzionale.

La classificazione può assumere un aspetto diverso anche in base al tendine interessato, esistono infatti calcificazioni posizionate nel tendine del sovraspinoso, del sottoscapolare, del capo lungo del bicipite, più rare, del sottospinoso del piccolo rotondo, tutte con diverse particolarità.

Un’ulteriore classificazione si può effettuare in base alle dimensioni:

  • Piccole: (< 10 mm);
  • Medie : (da 10 a 20 mm);
  • Grandi : (> 20 mm).

Le calcificazioni sono come “leoni” che dormono nei tendini, ma quando si svegliano il dolore si manifesta in modo immediato ed intenso, tale da far correre il soggetto al pronto soccorso

Infatti, quando una persona accusa e descrive eventi dolorosi acuti ed invalidanti, della durata di circa sette giorni, si può pensare ad una calcificazione, questo periodo di particolare sofferenza è riferito alla fase acuta, in cui si crea una congestione (afflusso eccessivo ed improvviso di liquido e sangue) all’interno del tendine accompagnata da impotenza funzionale, dolore, calore e rossore.

Nelle fasi acute, quando è possibile, ci si dovrebbe rivolgere subito ad un chirurgo specializzato nelle patologie della spalla, perché sarebbe meglio effettuare un lavaggio bursale, asportando così i residui calcifici ancora prima che si compattino.

Questa procedura consiste nel lavare lo spazio sottoacromiale con fisiologica e nel cercare di decongestionare, asportando parte del calcio presente con due aghi (l’esame strumentale indispensabile per effettuare questa procedura è la radiografia).

Qualora non ci fosse la disponibilità di un chirurgo esperto, è necessario spiegare al paziente che si tratta di una fase transitoria e, dopo il dolore acuto, sarà importante verificare che la mobilità della spalla sia completa e, nel caso, recuperare l’eventuale deficit di forza che si è creato

Naturalmente in quest’ultimo caso la calcificazione rimane presente nel tendine e, anche se dopo la prima fase acuta il dolore diminuirà notevolmente o nelle migliori condizioni cesserà di esistere, si potrebbero presentare problemi continui con tendenza ad incrementare lo stato patologico.

Per effettuare un trattamento riabilitativo adeguato, è importante conoscere e valutare attraverso la radiografia, di quale calcificazione si tratta, la grandezza e in quale tendine è posizionata, una delle conseguenze più assidue in una tendinopatia calcifica è la rigidità capsulare (questa è una patologia molto problematica, che tratterò successivamente), per cui è opportuno lavorare in prevenzione, facendo eseguire esercizi per la mobilità.

Dopo il lavaggio articolare o nel periodo successivo ad una fase acuta, deve seguire un periodo di riabilitazione  che prevede il recupero della mobilità e della forza dell’arto.

Tale periodo si completerà con un’attenta valutazione del paziente e con l’individuazione di un programma di esercizi da eseguire a domicilio o in palestra, il trattamento dovrà essere differente da seconda della tipologia e della localizzazione anatomica della calcificazione.

In seguito descriverò i principi del corretto trattamento riabilitativo da applicare ad ogni situazione.

Note


Traumi da prestazione sportiva: prevenzione e cura 1/2

È una vita che vivo, prima da atleta, ora come insegnante tecnico, gli allenamenti e i combattimenti negli sport da combattimento. Oggi parleremo della spalla

Alcune volte traumi all’interno delle gare mi hanno impedito la mia attività anche per mesi, senza capire inoltre il mio percorso di riabilitazione perché difficilmente riuscivo a farmi spiegare in cosa consistesse il suddetto percorso dal lato tecnico.

Ho iniziato a documentarmi per capire, ed oggi sto effettuando la laser terapia per un trauma alla cuffia dei rotatori, ma sono cosciente di ciò che sto facendo.

Cercherò di affrontare il problema della traumatologia delle varie parti del corpo facendo dei cenni all’anatomia e fisiologia, sperando che questo mio contributo sia utile se non a evitare, ma almeno a capire ciò che ci è accaduto durante una prestazione sportiva traumatica.


SPALLA: PREVENZIONE E TRATTAMENTO

La spalla rappresenta, in tutto il corpo umano, l’articolazione dotata di maggiore mobilità. La sua struttura anatomica, infatti, consente tre gradi di movimento e permette così di svolgere anche il movimento di circonduzione.

