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COPERTINA Lo sviluppo organico del preadolescente

[SALUTE E BENESSERE] Lo sviluppo organico del preadolescente

Dai sei agli undici anni la crescita e l’evoluzione del corpo dei fanciulli e delle fanciulle è simile e ha lo stesso ritmo

Invece tra gli undici e i quattordici anni, lo sviluppo delle ragazze è più rapido.

Alla fine della preadolescenza i due sessi sono completamente differenziati

In quest’ultimo stadio evolutivo,alcuni sistemi ed apparati, come quello locomotorio e respiratorio, presentano una rapida evoluzione.

Leif Knutsen, Diversity of youth in Oslo (Norway)

Altri presentano uno sviluppo intenso, come ad esempio tutti gli organi del sistema genitale, altri ancora, come alcune ghiandole, continuano a crescere fino alla pubertà e poi regrediscono.

Per quanto riguarda le proporzioni del corpo, all’inizio di questo periodo si ha un aumento della crescita in statura ed una più lenta crescita di peso, l’aumento della statura è determinato in modo particolare dall’allungamento degli arti (braccia e gambe), più che del tronco, si producono per questo squilibri nelle proporzioni del corpo, tipici dell’adolescenza.

La differenziazione tra i sessi riguarda anche le proporzioni del corpo

Nelle ragazze si allarga il bacino, che nei maschi rimane snello, il contrario avviene per la larghezza delle spalle, rimangono snelle nelle femmine e si allargano nei maschi.

La mano dei maschi diventa più larga e muscolarmente più forte, ma in generale nei due sessi piedi e mani crescono in modo sproporzionato rispetto all’avambraccio e alle gambe.

Il diverso ritmo di sviluppo dei segmenti corporei determina squilibri che possono riguardare anche gli arti omologhi, esso può provocare una inadeguatezza nello schema corporeo e un’insicurezza nell’immagine di se, con tutti i problemi psicologici connessi.

Inoltre il corpo dell’adolescente può presentare malleabilità nello scheletro e transitoria insufficienza muscolare, tutto ciò favorisce l’insorgere di alterazioni morfologiche.

È questa l’età nella quale senza adeguata profilassi (come ad esempio l’esercizio fisico) possono correggersi ma talvolta rapidamente aggravarsi alterazioni strutturali

Benché tutto ciò possa essere aggravato da fattori esterni, come ad esempio le posizioni scorrette nel banco scolastico, il portare pesi eccessivi (cartelle pesanti in posizioni non simmetriche, ossia sempre dallo stesso lato), fattori ereditari e costituzionali hanno una importanza prevalente.

In questo periodo si ha una diminuzione del tessuto adiposo sottocutaneo, specie negli arti ed in forma più evidente nei maschi.

I muscoli scheletrici si sviluppano, in particolare per l’allungamento delle fibre muscolari, questa crescita è influenzata dal controllo ormonale e su di essa può influire favorevolmente l’attività fisica.

Forte è la crescita della muscolatura degli arti inferiori che arriva fino al 50% dell’intera massa muscolare.

Fino a 13 anni lo sviluppo muscolare ha un andamento parallelo nei due sessi, poi rallenta nelle ragazze, con l’aumento della massa muscolare cresce anche la forza muscolare.

Le ragazze raggiungono prima dei maschi il momento in cui sviluppano la massima forza muscolare, a causa della loro precoce maturazione sessuale, ciò è dovuto al fatto che il sistema nervoso vegetativo si stabilizza gradualmente.

Altre cause sono di natura psico-fisica, come stati d’animo, stati emozionali, tipici di questa età

Con il progredire della maturazione si ha una diminuzione della frequenza cardiaca a riposo e sotto sforzo.

La ventilazione polmonare è strettamente connessa con il livello di sviluppo anatomico dell’apparato respiratorio, l’accelerato ritmo di crescita delle vie aeree, degli alveoli e del tessuto polmonare rappresenta la base organica sulla quale si fonda l’aumento della capacità funzionale dell’apparato respiratorio, cioè della ventilazione polmonare.

Paterm A.D., Polish teenagers (2008)

Anche la respirazione nei tessuti, valutata secondo il criterio più significativo che è il consumo di ossigeno al minuto, mostra un aumento costante.

Vi sono notevoli differenze tra i due sessi, la crescita del massimo del consumo d’ossigeno è simile fino ai 13-14 anni, nei maschi la crescita dura fino a 18-19 anni e più lentamente fino a 20-22 anni.

Nelle femmine non allenate ha però una stasi.

Va notato che in generale tutti i parametri che misurano la funzionalità dell’apparato cardiocircolatorio nei soggetti allenati è maggiore che in quelli non allenati.

Le capacità di adattamento funzionale e strutturale dell’apparato cardiocircolatorio al carico è molto ampia, forti reazioni di adattamento si hanno anche nell’apparato respiratorio, la meccanica respiratoria appare più economica, diminuisce infatti,la frequenza respiratoria sotto sforzo mentre la respirazione è più profonda.

Anche i processi metabolici cambiano con i processi generali di crescita

All’inizio della pubertà la capacità aerobica non è ancora abbastanza sviluppata, essa si rafforza grazie alla maggior funzionalità dell’apparato cardiocircolatorio e di quello respiratorio.

La capacità anaerobica si forma invece più tardi ed in questa fase è ancora insufficiente in ambo i sessi, è opportuno quindi limitare l’uso dei carichi di tipo anaerobicolattacido.

Il sistema nervoso centrale, che ha raggiunto un elevato sviluppo, completa la sua maturazione proprio in periodo puberale, si ottiene un aumento della rapidità dei movimenti, che viene ulteriormente accelerata da un’attività fisica ben diretta.

In questo periodo, dagli 11 ai 14 anni, si stabilizza e si affina soprattutto la coordinazione dell’attività muscolare, malgrado i problemi che possono sorgere a causa dei cambiamenti delle proporzioni del corpo e, a causa dell’aumento di certi presupposti condizionali, come forza.

Per quanto riguarda il sistema nervoso vegetativo, si può osservare una labilità momentanea dovuta alle grande proporzioni organiche e funzionali a tutti i livelli degli organi interni, (si pensi al mutamento del sistema genitale che ha un ruolo importantissimo nello sviluppo vegetativo)

Queste trasformazioni causano rapide variazioni di umore e alternanza di prestazioni intellettuali e sportive.

Dai 10 anni in poi per le femmine, dagli 11-12 anni per i maschi, ha inizio un nuovo periodo dello sviluppo.

Si parla allora di prepubertà e pubertà ed anche di preadolescenza

Queste parole vanno spiegate.

Prepubertà e pubertà sono termini che stanno ad indicare lo sviluppo in senso fisico, l’inizio della funzione sessuale e riproduttiva, l’aumento del peso corporeo, lo sviluppo degli arti inferiori ecc…

Preadolescenza e adolescenza sono termini più generali che includono sempre un riferimento più o meno diretto ai fenomeni fisiologici di questa età di formazione, ma che privilegiano i paralleli processi intellettuali e cognitivi e i profondi mutamenti della vita affettiva.

Note


Capire la rabbia: Consigli utili per ogni evenienza!

Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile, ma arrabbiarsi con la persona giusta, nella misura giusta, al momento giusto e nel modo giusto, questo non è nelle possibilità di chiunque e non è facile

Aristotele

La rabbia è una emozione tipica, considerata fondamentale da tutte le teorie psicologiche poiché per essa è possibile identificare una specifica origine funzionale, degli antecedenti caratteristici, delle manifestazioni espressive e delle modificazioni fisiologiche costanti, delle prevedibili tendenze all’azione.

Essendo un’emozione primitiva, insieme alla gioia e al dolore, essa può essere osservata sia nei bambini molto piccoli che in specie animali diverse.

Essa è inoltre l’emozione la cui manifestazione viene maggiormente inibita dalla cultura, dalle società attuali

La rabbia fa parte della triade delle ostilità insieme al disgusto ed al disprezzo e ne rappresenta il fulcro e l’emozione di base.

Tali sentimenti si presentano spesso in combinazione e pur avendo origini, vissuti e conseguenze diverse, risulta difficile identificare l’emozione che predomina sulle altre.

Moltissimi risultano essere i termini linguistici che si riferiscono a questa reazione emotiva, collera, esasperazione, furore ed ira, e rappresentano tutti lo stato emotivo intenso della rabbia, altri invece esprimono lo stesso sentimento ma di intensità minore, come irritazione, fastidio, impazienza.

Per la maggior parte delle teorie la rabbia rappresenta la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione sia fisica che psicologica

Pur rappresentandone i denominatori comuni, la costrizione e la frustrazione da sole non costituiscono le condizioni sufficienti e neppure necessarie perché si origini il sentimento della rabbia.

La relazione casuale che lega la frustrazione alla rabbia non è affatto semplice.

Altri fattori sembrano implicati affinché si origini l’emozione della rabbia, quali la responsabilità e la consapevolezza che si attribuisce alla persona/cosa che induce frustrazione o costrizione sembrano altri fattori importanti.

Ancor più delle circostanze concrete del danno, quello che più pesa nell’attivare una emozione di rabbia sembra cioè essere la volontà che si attribuisce all’altro di ferire e l’eventuale possibilità di evitare l’evento o situazione frustrante.

Insomma ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno, soprattutto quando viene percepita l’intenzionalità di ostacolare l’appagamento.

L’emozione della rabbia può essere quindi definita come la reazione che consegue ad una precisa sequenza di eventi:

  • Stato di bisogno;
  • Oggetto (vivente o non vivente) che si oppone alla realizzazione di tale bisogno;
  • Attribuzione a tale oggetto dell’intenzionalità di opporsi;
  • Assenza di paura verso l’oggetto frustrante;
  • Forte intenzione di attaccare, aggredire l’oggetto frustrante;
  • Azione di aggressione che si realizza mediante l’attacco.

Questo avviene in natura, anche se l’evoluzione sembra aver plasmato forti segnali che inducono la paura e di conseguenza la fuga, impedendo così l’aggressione dell’avversario.

Nella specie umana si assiste non solo ad una inibizione della tendenza all’azione di aggressione attacco, ma addirittura al mascheramento dei segnali della rabbia verso l’oggetto frustrante

Nella specie umana inoltre la cultura e le regole sociali a volte impediscono di dirigere la manifestazione dell’azione direttamente verso l’agente che scatena la rabbia.

Tre possono quindi essere i fondamentali destinatari finali della nostra rabbia:

  • Oggetto che provoca la frustrazione;
  • Un oggetto diverso rispetto a quello che provoca la frustrazione (spostamento dell’obiettivo originale);
  • Autolesionismo ed auto aggressione (la rabbia quindi può infine essere diretta verso sé stessi).

