Costituire srl con 1 euro di capitale sociale e senza costi notarili. Mi è capitato di dover chiamare diversi notai, ma solo dopo vari tentativi ho trovato un professionista disposto ad accogliere la richiesta.
Gli studi notarili non si sono organizzati a tal proposito, forse anche perché non introitano compensi da tale operazione.
Devo dire con sorpresa, che l’impreparazione su questa novità nel Diritto Societario è grande.
Nella stesura originaria di questa legge, era prevista la costituzione di queste società anche da parte dei Dottori Commercialisti, che spaventati da questo aggravio di lavoro, hanno declinato l’invito.
Ora, sappiamo che ci sono due novità fondamentali: 1 euro di capitale senza costi notarili
La possibilità per gli under 35 di costituire srl con 1 euro di capitale sociale e senza costi notarili (escluse imposta di registro di €. 168 e diritti camerali mediamente di €. 200), è di notevole utilità e offre numerosi vantaggi.
Si è scritto molto al riguardo, soprattutto sul fatto che le banche non valutano una società senza capitale (perché, quelle con capitale le valutano?).
Io penso che oggi una srl abbia molti vantaggi a partire dalla “responsabilità limitata” e per finire agli innumerevoli usi che se ne possono fare.
L’altra novità è una srl per gli over 35, sempre a capitale ridotto, ma che dovranno rassegnarsi a pagare il solito compenso al Notaio previsto per le società di capitali. Qua invece credo non abbiano semplificato un bel niente. Non c’è l’obbligo del versamento del capitale sociale.
Per le vecchie srl il capitale sociale minimo era 10.000 euro, conferendone in realtà 1/3, quindi circa 3.000, che in teoria possono essere versati (prestati da papà o da nonno), ritirare la ricevuta, e poi ritirarli immediatamente, il tutto nel giro di mezz’ora…o addirittura si può conferire il capitale in natura (beni mobili e immobili, e anche qui esiste una letteratura vastissima: bene mobile è anche una Lambretta).
Note
Scritto da Gianluca Fadda, Consulente e Dirigente d’Azienda e redattore di Nuova Isola dal 2009 al 2014
L’anatocismo (dal greco ἀνατοκισμός anatokismós, «usura») esprime un metodo di calcolo degli interessi per il quale gli interessi maturati secondo una certa periodicità, pattuita tra creditore e debitore, sono essi stessi produttivi di altri interessi, cioè sono sommati al capitale dato in prestito (capitalizzati) in modo tale da contribuire (insieme al capitale) a maturare altri interessi nei periodi successivi.
Questo metodo di calcolo favorisce il creditore a discapito del debitore.
Un esempio chiarirà meglio il concetto
Tasso d’interesse: 10%
Capitale iniziale: € 1.000,00
Periodicità di liquidazione degli interessi: trimestrale
Quando non c’è l’anatocismo si ha:
Interesse trimestrale = (1.000,00 x 3 x 10)/1200 = € 25,00
Quindi, ogni trimestre i 1.000 euro di capitale fruttano sempre € 25,00
Con l’anatocismo:
Interesse del primo trimestre = (1.000,00 x 3 x 10)/1200 = € 25,00
Interesse del secondo trimestre = [(1,000,00 + 25,00) x 3 x 10]/1200 = € 25,625
Interesse del terzo trimestre = [(1.025,00 + 25,625) x 3 x 10]/1200 = € 26,265625
e così via per gli altri trimestri…
Quindi, con l’anatocismo aumentano gli interessi da corrispondere al creditore.
Questo fenomeno dell’anatocismo era proprio quello che accadeva alle liquidazioni degli interessi sui conti correnti bancari.
Infatti, quasi tutte le Banche liquidavano gli interessi a debito del correntista con frequenza trimestrale, mentre liquidavano gli interessi a credito dello stesso solo con cadenza annuale.
Ciò provocava un disallineamento nella maturazione degli interessi ed il conseguente fenomeno dell’anatocismo, perché venivano calcolati interessi su interessi.