La grande escursione di movimento che questa articolazione possiede, contestualmente ad altri fattori, la rende però anche molto vulnerabile alle lesioni.

In seguito verranno affrontati i passi indispensabili per conoscere le regole relative alla prevenzione e al trattamento delle patologie della spalla, al fine di consentire lo sviluppo di “muscoli intelligenti” che possano rendere più efficienti e controllati i movimenti di questa articolazione.

Verranno illustrate le regole che riguardano la valutazione e lo sviluppo del grado di flessibilità dell’articolazione, che rappresenta un parametro fondamentale per il buon funzionamento della spalla.

Specifico che i concetti descritti in seguito non sono solo validi per gli atleti, ma son applicabili a chiunque.

QUALCHE ACCENNO DI ANATOMIA E FISIOLOGIA

L’anatomia rappresenta la premessa fondamentale per comprendere la complessità di questa articolazione e per svolgere un programma specifico di prevenzione o trattamento riabilitativo.

La spalla è composta da diversi elementi anatomici che ne permettono il corretto funzionamento, le strutture ossee sono rappresentate dall’omero, dalla scapola e dalla clavicola.

Il funzionamento della spalla dipende dall’intervento coordinato di più articolazioni che la rappresentano, la sua funzionalità è garantita sia dalla forza contrattile dei muscoli, sia dalla resistenza passiva delle strutture capsulari e legamentose, che attraverso i segmenti ossei creano le necessarie leve biomeccaniche utili al movimento. Le articolazioni che rappresentano la spalla sono le seguenti:

  • Acromion-claveare;
  • Sterno-claveare;
  • Scapolo-toracica;
  • Gleno-omerale;
  • Sotto-deltoidea.

Il medico Adalbert I. Kapandji definisce “vere“ tre articolazioni che costituiscono la spalla, mentre le altre due sono definite “false“.

Le cosiddette “false“ vengono chiamate tali perché non presentano dei veri e propri collegamenti articolari tra i vari capi ossei, ma creano uno scivolamento tra un osso e l’altro, tale movimento si realizza attraverso il tessuto muscolare e connettivale che è interposto tra le strutture.

Le articolazioni considerate vere secondo Kapandiji sono:

  • Gleno-omerale;
  • Acromion-claveare;
  • Sterno-claveare.

L’articolazione che desta più interesse dal punto di vista funzionale e patologico è la gleno-omerale, anche se è necessario sottolineare che un buon funzionamento della spalla è reso possibile solo dal sincronismo di tutte e cinque le articolazioni che la rappresentano.

L’equilibrio della testa dell’omero rispetto alla glena è garantito da strutture anatomiche di stabilizzazione passiva ed attiva. Siccome l’articolazione gleno-omerale non è rappresentata da un incastro meccanico che ne garantisce stabilità, la testa omerale, in assenza delle strutture attive e passive prima descritte, in linea teorica tenderebbe a cadere per gravità.

Gli stabilizzatori passivi, oltre a contribuire alla stabilità, sono in grado di ammortizzare i carichi che si trasmettono all’articolazione in conseguenza del movimento.

Questi sono rappresentati da:

Legamento GOS (gleno-omerale-superiore):

ha la funzione di stabilizzare anteriormente la testa omerale, ne limita l’extra-rotazione e la traslazione inferiore quando il braccio è addotto al fianco;

Legamento GOM (gleno-omerale-medio):

ha la funzione di stabilizzare anteriormente la testa omerale e ne limita l’extrarotazione quando il braccio si trova a circa 45° di abduzione;

Legamento GOI (gleno-omerale-inferiore):

la funzione di stabilizzatore dinamico antero-inferiore, soprattutto quando il braccio si trova in una posizione di 90° di abduzione ed extrarotazione.

Questa struttura mostra una certa somiglianza con un’amaca, ancorata da una parte alle glena, dall’altra alla testa omerale.