Per quanto siano estremamente forti le pressioni contro la manifestazione della rabbia, essa possiede una tipica espressione, ben riconoscibile in tutte le culture studiate:

  • Aggrottaménto violento della fronte e delle sopracciglia;
  • Scoprire e digrignare i denti;
  • Tutta la muscolatura del corpo può estendersi fino all’immobilità;
  • La paura di perdere il controllo;
  • L’irrigidimento della muscolatura;
  • La voce si fa più intensa, il tono sibilante, stridulo e minaccioso;
  • L’organismo si prepara all’azione, all’attacco e all’aggressione attraverso una forte attivazione del SNA Simpatico, ossia accelerazione del battito cardiaco, aumento della pressione arteriosa e dell’irrorazione dei vasi sanguigni periferici, aumento della tensione muscolare e della sudorazione.

Le modificazioni psicofisiche che si manifestano attraverso la potente impulsività e la forte propensione all’agire con modalità aggressive sono funzionali alla rimozione dell’oggetto frustrante

La rabbia è sicuramente uno stato emotivo che aumenta nell’organismo il propellente energetico utilizzabile per passare alle vie di fatto, siano queste azioni oppure solo espressioni verbali.

La rimozione dell’ostacolo che si oppone alla realizzazione del bisogno può avvenire sia attraverso l’induzione della paura e la conseguente fuga, sia mediante un violento attacco.

Le numerose ricerche compiute sui comportamenti di specie diverse dall’uomo hanno dimostrato che l’ira e le conseguenti manifestazioni aggressive sono determinate da motivi direttamente o indirettamente legati alla sopravvivenza dell’individuo e delle specie.

Gli animali spesso attaccano perché qualcosa li spaventa oppure perché vengono aggrediti da predatori, per avere la meglio sul rivale sessuale, per cacciare un intruso dal territorio o per difendere la propria prole.

Negli uomini invece, i motivi alla base di un attacco di rabbia riguardano maggiormente la frustrazione di attività che erano connesse con l’immagine e la realizzazione di sé. Lo scopo in questo caso sembra più rivolto a modificare un comportamento che non si ritiene adeguato.

Riconoscere la rabbia

Il punto importante da comprendere a proposito della rabbia è che, nonostante venga spesso etichettata come emozione negativa e da evitare in noi come negli altri.

Di fatto diventa negativa e soprattutto distruttiva quando non viene riconosciuta e usata al momento in cui emerge, ma viene repressa con conseguenze dannose non solo per se stessi ma anche per gli altri.

Il problema è che fin dalla tenera età ci viene insegnato che è cattivo e sbagliato esprimere la collera, ancora oggi questa emozione viene considerata inopportuna, irragionevole, associata all’aggressività ed al capriccio.

La gente è spesso spaventata dalla propria rabbia, teme che la spinga a compiere qualche azione dannosa e, di conseguenza, ci si rifiuta di prestare attenzione alla collera degli altri e si esita ad esprimere la propria.

È importante quindi considerare che se non ci siamo mai concessi di esprimere la rabbia probabilmente ne abbiamo accumulato una montagna dentro di noi.

Reprimendola, è più probabile che la rabbia esploda in momenti inopportuni e soprattutto verso persone o situazioni che hanno poco a che fare con la causa originale della rabbia che ci ribolle dentro, ed è anche più probabile che ce la prendiamo con chi crediamo sia più debole di noi, non fosse altro che per avere un minimo di senso di potere.

Un atteggiamento questo, tipico delle bestie. Temere il più forte e sopraffare il più debole, quando invece l’essere umano, a differenza degli animali, può dominare i suoi istinti.

La rabbia repressa si ritorce contro noi stessi con attacchi depressivi e alimenta uno stato di inferiorità

Inoltre quando la mente non riesce più a gestire i conflitti, il corpo ne soffre, numerose affezioni psicosomatiche come mal di schiena, ulcere, psoriasi, possono essere legate al soffocamento della rabbia.

È fondamentale dunque per la nostra salute psicofisica imparare ad esprimere la collera in maniera costruttiva ed appropriata. Sono numerosi gli episodi, per esempio, negli sport da combattimento.

Le provocazioni dell’avversario anche in maniera pesante affinché la rabbia venga fuori e si perda l’autocontrollo necessario per poter gestire il combattimento.

Senza la rabbia si è privi di protezione

Senza la rabbia siamo alla mercé delle imprevedibili reazioni altrui. Per noi e per gli altri, la rabbia usata costruttivamente aiuta a sviluppare fiducia in se stessi in quanto non è necessario che monti fino ad esplodere per esprimerla.

È importante riconoscerla nel momento in cui emerge per quello che è: un meccanismo di protezione che ci segnala che c’è qualcosa che non va, una reazione di insoddisfazione intensa, suscitata generalmente da una frustrazione che ci riguarda e che giudichiamo inaccettabile.

Dunque la rabbia, comunque venga espressa in modo esplosivo o in forma repressa, agisce come un segnale d’allarme; la nostra rabbia ci mette a conoscenza del fatto che in quel momento ci stanno facendo del male, che i nostri diritti vengono violati, che i nostri bisogni e i nostri desideri non sono soddisfatti.

Imparare a manifestare la propria rabbia significa conoscere i propri reali bisogni e intrattenere relazioni più autentiche con le persone che ci circondano.

Come esprimere la rabbia

Riabilitare la rabbia non significa tuttavia lasciarsi andare in comportamenti irosi. Non c’è bisogno di urlare o di arrivare alle mani per esprimere la propria irritazione, l’arma migliore è la parola, è bene però utilizzarla consapevolmente per esprimere i veri motivi delle nostre insoddisfazioni.

Dietro la collera si nasconde sempre una sofferenza, sempre più ci si ritrova ad affrontare situazioni molto pesanti (licenziamenti, costo della vita, paura di non farcela, divergenze con il proprio coniuge, vessazioni etc…), per cui basta un piccolo e futile pretesto per far scatenare la rabbia che ci portiamo dentro.

Adirarsi ad ogni costo e contro chiunque è un modo per sottrarre energia alla disperazione e non guardare in faccia il dolore, perché il proprio malcontento sia preso seriamente in considerazione è bene esprimerlo con la massima calma. Per fare in modo che questa emozione diventi costruttiva:

Placare la rabbia parlandone con un amico

Per rendere possibile un approccio disteso alla discussione con la persona che ci ha fatto arrabbiare può essere utile scaricare preventivamente le proprie tensioni parlando ad esempio con un amico per raccontargli l’accaduto.

Questo serve a far passare il primo moto di rabbia, quello più aggressivo, senza contare che una terza persona potrebbe suggerirci un modo diverso di guardare le cose.

Chiarirsi le idee

Avere un’idea precisa di cosa si sente dentro e di cosa ci si aspetta possa accadere dopo una discussione ci aiuta a mettere a fuoco le cose da dire, gli argomenti da mettere in campo e ci da una mano a controllare le cose in modo che l’emozione non prenda il sopravvento facendoci sfuggire il controllo della situazione. Per acquisire chiarezza, può essere utile porsi delle domande:

  • Che cosa ha scatenato la nostra rabbia?
  • Il nostro interlocutore ci ha nuociuto intenzionalmente?
  • Siamo sicuri di non esserci sbagliati sulle sue intenzioni?
  • Non abbiamo mostrato eccessiva suscettibilità?
  • La situazione merita che scateni la mia rabbia?
  • Abbiamo cercato di sdrammatizzare?
  • Abbiamo capito bene?
  • Dopo aver scatenato la nostra rabbia che risultato ci aspettiamo?

Esprimere le proprie opinioni

è necessario farlo dopo aver placato la propria rabbia.

L’atteggiamento da adottare è di tipo assertivo, evitando dunque di scadere in eccessi di alcun tipo, quali accuse o ingiurie.

Lo scopo è infatti quello di ristabilire un equilibrio e non di schiacciare l’interlocutore, lo psicoterapeuta americano Thomas Gordon ha elaborato il sistema dei cosiddetti “messaggi-io“ , che si basa sul principio di parlare di se in questo modo: definendo con precisione ciò che ci ha disturbato (quando tu …), raccontando le nostre emozioni (mi sento…), condividendo le nostre aspettative (perché io …), esprimendo i nostri bisogni attuali e le motivazioni (e io ti chiedo di…in modo da…). il beneficio di esprimere la rabbia va oltre il sollievo di togliersi un peso, significa ridefinire le relazioni con se stessi e con gli altri.

Esprimere apertamente la rabbia

è importante permettere a se stessi di avvertire completamente la rabbia, creando un posto sicuro per poterla esprimere, da soli, o con un amico fidato o con un esperto, se siamo soli in un posto sicuro, permettiamoci di parlare ad alta voce, di vaneggiare, di dare calci o urlare, di lanciare qualcosa.

Dopo aver fatto ciò in un ambiente sicuro, (per un periodo potremmo aver bisogno di farlo regolarmente) non avremo più paura di compiere un atto distruttivo e saremo capaci di affrontare in modo più efficace le situazioni che ci si presenteranno davanti.

Esistono delle tecniche per il controllo della rabbia, in America i manuali si sprecano, Robert Puff ad esempio è uno psicologo che ha lavorato diversi anni sulla gestione della rabbia ed ha elencato diverse tecniche di controllo della stessa, ma personalmente penso che il controllo della collera è soggettivo, c’ è un aspetto che secondo me è molto importante, le conseguenze di un’eventuale reazione rabbiosa ad una provocazione, non bisogna mai dimenticare ciò che la legge ci impone, onde non incorrere in guai che potrebbero toglierci il sonno e non solo.

Note


MANGIARE MENO allunga la VITA, le scimmie confermano

È proprio vero che mangiando poco si vive più a lungo

Anche le scimmie che sono animali così simili a noi, seguendo una dieta ipocalorica, diventano più longevi.

È la prima volta che l’effetto della dieta sulla longevità viene dimostrato su un animale così vicino all’uomo. Cosa che fa ben sperare anche per chi di noi voglia ‘barattare’ una lunga vita con una tavola un po’ meno ricca.

Ad affermarlo é uno studio pubblicato sulla rivista Science, dall’equipe di Richy Colman della University of Wisconsin-Madison.

Dopo 20 anni di studio su un campione di scimmie è risultato che una dieta ipocalorica ma nutriente assicura la longevità e ritarda l’insorgenza di malattie tipiche della terza età come cancro, diabete, patologie cardiovascolari.

Alimentazione e longevità sono state associate da tanto tempo e sono ormai numerosi gli studi scientifici che dimostrano su svariate specie animali che mangiare meno allunga la vita.

Si parla di restrizione calorica, ossia di seguire una dieta ipocalorica ma comunque nutriente, sana

Ma è chiaro che se un vermetto o un topolino vivono di più quando ‘tenuti a stecchetto’, ciò non è motivo sufficiente per dire che anche gli uomini diventano più longevi se sottoposti a restrizione calorica.