La storia dell’anatocismo bancario
Il divieto dell’anatocismo (bancario e non) è sempre esistito nel nostro ordinamento giuridico in virtù dell’art. 1283 del Codice Civile.
Tuttavia le Banche agivano legittimamente quando applicavano la sopraesposta metodologia di calcolo degli interessi sui conti correnti, perché tale comportamento consuetudinario era stato ampiamente avallato dalla giurisprudenza, almeno fino al momento in cui ha preso il via tutto il processo di revisione interpretativa delle norme riguardanti la fattispecie dell’anatocismo.
Processo di revisione culminato con la definitiva sentenza del 4 novembre 2004, n. 21095, delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella quale in sostanza si afferma l’illegittimità, anche per il passato, degli addebiti bancari per anatocismo.
Prima di questa sentenza c’era stato l’art. 25 del Decreto Legislativo n. 342/1999
Prima di questa famosa sentenza c’era stato comunque l’art. 25 del Decreto Legislativo n. 342/1999, comma 2, che, introducendo un nuovo comma all’art. 120 del D. Lgs. n. 385/1993 (Testo Unico Bancario), ha previsto la possibilità di stabilire, tramite un’apposita delibera del Cicr (Comitato Interministeriale per il Credito e Risparmio), le modalità ed i criteri di produzione degli interessi sugli interessi (anatocismo), maturati nell’esercizio dell’attività bancaria, purché fosse rispettata la stessa periodicità sia nel conteggio sui saldi passivi, sia su quelli attivi.
In sostanza, la volontà legislativa, trasfusa nel TUB, è nel senso della non illegittimità del comportamento delle Banche qualora queste provvedano a liquidare periodicamente non solo gli interessi maturati a loro favore, ma anche quelli a credito del correntista.
È sufficiente il riconoscimento di questa reciprocità di trattamento e quindi la contabilizzazione sul conto corrente di eventuali interessi a credito della clientela, per essere in regola con le norme legislative disciplinanti il complesso fenomeno dell’anatocismo.
Il sigillo ufficiale al suddetto nuovo corso in tema di calcolo degli interessi bancari è stato poi apposto dalla sentenza del Cicr emanata il 9 febbraio 2000, la quale ha definitivamente fissato il momento di decorrenza dell’obbligo, a carico delle Banche, di riconoscere ai correntisti pari periodicità nella liquidazione degli interessi.
Questo momento è venuto quindi a coincidere con la liquidazione del 30 giugno 2000 e vedremo quanto questa data sia di grandissima rilevanza ai fini del ricalcolo degli interessi anatocistici.
Aspetti pratici
Occupiamoci ora degli aspetti pratici che deve affrontare chi è costretto a quantificare l’importo degli interessi anatocistici, allo scopo valutare la convenienza o meno di un’eventuale richiesta di rimborso.
Importantissima è la determinazione del momento iniziale e finale del periodo incriminato (per il quale vanno fatti i calcoli).
Il momento finale è necessariamente quello sopra indicato della liquidazione di giugno 2000, perché da tale mese le Banche si sono adeguate alla normativa anti-anatocistica e pertanto da allora gli interessi maturati sui conti correnti sono per definizione legittimi.
Di conseguenza qualsiasi ricalcolo degli interessi sugli interessi deve fermarsi agli interessi liquidati a marzo 2000, in quanto questi sono da considerarsi gli ultimi interessi anatocistici prodotti dal sistema bancario italiano.
Tutto quello che è successo sul conto corrente dopo il 31 marzo 2000 è completamente irrilevante ai fini dell’anatocismo ed il periodo successivo (fino ad oggi ovvero fino all’estinzione del conto) è da prendere in considerazione solo per la normale rivalutazione (in base ai tassi d’interesse) delle somme dovute risultanti dai nuovi conteggi effettuati.
Quanto detto comporta la necessaria conseguenza che i conti correnti aperti successivamente al 31 marzo 2000 sono completamente al di fuori della tematica anatocistica e pertanto nulla può essere reclamato alle Banche dai loro titolari.