La similitudine non è solo strutturale, ma anche funzionale, quando il braccio si trova, come descritto sopra, in abduzione ed extra-rotazione, il GOI sostiene la testa omerale come se fosse appoggiata su un’amaca;

Il legamento coraco-omerale:

ha la funzione di sostegno passivo per evitare la caduta della testa omerale verso il basso con il braccio addotto al fianco;

Il CLB (il capo lungo del bicipite):

con la sua inserzione nel tubercologlenoideo, ha la duplice funzione di componente depressoria passiva e di stabilizzatore anteriore della testa dell’omero.


Provando ad immaginare una similitudine, il capo lungo del bicipite svolge la stessa funzione di un tirante che tiene a terra una mongolfiera

Qualora la mongolfiera, per qualsiasi motivo, dovesse tendere a salire verso l’alto in modo maggiore, la trazione del tirante verrebbe incrementata.

In un primo momento si avrebbe solo lo stiramento del tirante, ma se la situazione rimanesse invariata, con ogni probabilità si arriverebbe addirittura ad una rottura dello stesso.

Ugualmente, quando i muscoli della cuffia dei rotatori non tengono più depressa e centrata la testa omerale, essa tenderà a salire verso l’articolazione acromion-claveare, le tensioni di questa risalita si andranno a scaricare sull’apparato di contenzione passiva, in particolare sul capo lungo del bicipite.

La continua forza tensionale che si scarica su quest’ultimo tenderà, con il tempo, a trasformare la sua struttura tubolare in una più schiacciata e debole.

  • Il cercine ( anello fibro-cartilagineo ) ha la funzione di aumentare la superficie di congruenza della glenoide con la testa omerale.

Gli stabilizzatori attivi sono rappresentati dal complesso muscolo-tendineo della spalla chiamato cuffia dei rotatori, questa struttura è rappresentata dai quattro muscoli che avvolgono la testa omerale come una vera e propria cuffia.

  • Sovraspinato: ha origine nella fossa sovraspinata e si inserisce sul trochite, innervato dal nervo sovrascapolare.
  • Sottospinato: ha origine nella fossa sottospinata e si inserisce sul trochite, innervato dal nervo sottoscapolare.
  • Sottoscapolare: (STSC) ha origine dal margine mediale della scapola e si inserisce sul trochite passando tra la scapola e il torace, innervato dal nervo sottoscapolare.
  • Piccolo Rotondo: ha origine nella parte inferiore e laterale della fossa sottospinata e si inserisce sul trochite, innervato dal nervo ascellare come il muscolo deltoide.

Oltre a questo gruppo muscolare, che si trova a stretto contatto con la testa omerale, altri gruppi partecipano al movimento biomeccanico dell’omero, uno di essi è rappresentato dal pivot della scapola

In particolare il dentato anteriore e il trapezio che accompagnano il movimento della scapola rispettivamente durante l’anteposizione attiva e l’abduzione attiva.

Un altro importante muscolo è il deltoide, questo muscolo crea una coppia di forze con la cuffia dei rotatori che risulta necessaria per l’abduzione dell’arto superiore contro resistenza.

Nella gleno-omerale, infatti, esiste un equilibrio supero-inferiore ed uno antero-posteriore, l’equilibrio supero-inferiore è dato dalla coppia di forze tra cuffia e deltoide, la cuffia centra e deprime la testa omerale, mentre il deltoide la eleva e la decoapta verso l’alto.

Se venisse a mancare tale equilibrio di forze, si avrebbe una maggior risalita o abbassamento della testa omerale a seconda di quale tirante risultasse deficitario, l’azione della cuffia dei rotatori è fondamentale per l’abduzione dell’arto.

Qualora, per ipotesi, si dovesse avere un’assenza completa della cuffia dei rotatori, sarebbe molto difficile abdurre attivamente l’arto, si riuscirebbe ugualmente ad anteporlo grazie alla sola azione del deltoide anteriore, ma per l’abduzione è necessario ed indispensabile l’intervento della cuffia.

Infatti, nell’esecuzione del movimento di abduzione si aggiunge obbligatoriamente la rotazione esterna per poter svincolare a 90° il trochite e permette il passaggio sotto l’arco coraco-acromiale.

Al contrario, se venisse a mancare il deltoide, ad esempio per una denervazione completa, l’abduzione sarebbe comunque possibile grazie all’azione della cuffia dei rotatori.

Naturalmente,però, non si riuscirebbe ad abdurre contro resistenze importanti.