Un uomo è ben diverso da un topo e da un verme, ma è molto simile alle scimmie e ai macachi, nostri vicini ‘parenti’

Gli esperti hanno quantificato l’apporto calorico giornaliero di quelle lasciate libere di mangiare e sulla base di esso hanno messo a punto la dieta ipocalorica delle altre.

Gli esperti quindi hanno studiato scimmie Reshus dividendole in due gruppi, uno che ha mangiato a piacimento, l’altro che mangiava il 30%

In venti anni di osservazione la metà delle scimmie che mangiano liberamente è morta, l’80% di quelle a dieta è ancora viva

È difficile condurre uno studio simile su esseri umani.

Di fatto però la scimmia è un ottimo modello sperimentale per dimostrare che mangiare un po’ meno (in termini di calorie ma in modo equilibrato) rende longevi.

Note


Se il cuore va in stand-by la RIANIMAZIONE cardiopolmonare SALVA LA VITA

La rianimazione cardiopolmonare salva la vita

L’arresto cardiaco è il più importante problema sanitario in Europa, se i testimoni di un arresto cardiaco iniziano la rianimazione cardiopolmonare prima dell’arrivo dell’ambulanza, la possibilità di sopravvivenza della vittima aumentano di due/tre volte rispetto ai casi in cui la RCP non viene iniziata.

Nel 70% dei casi l’arresto cardiaco è testimoniato da qualcuno che può iniziare la rianimazione, tuttavia in Europa la RCP viene iniziata dai testimoni dell’arresto cardiaco soltanto nel 15% dei casi.

Se riuscissimo ad aumentare la percentuale dal 15% al 50-60% dei casi, potremmo salvare circa 100.000 persone all’anno.

Prof. Bernd Bottiger, Past President, European Resuscitation Council

Seguendo la cronaca di tutti i giorni, sempre più spesso questo killer silenzioso miete vittime senza distinzione di sesso, età e professione, si è chiesto di dotare le società sportive e non, di dotarsi di defibrillatori e corsi BLS, ma voglio affrontare nel dettaglio questo problema sperando che possa essere utile a coloro  che ancora lo sottovalutano.

L’ARRESTO CARDIACO IMPROVVISO

E’ una delle principali cause di decesso nei paesi industrializzati, in Europa, ogni giorno, il numero delle vittime è pari al totale dei passeggeri di due Jumbo, in Italia sono colpiti da arresto cardiaco circa 60.000 individui ogni anno.

Si tratta di un evento che frequentemente si manifesta in ambiente extraospedaliero

Poiché, ai fini della sopravvivenza e del recupero completo dello stato clinico precedente l’evento, è importante la tempestività della rianimazione cardiopolmonare (RCP), intervenire nell’immediatezza aumenta la possibilità di un buon esito. In genere, l’intervallo di tempo che intercorre tra la chiamata al servizio di emergenza medico (EMS) e l’arrivo del personale di soccorso è superiore a 5 minuti, dunque, ottenere alte percentuali di successo dipende dalla presenza di qualcuno addestrato alla RCP e da un programma di accesso alla defibrillazione.

Nella maggior parte dei casi la vittima di arresto cardiaco improvviso, presenta fibrillazione ventricolare (FV), in questo caso si rende necessaria una cardioversione tramite defibrillatore, più propriamente una defibrillazione che ha maggiori possibilità di successo se effettuata entro i primi 5 minuti dalla perdita di coscienza.

La defibrillazione si esegue mediante l’uso di un apparecchio, il defibrillatore elettrico semiautomatico (DAE), in grado di erogare una scarica elettrica, tramite l’impianto di due elettrodi o piastre applicate al torace dell’infartuato, allo scopo di ripristinare il ritmo sinusale.

Per chiarire cosa sia un ritmo sinusale, diciamo che l’impulso che determina la contrazione del cuore e genera il ritmo sinusale origina da un tessuto specializzato, posto all’interno del muscolo cardiaco e che ha la proprietà di produrre e propagare gli stimoli.

Il cuore è formato da quattro cavità: due atri e due ventricoli, durante il ciclo cardiaco il sangue affluisce negli atri per l’intero periodo del ciclo ad eccezione del periodo della sistole atriale (contrazione atri).

Il riempimento dei ventricoli avviene durante tutto il ciclo tranne durante le sistole ventricolare (contrazione dei ventricoli), dopo la sistole si ha la diastole sia atriale che ventricolare (rilasciamento), il ciclo cardiaco fa si che il miocardio eserciti funzione di propulsore della corrente ematica, quindi all’arresto cardiaco si accompagna sempre arresto di circolo ematico (arresto cardiocircolatorio).

L’arresto cardiaco si può verificare secondo tre modalità:

  • Arresto per asistolia (arresto in diastole), il miocardio cede improvvisamente e si ha la cessazione dell’attività contrattile, il cuore diventa molle, flaccido e privo di tono.
  • Arresto per fibrillazione ventricolare , corrisponde a quella “contrazione anarchica “ già descritta delle fibre miocardiche, inadeguata a produrre una contrazione cardiaca, secondo una descrizione poco elegante, si possono paragonare a una massa di spaghetti che si muovono.
  • Arresto cardiaco per cuore inefficace, rappresenta tutte quelle forme di arresto conseguenti a esiti di malattie che hanno determinato una prolungata sofferenza del miocardio.

La RCP in ambiente extra ospedaliero può essere praticata da personale sanitario qualificato ma può essere avviata anche da personale “laico”, purché sufficientemente istruito sulle tecniche di rianimazione cardiopolmonare di base, in attesa dell’intervento di un operatore sanitario che possa praticare una rianimazione cardiopolmonare avanzata (ACLS).

Migliori risultati di RCP praticata da soccorritori non professionisti si ottengono grazie ad un adeguato addestramento del personale reclutato

Per esempio, tra corpo di polizia o vigili del fuoco e con la presenza di defibrillatori esterni ed automatici (DAE), di cui è opportuno siano dotati ambienti come aeroporti, centri commerciali, sportivi o stadi.

È importante sapere quando iniziare o sospendere la rianimazione cardio-polmonare, in presenza di arresto cardiaco, una valutazione attenta della prognosi del paziente da parte dell’operatore sanitario,sia riguardo alla durata che alla qualità della vita possibili grazie all’intervento di rianimazione, consentirà di decidere se l’esecuzione della RCP sia appropriata o meno, in questo senso, riveste grande importanza la presenza di testimoni che hanno assistito all’evento o di coloro che conoscono la situazione clinica del paziente.

Se il trattamento medico non è atto a raggiungere un obiettivo volto all’allungamento della vita o al miglioramento della sua qualità, deve essere considerato inutile,mettere in atto una RCP è inutile, ovviamente, in presenza di segni di morte irreversibile o quando non vi sono benefici prevedibili, come nel caso di pazienti con malattie allo stadio terminale.

Dunque, quando il paziente presenta segni di morte inequivocabile, come rigor mortis, decapitazione, decomposizione o chiazze ipostatiche, oppure quando è prevedibile che non vi sarà alcun beneficio a causa del deterioramento delle funzioni vitali in atto, per esempio in pazienti neoplastici terminali, non si darà inizio alla rianimazione.

Si sospende la rianimazione cardiopolmonare una volta ottenuto il ripristino di una ventilazione efficace e spontanea o per trasferirne la gestione ad un operatore qualificato

Il trattamento però deve essere interrotto anche nel caso di: esaurimento delle forze fisiche del soccorritore, in presenza di fattori ambientali che mettano in pericolo la presenza stessa del soccorritore o quando intervengano segni di morte irreversibile.

Tutte le fasi della RCP sono importanti quanto quella dello shock elettrico attuata con il defibrillatore: una rianimazione con compressioni toraciche efficaci, che garantiscano un adeguato apporto di sangue alle coronarie ed al cervello, può raddoppiare o triplicare la probabilità di sopravvivenza e ridurre gli esiti di un arresto circolatorio.

Peraltro, sia in soggetti adulti che nei bambini, oltre all’arresto cardiaco improvviso ed alla fibrillazione ventricolare, un certo numero di decessi presenta un meccanismo di asfissia.

Avviene nell’annegamento ed anche nell’overdose da droghe, quello osservato nella maggior parte dei bambini, ad esempio, è l’arresto cardiaco conseguente ad asfissia per rigurgito o inalazione di corpi estranei, situazione in cui, in associazione al massaggio cardiaco, è necessario procedere alla ventilazione oltre alla messa in atto di manovre per la rimozione di eventuali corpi estranei dalle vie aeree.

Per procedere alla rianimazione e mettere in atto tutte le manovre necessarie, innanzi tutto chi soccorre si accerta di operare in situazione di sicurezza personale, l’esecuzione delle manovre rianimatorie, varia a seconda del numero dei soccorritori addestrati e presenti: uno o più soccorritori devono rimanere con il paziente ed iniziare la rianimazione cardiopolmonare, mentre un’ altro telefona al servizio di emergenza e rintraccia un defibrillatore automatico esterno (DAE).

Nel caso di un solo soccorritore, con un adulto privo di coscienza, deve prima di tutto attivare il servizio d’emergenza

Quindi raggiungere il DAE, se disponibile, poi tornare presso la vittima ed iniziare la rianimazione cardiopolmonare e la successiva defibrillazione.

Se l’arresto cardiaco è conseguente ad asfissia, come nell’annegamento, ancora prima di attivare il servizio d’emergenza si procede all’esecuzione di 5 cicli di rianimazione cardiopolmonare, il soccorritore dopo essersi assicurato che l’ambiente è sicuro, valuta lo stato di coscienza del paziente, toccandogli la spalla e chiedendogli “mi sente? Come va?” se la vittima risponde, si telefona al servizio d’emergenza e poi si torna rapidamente a rivalutarne, per quanto possibile, le condizioni.

Se la vittima è priva di coscienza, nessun movimento e nessuna risposta agli stimoli, il soccorritore attiva il servizio d’emergenza, prende il defibrillatore, se disponibile, quindi inizia a praticare la rianimazione cardiopolmonare, con la defibrillazione se necessaria.

Se sono presenti due soccorritori, uno attiva il servizio d’emergenza l’altro inizia la rianimazione cardiopolmonare. Vorrei anche dare un’indicazione sulla

RIANIMAZIONE: LA TECNICA

È chiaro che conoscere la tecnica di primo soccorso ed essere in grado di praticarla è fondamentale, chiunque può farlo frequentando un corso di formazione per soccorritori dove apprendere la tecnica del Basic Life  Support (BLS), il sostegno di base alle funzioni vitali, che comprende la rianimazione cardiopolmonare (RCP) ed una sequenza di azioni di supporto di base alle funzioni vitali appunto, lo standard progressivo dei corsi per soccorritori è costituito dalla BLS/D che al protocollo BLS affianca la procedura di defibrillazione.