Più controversa è la determinazione del momento iniziale da prendere in considerazione per rifare i calcoli computistici dell’interesse sui conti correnti
Premettendo che il termine di prescrizione per richiedere eventuali somme pagate in più è quello ordinario di 10 anni, la domanda che dobbiamo porci è da quando partono questi 10 anni, in modo da risalire al momento iniziale del periodo che stiamo cercando.
Qui sussistono due atteggiamenti giurisprudenziali decisamente diversi.
Da una parte, alcune sentenze sottolineano la rilevanza giuridica dei singoli atti di addebito periodico degli interessi e quindi la prescrizione decennale riguarderà i 10 anni antecedenti la data di presentazione della domanda giudiziale di rimborso degli interessi anatocistici.
Ciò comporta, per esempio, che una domanda giudiziale di rimborso presentata nel 2005 dovrà riguardare solo i 10 anni antecedenti e pertanto non potrà andare oltre il 1995.
Siccome il momento finale del nostro nuovo calcolo degli interessi è stato sopra identificato con marzo 2000, sarà possibile contestare gli interessi maturati sul conto corrente solo per il periodo che va dal 1995 al 2000 (marzo).
Da un’altra parte, alcune sentenze dei Tribunali italiani evidenziano invece il carattere unitario del conto corrente, e non i singoli movimenti di addebito degli interessi
Questo atteggiamento ha effetti più radicali perché porta ad identificare la data da cui parte la prescrizione decennale con l’estinzione del conto corrente (quindi la data iniziale del periodo sarebbe quella calcolata andando 10 anni indietro rispetto al giorno d’estinzione del rapporto).
Per esempio un conto corrente chiuso in febbraio 2003 avrebbe un periodo incriminato che andrebbe da febbraio 1993 a (sempre) marzo 2000.
Inoltre, per effetto di questa interpretazione giurisprudenziale potrebbe verificarsi la fattispecie, di non poco rilevo, che per i conti correnti ancora in essere, non avendo essi un termine di decorrenza della prescrizione, si potrebbe richiedere il rimborso degli interessi pagati in più (per effetto dell’anatocismo) addirittura dalla loro costituzione, anche se questa risale alla notte dei tempi.
Per esempio un conto corrente aperto nel 1974 ed ancora in essere presso l’Istituto di credito, darebbe diritto a richiedere il rimborso degli interessi anatocistici per il periodo 1974 – marzo 2000 (sempre questo).
Tuttavia ci sembra agevole dimostrare come questa seconda interpretazione dei giudici italiani sia nella pratica facilmente riconducibile alla prima
Tuttavia ci sembra agevole dimostrare come questa seconda interpretazione dei giudici italiani sia nella pratica facilmente riconducibile alla prima, cioè a quella che vuole la prescrizione decennale decorrere dalla data di presentazione della domanda giudiziale di rimborso, la quale tesi ci appare dunque l’unica soluzione materialmente percorribile.
Il motivo di questa conclusione è oggettivamente indiscutibile, checché ne dica parte della giurisprudenza e anche della dottrina: ad una domanda di rimborso che richiedesse la restituzione di interessi su interessi per un periodo superiore ai 10 anni antecedenti la data odierna, le Banche risponderebbero semplicemente che, non avendo più a disposizione la documentazione relativa al periodo eccedente i 10 anni passati, non sarebbero in grado di fornire alcun dato, né di effettuare nessun tipo di conteggio.
Infatti, le Banche, come tutte le altre Aziende, sono, per disposizione del codice civile, tenute a conservare tutta la documentazione delle operazioni effettuate “solo” per 10 anni, avendo poi la facoltà di stracciare tutto questo materiale di archivio.