La considerazione che si può trarre, a questo punto, è che in una spalla, sia essa sana o traumatizzata, è importante l’equilibrio delle forze supero-inferiori, ad esempio un allenamento esclusivo dei deltoidi, dimenticando i rotatori esterni ed interni, potrebbe a lungo termine determinare uno squilibrio con insorgenza del dolore.

Continueremo nel prossimo articolo.

Note

Bibliografia

  • Adalbert I. Kapandji, Anatomia funzionale ed.2011

[AUTODIFESA] Difesa personale, stress, paura e ansia

Stress, paura ed ansia. Su questi argomenti libri, dvd ed altro si sprecano, ma ciò che cercherò di fare è di dare un’informativa (sperando che sia esaustiva), su alcuni aspetti non molto curati ma di estrema importanza.

Iniziamo ad analizzare per esempio lo STRESS. Esso può essere:

  • GENERICO: al quale tutti noi siamo sottoposti nel nostro vivere quotidiano (arrivare in orario al lavoro, trovare parcheggio, l’ambiente di lavoro, i problemi familiari, etc.), sono tensioni che sono entrate nella routine della nostra esistenza;
  • SPECIFICO: proprio di alcune professioni (poliziotto, medico di pronto soccorso, vigile del fuoco, insegnante etc.), che costituisce una fonte di pressione emozionale costante, sia per il contatto con la realtà cruda e la sofferenza sia per la continua apprensione di veder sfumare la realizzazione degli obiettivi prefissati (arrestare un malvivente, salvare una vita etc.);
  • TATTICO – OPERATIVO: legato al momento, durante l’azione, in condizioni percepite come a rischio. Siamo consapevoli di essere esposti al pericolo e percepiamo i nostri limiti, la nostra preparazione, subentra il concetto di autostima che è condizionante.

Lo stress non si vince ma si può gestire

Per lo stress specifico bisogna approfondire ed indagare sul proprio io, sulla propria coscienza, sul perché si è scelta quella professione e se si è in grado di poterla svolgere adeguatamente.

Superare lo stress tattico invece presuppone un fisico efficiente ed addestrato con cura e la conoscenza degli strumenti messi a disposizione per fronteggiare una situazione di pericolo (es. l’arma), nonché il continuo addestramento all’uso delle armi, simulando dinamiche e scenari vicini alla realtà.

Parliamo anche un po’ dell’ansia

L’ansia porta il soggetto alla incapacità di fronteggiare una situazione, e crea quindi uno stato di allerta, di vigilanza e di “attesa penosa“ verso qualcosa di non definito. In alcuni casi si tratta di paura cosciente.

Un certo livello di ansia aumenta l’attenzione e la concentrazione ed è quindi utile per migliorare le prestazioni personali, altre volte l’intensità dell’ansia è così marcata da rendere il comportamento inadeguato rispetto alla situazione ed il soggetto non riesce più a controllare le sue reazioni.

Il soggetto ansioso è irrequieto ed apprensivo, la sua vita e le sue abitudini subiscono condizionamenti, ricordiamo le ossessioni che interagiscono ed interferiscono sulle attività quotidiane (prima di uscire devono essere compiute certe azioni, come mettere i vestiti riposti in un certo modo e altro), l’ansia porta a tensioni motorie (tremori, dolori muscolari ,etc.) ed a tachicardia, sudorazioni, vertigini.

Ricordo sempre al riguardo dell’ansia che esiste anche una PAURA SPECIFICA, ad esempio quella per gli animali o per determinate situazioni (tuoni, buio, spazi chiusi, etc.) e la PAURA SOCIALE, quella che esporrebbe al giudizio degli altri (paura di parlare in pubblico, etc.).

Nel momento di stress emotivo si avrà una accentuazione dell’ansia, immaginiamo un evento stressante, dovuto ad una situazione catastrofica o minacciosa (guerra, terrorismo, violenza, grave incidente, etc.), tutto questo porta a traumi psichici e a ricordi o sogni “flashback“, che possono degenerare in paura, panico o aggressività, insonnia, depressione e, alle volte, anche a propositi di suicidio.

A tutto questo si potrebbero associare inoltre l’abuso di alcool e droga.