L’intervento con la tecnica del BLSha lo scopo di mantenere ossigenati il cuore e cervello, organi purtroppo sensibilissimi all’anossia, la mancanza di ossigeno

La vittima deve essere supino su una superficie rigida, iperestensione del capo e il sollevamento del mento (head tilt chin lift) permettono di aprire le vie aeree, ovviamente si tratta di pazienti per i quali è escluso un trauma della colonna cervicale, i politraumatizzati debbono essere trattati con protocolli differenti.

Mantenendo pervie le vie aeree, si valuta il respiro, se non valido si procede a due ventilazioni, ognuna di un secondo, insufflando nei polmoni un volume d’aria sufficiente a produrre una espansione visibile del torace, quindi si inizia il massaggio cardiaco esterno (MCE), con trenta compressioni del torace in regione precordiale, per riattivare un flusso ematico sia attraverso l’aumento della pressione intratoracica, sia attraverso la compressione diretta del cuore.

Il soccorritore è inginocchiato accanto al paziente e procede alla compressione al centro del torace, sulla metà inferiore dello sterno, tra i capezzoli, posizionando il calcagno della mano sullo sterno, ed il calcagno della seconda mano sulla prima, con mani sovrapposte e parallele.

Perché siano efficaci le compressioni debbono essere forti e veloci: in un adulto lo sterno deve essere abbassato di circa 4-5 cm, permettendo al torace di rispandersi completamente dopo ogni compressione, in presenza di un DAE si procede alla defibrillazione, se necessario, ed i cicli di RCP si ripetono fino a quando il paziente non riprende a muoversi nell’attesa che arrivino gli operatori del servizio di emergenza.

Note


[SALUTE & BENESSERE] I punti vitali nel primo soccorso

L’equilibrio spinale e il rilassamento dei muscoli

Le capacità progressive di colpire, dare calci e comprimere i nervi, sono diventate più sofisticate da quando iniziarono ad ideare tecniche di primo soccorso, l’aumento delle capacità garantisce adesso un cambio da una manipolazione più diretta dei nervi centrali, ad un uso integrale di vari nervi periferici in combinazioni più complesse.

Il modo più logico di avanzare è usando tecniche che sono conosciute come manipolazione delle articolazioni, tuttavia usando questi complicati movimenti di torsione, li adoperavamo usando i nervi vicini al posto di comprimere la stessa articolazione.

Non solo scoprivamo un modo più efficace per applicare queste azioni complesse di torsione provocando una maggiore disfunzione, ma anche gli effetti sulla persona e la sua funzionalità crebbero.

Ci siamo anche resi conto che cresceva l’efficacia e l’effetto provocava reazioni molto pronunciate nella spina dorsale o nel busto del ricevente, perché stavano ricevendo una sovraccarica multipla sui nervi e una contorsione che provocava lo stress o la compressione dei nervi interni

Il motivo di tutto questo è che i nervi non solo trasferiscono messaggi neurologici alle funzioni motorie o somatiche dei nervi, ma anche alle funzioni automatiche (mantenimento automatico della vita), in termini medici tutto ciò si definisce con il termine Neuropatia e può essere periferica (la Neuropatia periferica è un problema dei nervi che portano informazioni sia dal cervello sia dal midollo spinale al resto del corpo, questo può creare dolore, perdita di sensibilità e incapacità nel controllare i muscoli) o autonomica (la Neuropatia autonomica è un gruppo di sintomi che si avvertono quando esiste uno stress o un danno dei nervi che controllano le funzioni quotidiane del corpo, come la pressione sanguigna, il ritmo cardiaco, lo svuotamento intestinale, la vescica e la digestione).

I sintomi osservati variavano dipendendo dal tipo di nervo interessato così come allo stesso modo variavano le tecniche.

VARIAZIONI DELLA SENSIBILITÀ

  • Sensazione di riscaldamento;
  • Cambi di sensazioni;
  • Incapacità di assunzione di certe posizioni dell’articolazione;
  • Dolore del nervo;
  • Intorpidimento o formicolio.

DIFFICOLTÀ NEL MOVIMENTO

  • Difficoltà per respirare o per deglutire;
  • Difficoltà o incapacità nel muovere una parte del corpo (paralisi);
  • Cadute (a causa delle gambe);
  • Mancanza di destrezza;
  • Mancanza del controllo muscolare;
  • Stiramento o crampi muscolari.

SINTOMI AUTONOMICI

I nervi autonomici regolano le funzioni volontarie o semi volontarie come controllare gli organi interni o la pressione sanguigna. I danni ai nervi autonomici possono causare:

  • Gonfiore addominale;
  • Visione offuscata;
  • Stipsi;
  • Diminuzione della sudorazione;
  • Diarrea vertigini in piedi o sdraiati a causa della pressione del sangue;
  • Intolleranza al calore prodotto per lo sforzo;
  • Svuotamento incompleto della vescica;
  • Impotenza maschile;
  • Nausea o vomito specialmente dopo i pasti;
  • Incontinenza urinaria.

Quindi era necessario ovviamente trovare soluzioni per tutti questi problemi di salute causati tanto ai nostri compagni di allenamento, quanto a noi stessi.

Ma questo livello era più alto rispetto a quello su cui avevamo lavorato o alle cose per cui avevamo trovato una soluzione, quindi si è investigato e sperimentato usando modelli che avevamo usato per precedenti soluzioni, ma con risultati poco duraturi.

Dopo aver lavorato con i nervi scelti e cercato di scoprire con cosa erano relazionati, continuammo ad avere difficoltà per terminare il recupero

Quello che si è fatto a continuazione fu guardare in profondità ogni colpo e il modo in cui ogni struttura fisica reagiva ad ognuno di essi, quindi abbiamo visto l’azione e la contorsione della spina dorsale, in ognuno di essi era estrema, con questo si potevano vedere da semplici strappi al collo fino a multiple reazioni in tutta la spina dorsale.

Questo stava causando compressioni severe sia nei muscoli che nei nervi, in alcuni casi causavano noduli muscolari vicino alla spina dorsale.

Il seguente processo consisteva nel rilassare questi noduli muscolari vicini alla spina dorsale

Il che sembrava risolvesse certi problemi come è stato fatto con il trattamento dell’asma, tuttavia rimaneva ancora qualche problema (a seconda di come si contraeva la spina dorsale o da quali erano i muscoli colpiti).

Questi problemi erano anche simili o identici ad altri causati dalle tecniche, anche se erano portate in modo non troppo invasivo, questo indicava che c’erano più muscoli o nervi danneggiati in quelle zone dove si localizzavano i noduli muscolari.

Questo ci fece usare un metodo di massaggio per aprire e rilassare tutta la spina dorsale, ponendo particolare attenzione alla zona annodata dopo la tecnica curativa generale, l’idea era rilassare prima i nervi con leggere vibrazioni localizzate tra ogni vertebra, iniziando dal collo abbiamo collocato i nostri pollici o le nostre dita nello spazio tra ogni vertebra, premendo leggermente la zona per alcuni secondi prima di passare al successivo spazio.

Una volta che abbiamo fatto questo verso il basso sulla spina dorsale, abbiamo iniziato ad applicare una pressione più forte per muovere la spina dorsale all’indietro e verso l’alto, e questo si poteva ottenere non con la nocca, bensì utilizzando la parte più morbida del pollice.

Eliminando questo possibile dolore che potrebbe aver provocato nel recettore una tensione dei muscoli e un’altra volta una compressione dei nervi, questi rimanevano nelle stesse condizioni in cui erano prima di aver subito una tecnica di compressione.

Quando usammo questo procedimento ci rendemmo conto che qualche volta nella spina dorsale si sentiva come una spaccatura, come se si utilizzasse un metodo chiropratico o come se si schioccassero le nocche

Ma questo non era quello che stavamo cercando di fare, non volevamo usare questa scienza, l’abbiamo usata solo come termine di paragone, per essere più chiari nell’esposizione, tuttavia, questo ha fatto si che la spalla del recettore si rilassasse di più.

Dopo questo, se la spalla si aggiustava, si usava questa idea per esercitare una leggera pressione per allungare la spalla ogni volta che serviva.

Questo metodo fa si che i muscoli e la spina dorsale del recettore si allentino… E aiutino la persona anche a stare più eretta, questo ha posto la questione cosi, si correggeva la dislocazione, per questo si sviluppò una tecnica rudimentale per poter visualizzare anche l’allineamento laterale della spina dorsale.

Con la persona a pancia in giù, con le braccia ai lati, mettiamo dolcemente le punta delle nostre dita sopra una zona del midollo spinale, sopra la prima vertebra toracica, muovendo le dita superficialmente sulla zona, possiamo vedere quando le nostre dita si muovono da un lato o si muovono in linea retta, come dovrebbe essere.

Oltretutto abbiamo osservato che stranamente se c’era una tensione nei muscoli o anche un nodo, il dito si muoveva in quella direzione (indicando la zona del muscolo teso)

Ma succedeva anche qualcosa di più, ossia dopo le vibrazioni e seguendo il metodo della pressione per stendere i muscoli, il tracciato della spina dorsale rimaneva più retto e per di più si correggevano le deviazioni più profonde.

Non si tenta esattamente l’allineamento della spina dorsale, anche se molte volte si può sentire un istruttore o Maestro dire così, a causa della somiglianza dei suoni che si producono quando si usa, si tratta di una tecnica per comprimere i nervi a stimolarli, con l’obiettivo di calmarli e rilassarli.

Come nota a parte, si possono vedere molti curatori colpire la parte bassa della parte posteriore dei recettori, la maggior parte di loro imita qualcosa che precedentemente hanno visto fare da un curatore professionista, ma se gli si chiede il perché lo facciano, raramente lo sanno.

Tuttavia, devo dire devo dire che quando si vede un curatore esperto usare questa tecnica, lo fa per necessità, poiché sono danneggiati i sistemi anatomici del recettore.

Primo soccorso per il mal di schiena

Ad ogni livello che avanziamo utilizzando i punti di pressione, troviamo un nuovo problema o malessere fisico che necessita di un rimedio, questo ci da una motivazione che va oltre il semplice miglioramento delle abilità marziali, perché ci offre nuove e differenti sfide.

Tutto ciò ci fa capire in maniera incredibile la dualità delle arti marziali (o quella che era), perché stiamo imparando il modo di alleviare i problemi di salute, mentre impariamo a creare disfunzioni fisiche, incapacità, incoscienza, così come a controllare molte funzioni fisiche, sia esterne che interne.

Stiamo approfondendo i nostri studi, poiché dagli antichi miti e leggende sulle Arti antiche, celebri Maestri sono diventati realtà, avevamo in mano il loro segreto e abbiamo svelato il mistero che li aveva avvolti per tutti questi anni.