Quindi, tranne il caso puramente ipotetico del correntista che abbia conservato con cura per l’intero periodo tutti (nessuno escluso) gli estratti conto ed i conti scalari (questi ultimi sono i documenti da cui risultano tassi e condizioni), il ricalcolo degli interessi, per periodi maggiori di quello che parte da 10 anni fa ed arriva sempre a marzo 2000, è praticamente impossibile.
Conclusioni
Per concludere accenniamo alla questione della Commissione di Massimo Scoperto (CMS), che è quella spesa che gli Istituti di credito fanno pagare sul massimo scoperto di conto del periodo interessato.
Su questo aspetto c’è da dire che nessuna norma si è finora interessata della questione, avendo la legislazione anatocistica sempre riguardato l’illegittimità dei soli interessi e non delle spese.
È anche vero che modificandosi gli uni (gli interessi), si modifica (in peggio) anche l’altra (la CMS).
Tuttavia il calcolo della nuova commissione (sui nuovi saldi) è di estrema difficoltà e la sua domanda di rimborso non avrebbe allo stato, secondo alcuni, nessun fondamento normativo di giustificazione.
Ci limitiamo pertanto a dire che, nel silenzio legislativo e giurisprudenziale, ogni conclusione in merito è giusta e sbagliata al tempo stesso.
In questa scheda vengono sinteticamente evidenziate le differenze tra l’attività autonoma e quella d’impresa nella sua duplice versione, individuale e societaria.
Il lavoro autonomo: Il lavoratore autonomo, così come descritto nel Codice Civile, è colui che compie, dietro corrispettivo, un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente.
Le forme di società in cui svolgere un’attività autonoma sono:
Esercizio di arti e professioni,
Collaborazione coordinata e continuativa,
Prestazione occasionale.
Si considera artista o professionista chi svolge un’arte o una professione non come dipendente, ma comunque con carattere di abitualità.
Distinguiamo ancora tra professioni protette, per l’esercizio delle quali è richiesta l’iscrizione preventiva in albi, ordini, elenchi (si pensi all’avvocato, all’architetto, al commercialista…), subordinata di norma al superamento di un esame di stato, e professioni libere per le quali non è richiesta alcuna iscrizione (artisti, consulenti, ecc.).
Dal punto di vista fiscale e previdenziale occorre sapere:
Aprire partita IVA;
Iscriversi all’INPS, o ad altre casse specifiche per le professioni protette,
Versarvi i contributi previdenziali;
Tenere una regolare contabilità
Dichiarare i redditi percepiti.
La seconda forma del lavoro autonomo è rappresentata dalla collaborazione coordinata e continuativa, un’attività lavorativa prestata senza vincolo di subordinazione, ma comunque in modo continuativo.
A differenza del lavoro dipendente in questo caso non si viene assunti dal datore di lavoro, ma si presta la propria opera secondo quanto concordato con il committente. Attualmente questa forma è sostituita dal Contratto a progetto.
Dal punto di vista fiscale e previdenziale:
Non è necessaria l’apertura della partita IVA;
Viene trattenuta direttamente dal committente una ritenuta d’acconto ai fini IRPEF pari al 20% dei compensi;
È necessaria l’iscrizione all’INPS e il versamento ai fini previdenziali (attualmente, l’aliquota per chi non è già iscritto all’INPS o ad altre casse è del 12%, di cui 1/3 a carico del lavoratore e 2/3 a carico del datore di lavoro);
Deve essere presentata la dichiarazione dei redditi.
Prestazione occasionale
Se invece la prestazione di lavoro è un fatto occasionale, non ripetitivo (es. la distribuzione occasionale di volantini pubblicitari) allora si effettua una prestazione occasionale.
Questa situazione non richiede l’apertura della partita IVA.
È assoggettata alla ritenuta d’acconto del 20%, non richiede iscrizioni o versamenti previdenziali, ma esiste comunque l’obbligo di dichiarazione dei redditi.
L’art. 2082 del Codice Civile definisce imprenditore è colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi.