L’ansia acuta porta ad attacchi di panico (la paura di morire o di impazzire, di affrontare da soli luoghi isolati o aperti e molto affollati, l’ascensore, la paura di non poter più essere autonomi etc.)

Nel prossimo articolo tratterò un fattore scatenante nelle aggressioni: LA RABBIA

Note

  • Foto di copertina File (Wikimedia Commons)
  • Grafica copertina ©RIPRODUZIONE RISERVATA
  • Elementi tratti da una pubblicazione del Dr. marco Strano

TOMARI: L’antica GROTTA SEGRETA del KARATE

Una mitica grotta nelle colline di Tomari nella città di Naha, di fronte alla costa, fu anticamente il nascondiglio dei naufraghi cinesi arrivati ad Okinawa.

Molti dei quali erano artisti marziali che cominciarono a praticare ed a insegnare il Karate in questo mitico luogo nella più assoluta clandestinità.

È questo il caso di Chinto, l’abile karateka cinese al quale dobbiamo il nome di uno dei Kata di Karate più rapidi e più fluidi.

Oppure di Kosaku Matsumora, l’eroe del posto da quando nel 1392 le famose 36 Famiglie di Kume (il cui nome si deve al quartiere dove si stabilirono) si trasferirono dalla città cinese di Fuzhou fino a Naha.

Il pellegrinaggio di cinesi ad Okinawa fu una costante, benché la storia nella quale ci immergiamo si situi quattro secoli più tardi.

Chi è Kosaku Matsumora

Kosaku Matsumora (1829-1898) nacque nella cittadina di Tomari. Di enorme talento, fu una persona che seppe approfittare del suo piccolo ma potente corpo.

Quando era giovane studiò le tradizioni marziali di Tomari, dove si distinse come coraggioso e bujin.

Arrivò ad essere ben conosciuto per la sua cavalleria e per il suo spirito vibrante e fu sempre ricordato per aver evitato che un Samurai armato di katana importunasse gli abitanti di Tomari.

Poi in uno sforzo per evitare delle rappresaglie, si confinò in un luogo remoto di Nago. È anche ricordato per aver protetto la proprietà della cittadina su incarico del governatore.

Nel 1879 le proprietà e i beni  derivanti dai contributi rischiarono di essere confiscati dal nuovo governo, dopo che il Re abdicò e il Regno venne abolito.

Ma gli sforzi degli ufficiali giapponesi per confiscare i beni di Tomari furono vani grazie in parte  all’impegno di Matsumora.

Il 7 novembre del 1898 Kosaku Matsumora muore e comincia la sua leggenda a Tomari e per un secolo il suo ricordo è rimasto nelle leggende della zona, e oggi si può ammirare un bel rilievo in suo onore.

La selva di Tomari

La zona più sconosciuta, disabitata e desolata di Tomari, ad Okinawa, è una piccola selva vicino al mare, che è composta da montagne che nascondono delle crepe nel terreno, utilizzate anticamente come nascondiglio da gente che, per una ragione o per l’altra, dovevano rimanere nell’ombra.

I naufraghi cinesi

Questo fu il caso di alcuni importanti Karateka venuti dalla Cina in nave.

Si nascosero in queste grotte dopo aver naufragato di fronte alla costa, e si guadagnavano da vivere come potevano (spesso rubando). Praticavano le loro arti marziali in queste zone nascoste, vicino alla spiaggia di Naminoue.

Verso il XIV secolo Chinto, un marinaio cinese esperto in arti marziali dotato di una notevole abilità nell’arrangiarsi in certe circostanze, cominciò ad insegnare arti marziali vicino alla grotta, e da lui ricevettero tali informali insegnamenti in questo luogo all’incirca 1840 contadini di Tomari e personaggi che sarebbero poi diventati importanti in futuro, tra cui Giei Yamada.

Non possiamo parlare di Tomari senza parlare di Kosaku Matsumora, che divenne il maestro più importante e famoso della forma marziale conosciuta da approssimativamente l’anno 1700 come Tomare Te.

Chinto e Kosaku Matsumora

Kosaku imparò questa forma del futuro Karate con Teruya Kishin e un giorno, mentre stava praticando le sue arti marziali in gran segreto e in solitario vicino alla grotta, notò che c’era qualcuno che lo stava spiando dall’interno della grotta.