I miti non erano tali, erano realtà e mediante i punti vitali cominciavano ad avere senso, tuttavia, avevamo un profondo rispetto per quelle conoscenze, poiché ci rendemmo subito conto che il metodo conteneva il controllo sulla vita e sulla morte.

Avevamo già oltrepassato la soglia del combattimento corpo a corpo, eravamo pronti ad applicare il metodo dei punti di pressione per combattere contro le armi, lo usammo contro ogni tipo di armi, da armi classiche di Kobudo fino ad armi da fuoco, passando per le armi bianche, cominciammo ad integrare i punti di pressione in altri stili precedenti come il ju jitsu, il Kempo, il Karate ed altri ancora, scoprendo grandi possibilità e controllo.

Imparammo come dovevamo fare una serie di attacchi a quegli specifici nervi della testa e del collo, cosa che provocava uno stress fisico eccessivo sui nostri compagni di allenamento

Ma ci rendemmo anche conto che stavamo facendo centinaia di tecniche differenti per ogni arma e per ogni possibile scenario, troppo complicato e quasi irrealizzabile, perché se una persona cambiava l’angolo o variava in qualche modo l’attacco, obbligava il praticante ad acquisire abilità per eseguire una tecnica determinata contro un’arma determinata.

Sapevamo che dovevamo sviluppare un metodo di difesa più semplice, per rendere possibile una  reazione sotto stress e l’imprevedibile azione di un attacco premeditato da parte di un aggressore reale, bisognava analizzare l’origine di ogni possibile movimento, il che studiando i punti di pressione significava puntare sempre sul cervello.

Pertanto, i nostri sforzi si concentrarono sull’evitare che il cervello dirigesse le azioni di attacco dell’individuo, e il metodo migliore e più rapido era attaccarlo al collo e alla testa, quando attacchi i nervi del collo e della testa, tutto il corpo e la mente immediatamente ne subiscono le conseguenze, fino al punto in cui le azioni del corpo non possono più essere portate a termine.

Imparammo come dovevamo fare una serie di attacchi a quegli specifici nervi della testa e del collo, cosa che provocava uno stress fisico eccessivo sui nostri compagni di allenamento, caricando in avanti rapidamente e attaccando i punti di pressione della testa e del collo, invariabilmente l’avversario barcollava fino a che non cadeva incosciente o con un’evidente disfunzione fisica.

Questo faceva si che subissero una notevole pressione sulla schiena, dovuto alle pessime posizioni assunte,

Esisteva anche una tendenza a causare crampi e pressione sui nervi attorno, il che ancora una volta risultava essere un problema fisico più grave, ma prima di tutto si manifestava mediante la tensione e il mal di schiena.

Queste problematiche consistevano in difficoltà respiratorie, difficoltà motorie, nausea e simili, tutto ciò fece si che avessimo bisogno di un altro rimedio di primo soccorso per eliminare questi sintomi, fino ad ora si può capire come siamo giunti fino a questo punto da altre tecniche di primo soccorso che scoprimmo strada facendo, ma la differenza maggiore qui è che non si trattava di un problema leggero, bensì poteva trattarsi di una o più problematiche serie.

Pertanto, la sfida che stavamo affrontando era molto dura, avremmo avuto bisogno di sforzo, determinazione e di una ricetta speciale per risolvere questo tipo di problemi.

Prima applicammo i rimedi di primo soccorso per parti (per esempio, se una persona aveva difficoltà a respiratorie, gli applicavamo i rimedi di primo soccorso per una disfunzione dei bronchi o del diaframma), questo era efficace in parte, ma non era né completo né efficace al punto che volevamo fosse.

Se un individuo manifestava due o tre sintomi come problemi respiratori, nausea e mal di testa, il processo separatamente tardava molto ad essere efficace

Benché aiutasse, avevamo bisogno di un rimedio più rapido per affrontare questa nuova difficoltà, il passo successivo fu usare il metodo di sollievo spinale del livello anteriore, che risolveva tutte le difficoltà eccetto il mal di schiena.

Questi dolori si manifestavano in primo luogo in tre posti, la zona bassa, media e alta della schiena – zona delle spalle (bisogna ricordare che molti mal di testa derivano da tensione nelle spalle, perciò vedemmo chiaramente le associazioni simbiotiche che ci potevano essere), il primo della lista era il dolore della parte bassa della schiena, poiché è la zona colpita più frequentemente, ma la domanda era perché.

Quello che scoprimmo dopo un po’ di tempo e vari tentativi fu che in ogni caso in cui si girava la testa o si piegava rapidamente la schiena all’indietro, si causava in primo luogo un dolore alla parte bassa della schiena e poi un collasso un blocco nelle gambe, questo ci diceva che forse il problema sorgeva dalle gambe o dalle caviglie, allora cominciammo a lavorare sui punti delle gambe e delle caviglie separatamente e in combinazione, per la verità senza grossi risultati.

Usammo anche differenti tipi e metodi e direzioni di pressione per vedere se funzionava e se così era, sapere il perché, ma nuovamente senza risultati fino a che trovammo il punto.

Si trattava del punto che si trova tra la caviglia e la base del tendine di Achille ed attraversa l’osso del tallone, aveva senso poiché questo nervo nella zona bassa della spina dorsale e, per nostra sorpresa, nel lato che doveva essere il più sensibile al tocco o alla pressione, era lo stesso lato della schiena che stava soffrendo il dolore più acuto.

La seguente zona dove si localizzava il dolore era la parte media della schiena, il punto B1-0 non alleviava completamente la zona, benché aiutasse molto

Ma ovviamente non era sufficiente, poiché non alleviava completamente il mal di schiena, benché la parte alta della schiena si sentisse molto meglio, per questo motivo continuammo con la ricerca, ma scoprimmo che le nostre prove sui punti delle gambe non erano efficaci, allora usammo lo stesso metodo nei punti della schiena, trovammo molto rapidamente il punto migliore, nella maggior parte dei casi nell’area in cui avevamo cominciato la ricerca.

Tuttavia, dovevamo continuare per assicurarci che il punto che avevamo scoperto alleviasse completamente il dolore, questo punto che scoprimmo all’inizio del processo, risultò essere veramente il miglior punto per alcuni primi soccorsi, è il punto BL-16 situato vicino alla spina dorsale nella parte media della schiena, questo punto rilassa i punti della parte media della schiena ed esercita pressione sul resto della schiena.

Pertanto avevamo già un sollievo per la parte media della schiena, ma non alleviava la parte alta né la zona delle spalle, allora ricominciammo a cercare e trovammo il punto TW-15 che alleviava la schiena ed il punto GB-21 che alleviava le spalle.

Avevamo già i rimedi per il primo soccorso, ma volevamo assicurarci di aver risolto del tutto il problema

Scoprimmo anche che se colpivamo la parte bassa della schiena e lasciavamo la zona in pace, il dolore e la rigidità di spostavano con il tempo nella zona media e alta della schiena o nelle spalle, perciò invece di concentrarci su un punto specifico, lavorammo su un’area completa, BL-60,BL-16,TW-15 e GB-21, per qualunque tipo di mal di schiena.

Questo metodo faceva bene il suo dovere e col tempo il dolore e la rigidità non si diffondevano in altre zone, per cui risultò essere un metodo di sollievo completo, ora, pensa che potresti usare questo metodo per qualcuno che soffre di mal di schiena, non è necessario che tu prima abbia studiato i punti di pressione, tutti i metodi dei punti di pressione per primo soccorso che sto descrivendo servono a favorire una salute e benessere integrali sotto molti aspetti, attraverso un programma di benessere

Note


Mischiano vino, birra e altre bevande alcoliche…

Mischiano vino, birra e superalcolici: è allarme alcol tra gli under 18. Il 63% si ubriaca nel weekend


Il 63% degli under 18 italiani si ubriaca nel weekend. Con il binge drinking si mischiano vino, birra e superalcolici, spesso mandando giù bevande a basso costo, fino a sballarsi. Per i ragazzi la media è di 4 bicchieri e mezzo in una serata di movida, per le ragazze addirittura di 6.

Sono i dati eloquenti dalla recente ricerca ‘Il Pilota’, condotta dall’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di sanità.

Proprio per invertire questo preoccupante fenomeno, il Comune di Roma ha siglato un protocollo d’intesa con il Silb Confcommercio e la Confesercenti che prevede, tra l’altro, il divieto di vendita agli Under 16. Analogo giro di vite è stato adottato a Monza e Milano.

Secondo la ricerca, il 42% dei ragazzi e il 21% delle ragazze che bevono sino a ubriacarsi ha meno di 18 anni.

Wikimedia Commons, Zielwasser (2012)

Sono più numerosi dei 19-24enni che si sbronzano (il 19% dei maschi e il 9% delle femmine) e dei meno giovani, quelli oltre i 25 anni (il 7,5 % dei maschi ed il 5,5% delle femmine).

A dimostrazione che con l’età si mette giudizio. In generale, quasi 9 giovani italiani su 10 in discoteca o nei locali non smettono di bere finché non sono sbronzi.

A causa del binge drinking aumentano fra i minorenni i policonsumatori: in una sola serata bevono birra, whisky, gin e tequila.

Si esagera con le bevande ad alta gradazione, senza disdegnare il vino, che torna di moda nello sballo del fine settimana. A preferirlo sono soprattutto le giovanissime, che lo abbinano ai superalcolici.

Nella movida dei teenager, che nella prima serata si riuniscono spesso all’aperto, affollando le piazze delle città, si diffonde la moda del ‘butellon’.

È la damigiana costituita dal vino e dalle bevande alcoliche e superalcoliche a più basso costo, che in Spagna domina le serate dei giovani da almeno cinque anni.

Si consuma collettivamente, secondo una ritualità che ha molte analogie con quelle dell’uso di droghe, sottolinea l’indagine.

A favorire la diffusione dell’alcol anche fra i minorenni, secondo l’analisi dell’Osservatorio nazionale, è proprio l’accresciuta disponibilità e accessibilità delle bevande, complici l’abbassamento dei prezzi in occasioni come gli ‘happy hour’, la pubblicità e le strategie di marketing.

Note


[PAURA & AUTODIFESA] Psicologia di un conflitto inaspettato

La paura, una volta manifestata in sintomi, non è altro che una sindrome che si concretizza in un quadro ben definito di alterazioni psicosomatiche. Vediamo assieme alcuni esempi di questa condizione


Alcuni esempi reali

Primo scenario

NEW YORK, giovedì 3 giugno 2005. I giornali della città riportavano la notizia di una sparatoria nella quale ferirono un poliziotto: si era salvato miracolosamente grazie al suo corpetto antiproiettile.