Perché si possa parlare di impresa l’imprenditore deve operare sul mercato
Perché si possa parlare di impresa deve, innanzitutto, esserci un’attività economica, ovvero l’imprenditore deve operare sul mercato (ad esempio è imprenditore agricolo chi coltiva il terreno e vende i prodotti che ottiene al mercato, mentre non lo è chi produce solamente per il suo consumo).
Poi necessario che l’attività sia svolta in maniera professionale, cioè in modo abituale o periodico (come, ad esempio, il lavoro di un negoziante, ma anche del gestore uno stabilimento balneare).
Ultimo requisito è l’organizzazione, ovvero la gestione coordinata delle risorse umane, tecniche e finanziarie da parte dell’imprenditore. Esistono diverse forme giuridiche di impresa previste dal codice civile.
Distinguiamo la forma dell’impresa individuale dalle altre forme di società
Distinguiamo innanzitutto la forma dell’impresa individuale (in cui l’imprenditore è uno solo), dalle forme societarie (in cui più persone si uniscono per esercitare insieme l’attività di impresa).
L’impresa individuale fa capo ad una sola persona, che è l’unica responsabile della sua gestione (ad esempio un idraulico, un elettricista, una parrucchiera).
Per lo svolgimento dell’attività l’impresa individuale può avvalersi di dipendenti e/o collaboratori.
Se il titolare gestisce l’attività con la collaborazione dei propri familiari (coadiuvanti) può dar vita ad una impresa familiare.
In questo caso al titolare spetta almeno il 51% dell’utile, mentre il coadiuvante ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e alla divisione degli utili in rapporto al lavoro prestato.
Dal punto di vista fiscale e previdenziale occorre:
Richiedere eventuali licenze o autorizzazioni amministrative, sanitarie, ecc.;
Aprire una posizione IVA;
Iscriversi al Registro delle Imprese presso la Camera di Commercio;
Iscriversi all’INPS ed eventualmente all’INAIL.
Se, invece, due o più persone si accordano per gestire insieme un’attività economica, formano una società la cui costituzione deve avvenire per atto pubblico (ovvero davanti a notaio).
La costituzione di una società offre agli imprenditori il vantaggio di poter unire le forze
La costituzione di una società offre agli imprenditori il vantaggio di poter unire le forze (soprattutto economiche) per la realizzazione dell’attività nonché un minor rischio personale. Le società si dividono in società di persone e società di capitali.
In particolare la prima, in cui la figura dei soci è più importante del capitale da essi conferito, non hanno personalità giuridica, non sono, cioè soggetti giuridici distinti dalle persone dei soci i quali hanno, di norma, una responsabilità illimitata e solidale di fronte a eventuali problemi della società.
Le società di persone sono:
La società semplice (la tipologia più diffusa in agricoltura)
La società in nome collettivo (dove, semplificando, tutti i soci esercitano l’attività imprenditoriale)
La società in accomandita semplice (in cui alcuni soci esercitano l’attività altri sono apportatori di capitale).
È la società di capitali e non il singolo socio a essere titolare dei diritti e degli obblighi dello svolgimento dell’attività d’impresa.
Le società di capitali hanno personalità giuridica ed è quindi, la società e non il singolo socio, a essere titolare dei diritti e degli obblighi che nascono dallo svolgimento dell’attività d’impresa.
Le società di capitali sono:
La società a responsabilità limitata (la forma più piccola di società di capitali, dove i soci esercitano l’attività ma l’amministrazione può essere affidata anche a non soci);
La società per azioni (forma giuridica idonea per le imprese che presentano un tasso di rischio ed un volume di investimenti piuttosto elevati).
Un cenno a parte è necessario per le società cooperative che sono società che esercitano attività d’impresa perseguendo uno scopo mutualistico.
Tale scopo si traduce, in concreto, nel fornire beni e servizi o occasioni di lavoro direttamente ai soci a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero sul mercato.
Questo tipo di società infine richiede un numero minimo di soci pari a 9 (ad eccezione della piccola società cooperativa il cui numero di soci può variare da un minimo di 3 ad un massimo di 8).
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