Matsumora andò a raccontarlo a Teruya e quest’ultimo lo fece ritornare sul posto dove la “spia“ della grotta uscì, si scusò per aver interrotto il sua allenamento, gli consegnò un foglio e poi, quell’enigmatico personaggio semplicemente sparì.

Quando Kosaku mostrò il foglio a Teruya, questi esclamò: “chiaro, non poteva essere che lui“, si trattava di Chinto.

Tempo dopo Sokon Matsumura, il Capo Militare del castello di Shuri, fu inviato a fermare un clandestino cinese che aveva causato dei tumulti nella città e che si era stabilito nelle grotte di Tomari.

Le strategie, le furberie e le abilità di quel cinese fecero si che la missione non risultasse così facile, come in principio era sembrata, si trattava di Chinto e Sokon Matsumura per arrestarlo, si fece accompagnare da un esperto conoscitore del posto e delle grotte delle colline di Tomari.

Questo esperto non era che Kosaku Matsumora, il quale in questo modo ebbe modo di conoscere assieme a Matsumura, questo bizzarro cinese.

In poco tempo i tre diventarono amici per via della loro passione comune, le arti marziali, di cui si scambiarono le rispettive conoscenze.

L’abilità di Chinto gli fece meritare l’onore di dare poi il nome al famoso Kata (più avanti conosciuto in alcune scuole di Karate anche come Gankaku).

Benché non si sappia se sia stato una creazione sua, di Matsumura Sokon o se semplicemente sia stato importato dalla Cina da quest’ultimo e poi ribattezzato con quel nome in onore di Chinto.

Il significato esatto del nome Chinto è incerto

Una traduzione potrebbe essere “lottare dell’ovest“, mentre un’altra potrebbe essere “lottare in una città“, Chinto fu uno dei Kata che Gichin Funakoshi portò in Giappone, assieme ad altri 15, all’inizio era un Kata introdotto dal Tomari –Te ed integrato allo Scurite.

Ci sono più di 5 differenti versioni di Chinto.

La versione di Tomari mantiene qualcosa dell’essenza cinese, mentre quella di Shuri è più semplicistica, il Kata segue una linea di movimento retta e si deve eseguire con tecniche molto dinamiche.

Caratteristica di questa forma è la ripetuta posizione con la gamba alzata, che ricorda la splendida visione di una gru posata su una roccia mentre sta per colpire la sua vittima.

Si usano anche vari calci in salto, che la contraddistinguono da altri Kata.

Entrambe le caratteristiche rappresentano la preparazione del Kata per lottare su gradini e tratti di scala, da una parte, e in posti con un terreno non uniforme e perfino delle pietre dall’altra.

Il terreno dove è ubicata la grotta, ha influenzato anche la tecnica di questo Kata, con i salti con calcio frontale sferrati da sopra le rocce.

Sia il personaggio Chinto che Tomari lasceranno un segno nella vita di Kosaku Matsumora, il quale diventò poi un un vero e proprio eroe per via della sua strenua difesa degli interessi dei contadini di Tomari nel corso degli anni in cui i Samurai dell’isola principale del Giappone li sottomisero.

Divenne molto famoso e ancor oggi si ricorda in questa zona il combattimento che Matsumora una volta ebbe contro un Samurai Satsuma.

Il fatto accadde nella via Haariya. Durante il combattimento, nel quale il Samurai usò la sua Katana regolamentare e Matsumora solo una giacca di panno, il Karateka perse un dito… che gettò nel fiume insieme al capo d’abbigliamento.

Senza dubbio Matsumora è il vero simbolo di Tomari

Con tutto rispetto di un altro esperto della zona, Kokan Oyodomari, i suoi allievi ricevettero insegnamenti regolarmente dall’eroe di Tomari nelle zone della grotta, estemporanei dojo naturali di allora, ed oggi considerati da coloro che amano il Karate più tradizionale, come luoghi storici della nostra arte marziale.

Come aneddoto da menzionare va detto che Kosaku non voleva insegnare tecniche di combattimento a Motobu per via del suo modo di essere. La bizzarria di Chocki lo spinse a spiare Kosaku nei suoi allenamenti privati e a rubargli così alcune sue conoscenze.

Note