In quella stessa notizia veniva sottolineato il fatto che, mentre l’ufficiale risultato ferito aveva affrontato il delinquente, il suo collega era fuggito spaventato dalla scena.

Tutti i giornali erano d’accordo nel dare risalto al fatto in particolar modo per l’impressionante atto di vigliaccheria del collega.

Secondo scenario

Tempo fa fece scalpore la notizia che Alex Gong, direttore del Fairtex Gym in California, era stato vittima di alcuni colpi di pistola ed era morto in una delle strade più frequentate di San Francisco.

Gli avvenimenti erano stati i seguenti: un conducente, che viaggiava in una jeep, era andato a sbattere contro la sua auto che era parcheggiata, immediatamente si era dato alla fuga.

Alex lo aveva seguito a piedi fino ad acciuffarlo più avanti, il conducente si era fermato ad un semaforo rosso, nel momento in cui Alex lo aveva raggiunto, l’individuo in questione aveva estratto un’arma ed aperto il fuoco contro di lui, perdendosi poco dopo in mezzo al traffico.

Alex era stato colpito appena sopra il cuore, una ferita mortale. Più tardi ritrovarono il Cherokee abbandonato in un altro luogo.

Per chi non conosce Alex Gong, va detto che era campione del mondo di Muay Thai, il suo nome aveva brillato di luce propria a Las Vegas, in altre parole un artista marziale molto ben preparato.

Terzo scenario

Giovedì 12 settembre 1991, l’ufficiale di polizia Hèctor Antonio Fontanez Diaz morì a causa dei colpi di pistola ricevuti inseguendo in un vicolo cieco un criminale armato.

Gli ufficiali avvistarono Il criminale nella zona su una bicicletta ed in possesso di un’arma da fuoco.

L’ufficiale Fontanez fu in grado di rispondere al fuoco facendo centro almeno cinque volte, ed il criminale fu arrestato alla fine da altri ufficiali.

A suo tempo, questi fatti hanno occupato le prime pagine dei mezzi di comunicazione giungendo a catturare l’attenzione dell’opinione pubblica in generale.


Analizziamo assieme i dati

La ragione per la quale ne parlo è che nei tre eventi si è prodotta una violenza non prevedibile.

Essi rappresentano perfettamente la reazione umana che essa scatena.

Vale a dire le condotte che palesiamo di fronte ad un conflitto inaspettato, quando una persona affronta una situazione di stress come quelle a cui furono esposte le persone di questi esempi.

La reazione “normale, umana” è istintiva di sopravvivenza, e può essere di due tipi, paura (fuga) o rabbia (aggressione).

La fuga

Nel primo caso, cioè in quello del poliziotto in fuga, è facile giungere alla conclusione che la paura si sia impadronita di lui e sia riuscita a dominarlo.

La paura è un’emozione umana naturale, che ci aiuta a focalizzare le situazioni di stress.

Tuttavia essa è generalmente presentata come una debolezza del carattere, la paura può essere provocata da una minaccia reale o percepita come tale, la nostra reazione istintiva sarà quella di intervenire o, al contrario, quella di fuggire.

La condizione di paura una volta manifestata in sintomi non è altro che una sindrome

La paura, una volta manifestata in sintomi, non è altro che una sindrome che si concretizza in un quadro ben definito di alterazioni psicosomatiche quali:

  • Tachicardie o bradicardie;
  • Diminuzione o l’aumento di determinate attività ghiandolari;
  • Cambiamenti della temperatura del corpo;
  • ecc…

A sua volta tutto ciò produce negli individui trasformazioni in determinate parti del corpo, che li spingono ad agire in una direzione o in un’altra.

Nel caso di Alex Gong e del poliziotto Fontanez, furono la rabbia e il coraggio a determinare la loro reazione.

Le tre reazioni umane primarie sono il coraggio o rabbia, la paura e l’amore

Le prime tre esplodono come risultato di una reazione immediata ad uno stimolo esterno, o come risultato di un processo soggettivo indiretto, derivante dalla memoria, dall’associazione o dall’introspezione.

La cosa curiosa di tutto ciò è che le strutture anatomiche dove risiedono i controlli di queste reazioni, si trovano tutte nella stessa porzione del nostro cervello centrale, l’ipotalamo.

L’ipotalamo controlla un’ampia gamma di funzioni vitali del nostro organismo.

Dirige anche la risposta tipica del “correre o lottare” del sistema nervoso autonomo, l’eccitazione o la paura costringono i segnali a viaggiare verso l’ipotalamo, il quale produce a sua volta tachicardia o accelerazione del polso e della respirazione, pupille dilatate ed aumento del flusso sanguigno.

Quando le persone si arrabbiano o hanno paura cominciano a pensare dal cervello centrale invece che dal cervello anteriore

Quando le persone si arrabbiano o si spaventano, cominciano a pensare e, quindi, ad agire dal cervello centrale invece che dal cervello anteriore, che è dove risiede la “mente umana” o il cervello più avanzato.

So che non suona molto attraente, ma nonostante la nostra evoluzione apparente, l’unico modo di avere influenza su questa zona del cervello è usare lo stesso metodo che funziona con i cani: il condizionamento psicologico.

Vale a dire ripetere esattamente lo stimolo che si potrebbe affrontare nella realtà e perfezionare la risposta desiderata una volta dopo l’altra, in modo che nel bel mezzo di un’eventuale crisi il cervello abbia una più alta probabilità di reagire nel modo desiderato, benché ci si trovi in una situazione di stress estremo.

In definitiva, questo è ciò che facciamo quando ci alleniamo ,imparare a condizionare o a controllare queste emozioni primarie, sia se si tratta di allenamenti polizieschi, che di arti marziali.

CONDIZIONAMENTO PSICOLOGICO

Come sappiamo la maggior parte dei dipartimenti di polizia e delle agenzie di sicurezza cerca di educare i loro membri con qualche tipo di allenamento, che li aiuti a fare meglio il loro lavoro, tuttavia le limitate possibilità in termini economici, la perenne mancanza di personale, oltre alla minaccia costante delle procedure giudiziarie, fanno si che, sia i dipartimenti di polizia che le agenzie di sicurezza, limitino in un certo senso le possibilità di allenare il loro personale in modo più realistico.


Un altro esempio pratico: l’addestramento al poligono

Per esempio nella maggior parte dei poligoni di tiro polizieschi si seguono protocolli di sicurezza che vanno a scapito dell’introduzione della pressione psicologica nell’esercizio, cosa che apporterebbe agli esercizi stessi molto più realismo ed efficacia.

  • Si spara dopo aver sentito un suono preciso emesso dagli istruttori;
  • Si usano cuffie per diminuire il rumore degli spari (per prevenire il danno acustico);
  • Si spara da una linea predeterminata, la quantità di pallottole che stabilisce la torre di controllo;
  • Si spara ad un’ora e in un luogo predeterminato, ad oggetti generalmente immobili, che naturalmente non rispondono al fuoco.

In realtà, l’allenamento offerto è generalmente accettabile quanto alla formazione fisica e tecnica dell’allievo, sarà l’atteggiamento del partecipante di fronte all’allenamento che alla fine deciderà la portata e l’autenticità dello stesso.

È l’allievo che deve trovare un modo di integrare la parte psicologica e tattica al suo allenamento, ed adattare i livelli della sua preparazione personale alla realtà.


Ci sono quattro livelli di condizionamento mentale

Tutti rispondiamo agli stimoli in funzione dello stato mentale in cui ci troviamo in quel momento, per questo motivo, per essere capaci di rispondere ad un possibile attacco inaspettato, dobbiamo coltivare l’allerta rispetto a tutto quello che sta succedendo intorno a noi.

Sebbene sia vero che non è pratico né appropriato vivere “col dito sul grilletto”, non lo è nemmeno voler vivere la propria vita in un limbo di spalle al mondo che ci circonda, trasformandosi così in un bersaglio ambulante.

In alcuni corpi militari come nei servizi di pronto soccorso, i differenti livelli di allerta sono insegnati attraverso un sistema che usa un codice di colori, che rappresenta i differenti tipi di coscienza dell’esperienza di un essere umano.

CONDIZIONE BIANCA

È lo stato mentale in cui la maggior parte delle persone vive la sua vita.

Nella condizione “bianca” non ci si aspetta nessun tipo di problemi, né si cercano problemi, in questa condizione ci sentiamo ed agiamo perfettamente fiduciosi e sicuri.

È come se il mondo che ci circonda fosse la nostra stanza, e noi avessimo il controllo di tutto quello che succede attorno a noi.

Pensiamo che niente di male ci può succedere, è la condizione idonea per diventare delle vittime.

CONDIZIONE GIALLA

Questa è la condizione nella quale si dovrebbe stare quando ci si trova in pubblico, cioè in un ambiente che non è intimo o familiare.

Corrisponde all’equivalente mentale del semaforo, cioè, questo stato ci suggerisce di procedere con precauzione, si deve essere coscienti di ciò che accade attorno a noi.

Per esempio chi vi sta dietro, va mantenuta sempre la distanza perlomeno di un braccio dagli estranei.

È conveniente, inoltre, abituarsi a giocare un gioco mentale, analizzando le persone che ci circondano: che tipo di persone possono essere… che situazioni potrebbero prodursi inaspettatamente ecc…

In questa condizione si devono ascoltare i propri istinti, attenti a qualunque eventuale pericolo.

CONDIZIONE ARANCIONE

A questo livello si deve capire che sicuramente… qualcosa non va per il verso giusto.

Si deve ammettere che esiste un pericolo, questo è uno stato d’allarme, essenzialmente la decisione è di allontanarsi o di prepararsi ad agire.

CONDIZIONE ROSSA

In questa condizione l’azione è imminente.

Non appena la minaccia si manifesta, si deve agire, qualunque risposta o colpo che si stia preparando, deve essere portato a compimento immediatamente, con tutta la velocità e l’aggressività possibili.

In questo momento si deve esercitare un controllo sulle proprie emozioni, non sopprimerle.


IN CONCLUSIONE

Allenarsi per partecipare ad un torneo, per migliorare la propria immagine fisica, persino per mantenere la salute sono ragioni adeguate, ma naturalmente non ci si prepara ad affrontare situazioni spontanee di vita o di morte.

Malgrado la paura sia un’emozione così frequente, sono molto poche le persone che si allenano immergendosi in circostanze che evochino questa emozione.

L’obiettivo durante l’allenamento dovrebbe essere quello di considerare seriamente questo tema e lavorare di fatto sullo sviluppo dell’autocontrollo totale della paura e della rabbia, due reazioni tra le più sconvenienti in un conflitto inaspettato, che possono risultare letali.

Note


Traumi da prestazione sportiva: prevenzione e cura 2/2

Prima di affrontare questo argomento molto importante, (mi è costato mesi di ricerche ed elaborazioni per le mie tesi), è necessario parlare prima di una parte fondamentale dell’arto: la capsula.

Continuiamo il nostro articolo precedente.

Fondamentali di un arto: La capsula

Non si può parlare di spalla se non si descrive anatomicamente un’altra struttura anatomica fondamentale, la capsula articolare.

Questa struttura è formata da un manicotto fibroso che circonda tutta l’articolazione.

Esso è diviso convenzionalmente in una porzione anteriore ed una posteriore. Essendo estremamente flessibile, la capsula può subire retrazioni o lassità in base ad una genetica (prevalenza di fibre elastiche o collagene) sia in base al tipo di fisico (lasso, tonico, ecc..), all’età (fino all’età puberale c’è una tendenza alla lassità) alla funzionalità dell’arto superiore, al dolore, ed altro ancora.

La valutazione di tale struttura si esegue tramite il movimento passivo (meglio se eseguito in clinostatismo perché si riesce ad isolare in modo migliore il movimento gleno-omerale), appunto perché la capsula è una struttura passiva e quindi l’influenza delle forze muscolari o del movimento attivo contro gravità dell’arto potrebbero determinare l’insorgere di dolori secondari che, con ogni probabilità, svierebbero anche un bravo terapista dalla vera e propria natura della patologia.

Inoltre è necessario escludere le limitazioni di escursione che possono dipendere da un’insufficiente forza muscolare, evidenziabili in modo maggiore in ortostatismo.

Le retrazioni possono essere solo riferite ad una porzione o a tutta la capsula, nel caso avessimo una rigidità nell’anteposizione passiva dell’arto superiore, si tratterebbe di una retrazione della capsula anteriore.

Al contrario se avessimo una rigidità della rotazione interna passiva dell’omero, si tratterebbe di una retrazione della capsula posteriore.

Un’attenta valutazione permette di individuare quale struttura è responsabile dell’eventuale dolore ed agire in modo specifico evitando protocolli prestabiliti, infatti il presupposto fondamentale di un buon recupero è quello di esaminare il soggetto che si ha di fronte, personalizzando e tarando il programma al suo preciso quadro patologico.

Non bisogna dimenticare che la capsula è una struttura riccamente innervata

Una sua alterazione quindi provoca nel soggetto una sensazione di dolore intenso e difficile da sopportare.

Infatti, in presenza di retrazione, durante lo stiramento della capsula si manifesta un’allodinia, ossia una sensazione dolorosa dovuta ad uno stimolo che normalmente non provoca dolore.

Il soggetto, cioè, avverte dolore in un angolo di movimento fisiologico che normalmente non dovrebbe provocare dolore.

Tale sensazione dolorosa è il campanello d’allarme che ci deve far pensare ad una rigidità capsulare, altro fattore da tener presente per individuare una rigidità capsulare è l’irradiazione del dolore lungo tutto l’arto, dolore che può estendersi fino alla mano.

In una capsula rigida, oltre al dolore da stiramento, si vengono a creare anche degli importanti attriti interni che con il passare dl tempo potrebbero determinare una degenerazione delle strutture anatomiche, complicando così ulteriormente la situazione.

Parliamo ora della varietà vasta delle patologie che potrebbero interessare la spalla, per cui è fondamentale non generalizzare, ma identificare e “chiamare per nome” la specifica patologia.

Non è più possibile sentir parlare solo di “periartrite scapolo-omerale, perché è un termine troppo generico per identificare realmente il problema.

Se ci trovassimo di fronte ad un dolore addominale cercheremmo di capire quale organo ne è la causa, la stessa cosa deve essere fatta a livello della spalla

Si deve comprendere quale struttura dell’arto è più interessata alla patologia: i muscoli, la capsula, i tendini, le ossa ecc… Dopo di che bisogna dare un nome ben preciso a ciascuna patologia: infiammazione del sovraspinato, tendinopatia calcifica della cuffia, tendinite del CLB, artrosi gleno-omerale, lussazione gleno-omerale, lussazione  acromion-claveare, fino ad elencarle tutte.

Tra le numerose patologie della spalla, quella della cuffia dei rotatori è quella che riveste il maggior interesse nel mondo sportivo, un buon terapista deve però conoscere l’intero quadro patologico, per avere la possibilità di risolvere il problema in ogni momento e situazione.

A tale scopo, di seguito ed in breve descriverò le varie patologie della spalla che spesso si possono incontrare in soggetti che svolgono un’attività sportiva regolare e non solo.

TENDINOPATIA CALCIFICA

Tra tutte le patologie che si presentano di frequente a seguito di movimenti ripetitivi, la prima è la tendinopatia calcifica, ossia la presenza di calcificazioni a livello tendineo su uno o più tendini della cuffia dei rotatori.

Questa patologia si manifesta soprattutto i soggetti giovani che, spesso, non sono a conoscenza del problema reale.

Esistono diversi tipi di calcificazioni:

  • TIPO A: a margini netti e ben definiti;
  • TIPO B: a margini non definiti, ma situata in una posizione inserzionale;
  • TIPO C: eterogenea polilobata a limiti ben definiti;
  • TIPO D: calcificazione distrofica inserzionale.

La classificazione può assumere un aspetto diverso anche in base al tendine interessato, esistono infatti calcificazioni posizionate nel tendine del sovraspinoso, del sottoscapolare, del capo lungo del bicipite, più rare, del sottospinoso del piccolo rotondo, tutte con diverse particolarità.

Un’ulteriore classificazione si può effettuare in base alle dimensioni:

  • Piccole: (< 10 mm);
  • Medie : (da 10 a 20 mm);
  • Grandi : (> 20 mm).

Le calcificazioni sono come “leoni” che dormono nei tendini, ma quando si svegliano il dolore si manifesta in modo immediato ed intenso, tale da far correre il soggetto al pronto soccorso

Infatti, quando una persona accusa e descrive eventi dolorosi acuti ed invalidanti, della durata di circa sette giorni, si può pensare ad una calcificazione, questo periodo di particolare sofferenza è riferito alla fase acuta, in cui si crea una congestione (afflusso eccessivo ed improvviso di liquido e sangue) all’interno del tendine accompagnata da impotenza funzionale, dolore, calore e rossore.

Nelle fasi acute, quando è possibile, ci si dovrebbe rivolgere subito ad un chirurgo specializzato nelle patologie della spalla, perché sarebbe meglio effettuare un lavaggio bursale, asportando così i residui calcifici ancora prima che si compattino.

Questa procedura consiste nel lavare lo spazio sottoacromiale con fisiologica e nel cercare di decongestionare, asportando parte del calcio presente con due aghi (l’esame strumentale indispensabile per effettuare questa procedura è la radiografia).

Qualora non ci fosse la disponibilità di un chirurgo esperto, è necessario spiegare al paziente che si tratta di una fase transitoria e, dopo il dolore acuto, sarà importante verificare che la mobilità della spalla sia completa e, nel caso, recuperare l’eventuale deficit di forza che si è creato

Naturalmente in quest’ultimo caso la calcificazione rimane presente nel tendine e, anche se dopo la prima fase acuta il dolore diminuirà notevolmente o nelle migliori condizioni cesserà di esistere, si potrebbero presentare problemi continui con tendenza ad incrementare lo stato patologico.

Per effettuare un trattamento riabilitativo adeguato, è importante conoscere e valutare attraverso la radiografia, di quale calcificazione si tratta, la grandezza e in quale tendine è posizionata, una delle conseguenze più assidue in una tendinopatia calcifica è la rigidità capsulare (questa è una patologia molto problematica, che tratterò successivamente), per cui è opportuno lavorare in prevenzione, facendo eseguire esercizi per la mobilità.

Dopo il lavaggio articolare o nel periodo successivo ad una fase acuta, deve seguire un periodo di riabilitazione  che prevede il recupero della mobilità e della forza dell’arto.

Tale periodo si completerà con un’attenta valutazione del paziente e con l’individuazione di un programma di esercizi da eseguire a domicilio o in palestra, il trattamento dovrà essere differente da seconda della tipologia e della localizzazione anatomica della calcificazione.

In seguito descriverò i principi del corretto trattamento riabilitativo da applicare ad ogni situazione.

Note


Traumi da prestazione sportiva: prevenzione e cura 1/2

È una vita che vivo, prima da atleta, ora come insegnante tecnico, gli allenamenti e i combattimenti negli sport da combattimento. Oggi parleremo della spalla

Alcune volte traumi all’interno delle gare mi hanno impedito la mia attività anche per mesi, senza capire inoltre il mio percorso di riabilitazione perché difficilmente riuscivo a farmi spiegare in cosa consistesse il suddetto percorso dal lato tecnico.

Ho iniziato a documentarmi per capire, ed oggi sto effettuando la laser terapia per un trauma alla cuffia dei rotatori, ma sono cosciente di ciò che sto facendo.

Cercherò di affrontare il problema della traumatologia delle varie parti del corpo facendo dei cenni all’anatomia e fisiologia, sperando che questo mio contributo sia utile se non a evitare, ma almeno a capire ciò che ci è accaduto durante una prestazione sportiva traumatica.


SPALLA: PREVENZIONE E TRATTAMENTO

La spalla rappresenta, in tutto il corpo umano, l’articolazione dotata di maggiore mobilità. La sua struttura anatomica, infatti, consente tre gradi di movimento e permette così di svolgere anche il movimento di circonduzione.

La grande escursione di movimento che questa articolazione possiede, contestualmente ad altri fattori, la rende però anche molto vulnerabile alle lesioni.

In seguito verranno affrontati i passi indispensabili per conoscere le regole relative alla prevenzione e al trattamento delle patologie della spalla, al fine di consentire lo sviluppo di “muscoli intelligenti” che possano rendere più efficienti e controllati i movimenti di questa articolazione.

Verranno illustrate le regole che riguardano la valutazione e lo sviluppo del grado di flessibilità dell’articolazione, che rappresenta un parametro fondamentale per il buon funzionamento della spalla.

Specifico che i concetti descritti in seguito non sono solo validi per gli atleti, ma son applicabili a chiunque.

QUALCHE ACCENNO DI ANATOMIA E FISIOLOGIA

L’anatomia rappresenta la premessa fondamentale per comprendere la complessità di questa articolazione e per svolgere un programma specifico di prevenzione o trattamento riabilitativo.

La spalla è composta da diversi elementi anatomici che ne permettono il corretto funzionamento, le strutture ossee sono rappresentate dall’omero, dalla scapola e dalla clavicola.

Il funzionamento della spalla dipende dall’intervento coordinato di più articolazioni che la rappresentano, la sua funzionalità è garantita sia dalla forza contrattile dei muscoli, sia dalla resistenza passiva delle strutture capsulari e legamentose, che attraverso i segmenti ossei creano le necessarie leve biomeccaniche utili al movimento. Le articolazioni che rappresentano la spalla sono le seguenti:

  • Acromion-claveare;
  • Sterno-claveare;
  • Scapolo-toracica;
  • Gleno-omerale;
  • Sotto-deltoidea.

Il medico Adalbert I. Kapandji definisce “vere“ tre articolazioni che costituiscono la spalla, mentre le altre due sono definite “false“.

Le cosiddette “false“ vengono chiamate tali perché non presentano dei veri e propri collegamenti articolari tra i vari capi ossei, ma creano uno scivolamento tra un osso e l’altro, tale movimento si realizza attraverso il tessuto muscolare e connettivale che è interposto tra le strutture.

Le articolazioni considerate vere secondo Kapandiji sono:

  • Gleno-omerale;
  • Acromion-claveare;
  • Sterno-claveare.

L’articolazione che desta più interesse dal punto di vista funzionale e patologico è la gleno-omerale, anche se è necessario sottolineare che un buon funzionamento della spalla è reso possibile solo dal sincronismo di tutte e cinque le articolazioni che la rappresentano.

L’equilibrio della testa dell’omero rispetto alla glena è garantito da strutture anatomiche di stabilizzazione passiva ed attiva. Siccome l’articolazione gleno-omerale non è rappresentata da un incastro meccanico che ne garantisce stabilità, la testa omerale, in assenza delle strutture attive e passive prima descritte, in linea teorica tenderebbe a cadere per gravità.

Gli stabilizzatori passivi, oltre a contribuire alla stabilità, sono in grado di ammortizzare i carichi che si trasmettono all’articolazione in conseguenza del movimento.

Questi sono rappresentati da:

Legamento GOS (gleno-omerale-superiore):

ha la funzione di stabilizzare anteriormente la testa omerale, ne limita l’extra-rotazione e la traslazione inferiore quando il braccio è addotto al fianco;

Legamento GOM (gleno-omerale-medio):

ha la funzione di stabilizzare anteriormente la testa omerale e ne limita l’extrarotazione quando il braccio si trova a circa 45° di abduzione;

Legamento GOI (gleno-omerale-inferiore):

la funzione di stabilizzatore dinamico antero-inferiore, soprattutto quando il braccio si trova in una posizione di 90° di abduzione ed extrarotazione.

Questa struttura mostra una certa somiglianza con un’amaca, ancorata da una parte alle glena, dall’altra alla testa omerale.

La similitudine non è solo strutturale, ma anche funzionale, quando il braccio si trova, come descritto sopra, in abduzione ed extra-rotazione, il GOI sostiene la testa omerale come se fosse appoggiata su un’amaca;

Il legamento coraco-omerale:

ha la funzione di sostegno passivo per evitare la caduta della testa omerale verso il basso con il braccio addotto al fianco;

Il CLB (il capo lungo del bicipite):

con la sua inserzione nel tubercologlenoideo, ha la duplice funzione di componente depressoria passiva e di stabilizzatore anteriore della testa dell’omero.


Provando ad immaginare una similitudine, il capo lungo del bicipite svolge la stessa funzione di un tirante che tiene a terra una mongolfiera

Qualora la mongolfiera, per qualsiasi motivo, dovesse tendere a salire verso l’alto in modo maggiore, la trazione del tirante verrebbe incrementata.

In un primo momento si avrebbe solo lo stiramento del tirante, ma se la situazione rimanesse invariata, con ogni probabilità si arriverebbe addirittura ad una rottura dello stesso.

Ugualmente, quando i muscoli della cuffia dei rotatori non tengono più depressa e centrata la testa omerale, essa tenderà a salire verso l’articolazione acromion-claveare, le tensioni di questa risalita si andranno a scaricare sull’apparato di contenzione passiva, in particolare sul capo lungo del bicipite.

La continua forza tensionale che si scarica su quest’ultimo tenderà, con il tempo, a trasformare la sua struttura tubolare in una più schiacciata e debole.

  • Il cercine ( anello fibro-cartilagineo ) ha la funzione di aumentare la superficie di congruenza della glenoide con la testa omerale.

Gli stabilizzatori attivi sono rappresentati dal complesso muscolo-tendineo della spalla chiamato cuffia dei rotatori, questa struttura è rappresentata dai quattro muscoli che avvolgono la testa omerale come una vera e propria cuffia.

  • Sovraspinato: ha origine nella fossa sovraspinata e si inserisce sul trochite, innervato dal nervo sovrascapolare.
  • Sottospinato: ha origine nella fossa sottospinata e si inserisce sul trochite, innervato dal nervo sottoscapolare.
  • Sottoscapolare: (STSC) ha origine dal margine mediale della scapola e si inserisce sul trochite passando tra la scapola e il torace, innervato dal nervo sottoscapolare.
  • Piccolo Rotondo: ha origine nella parte inferiore e laterale della fossa sottospinata e si inserisce sul trochite, innervato dal nervo ascellare come il muscolo deltoide.

Oltre a questo gruppo muscolare, che si trova a stretto contatto con la testa omerale, altri gruppi partecipano al movimento biomeccanico dell’omero, uno di essi è rappresentato dal pivot della scapola

In particolare il dentato anteriore e il trapezio che accompagnano il movimento della scapola rispettivamente durante l’anteposizione attiva e l’abduzione attiva.

Un altro importante muscolo è il deltoide, questo muscolo crea una coppia di forze con la cuffia dei rotatori che risulta necessaria per l’abduzione dell’arto superiore contro resistenza.

Nella gleno-omerale, infatti, esiste un equilibrio supero-inferiore ed uno antero-posteriore, l’equilibrio supero-inferiore è dato dalla coppia di forze tra cuffia e deltoide, la cuffia centra e deprime la testa omerale, mentre il deltoide la eleva e la decoapta verso l’alto.

Se venisse a mancare tale equilibrio di forze, si avrebbe una maggior risalita o abbassamento della testa omerale a seconda di quale tirante risultasse deficitario, l’azione della cuffia dei rotatori è fondamentale per l’abduzione dell’arto.

Qualora, per ipotesi, si dovesse avere un’assenza completa della cuffia dei rotatori, sarebbe molto difficile abdurre attivamente l’arto, si riuscirebbe ugualmente ad anteporlo grazie alla sola azione del deltoide anteriore, ma per l’abduzione è necessario ed indispensabile l’intervento della cuffia.

Infatti, nell’esecuzione del movimento di abduzione si aggiunge obbligatoriamente la rotazione esterna per poter svincolare a 90° il trochite e permette il passaggio sotto l’arco coraco-acromiale.

Al contrario, se venisse a mancare il deltoide, ad esempio per una denervazione completa, l’abduzione sarebbe comunque possibile grazie all’azione della cuffia dei rotatori.

Naturalmente,però, non si riuscirebbe ad abdurre contro resistenze importanti.

La considerazione che si può trarre, a questo punto, è che in una spalla, sia essa sana o traumatizzata, è importante l’equilibrio delle forze supero-inferiori, ad esempio un allenamento esclusivo dei deltoidi, dimenticando i rotatori esterni ed interni, potrebbe a lungo termine determinare uno squilibrio con insorgenza del dolore.

Continueremo nel prossimo articolo.

Note

Bibliografia

  • Adalbert I. Kapandji, Anatomia funzionale ed.2011

L’aggressività dal punto di vista della psicologia clinica-dinamica

Gli studi psicologici clinico-dinamici sull’aggressività trattano l’argomento attraverso un atteggiamento ermeneutico e facendo uso dell’interpretazione.

In questo caso la tradizione è più portata ad indagare le cause interne-psicologiche che spingono all’azione biliosa che prescindono dal contesto.

In psicologia gli autori che hanno affrontato in modo più o meno approfondito l’aggressività sono tanti, questo sembra sia dovuto a due aspetti della tradizione psicologica di ricerca clinico-dinamica sull’aggressività:

  • Il primo aspetto è filosofico, dal momento in cui si ritiene l’aggressività innata e naturale e poi perché si ritiene che l’aggressività denoti al male (morale);
  • Il secondo, che giustifica tanto interesse, è interno alla psicologia dinamica.

Dal momento che l’aggressività ha assunto da subito valore di istinto-pulsione ed elemento costituente la personalità, ogni autore in questo campo, trattando di personalità o di aggressività, ha dovuto fare i conti con riferimenti meta-psicologici, allargando di conseguenza le varie argomentazioni e letteratura.


Sigmund Freud fu tra i primi ad occuparsi in modo articolato di questo argomento

Da subito egli la postula come dimensione pulsionale-motivazionale inconscia, orientata alla distruzione e contrapposta alla spinta generativo-conservatrice della libido.

Questo punto di partenza freudiano pone l’aggressività come un istinto connaturato nell’uomo, presente nella sua personalità e motivante, che obbligherà gli autori che si occuperanno di temperamento irruento a dover sempre fare i conti con la questione motivazione e con un relativo modello della mente.

Freud, in modo parziale, ipotizza che l’aggressività-distruttiva sia istintuale-originaria.

Che sia ovvero un comportamento reattivo, una risposta alla frustrazione, nel senso di un’incapacità dell’Io di mediare rispetto ai bisogni intersistemici della mente.

Il parere di Alfred Adler

Contemporaneamente a Freud, sul tema si espresse Alfred Adler, attraverso i suoi studi sull’Inferiorità d’Organo.

Egli sostiene che l’aggressività viene agita per compensare un sentimento di inferiorità sentito dalla persona.

Questo presuppone che l’aggressività sia l’effetto di un brutto rapporto con l’ambiente e che l’aggressività sia una strategia estrema dell’individuo, finalizzata alla realizzazione di se stesso.

In questo pensiero adleriano è fondamentale il sentimento di odio e rancore, che abbassa il sentimento sociale e relazionale, permettendo così l’agito aggressivo di rivendicazione rispetto ad un senso di inferiorità sentito.

Il parere di Anna Freud

Sempre nello stesso periodo un altro importante contributo arriva da Anna Freud, la quale individua un meccanismo di difesa dalle esperienze violente subite, che prende il nome di “l’Identificazione con l’Aggressore” è presente in modo evidente nel bambino che ha subito l’aggressività.

Ma è possibile anche nell’adulto ed individuabile nei comportamenti sociali (si pensi alla dinamica del capro espiatorio), attraverso l’identificazione con l’aggressore (difesa impregnata di paranoia) il soggetto si difende da un atto violento riproducendolo in forma simbolica (esempio, con il gioco nel caso del bambino), o attraverso l’agito, permettendo così una reiterazione del trauma subito, capace nel tempo di renderlo accettabile alla coscienza.

La figlia di Freud non introduce variazioni rispetto alle teorizzazioni paterne sull’aggressività, ma scopre un comportamento di difesa contro forme di aggressività vissute come esperienze traumatiche.

Note