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COPERTINA il diritto di vivere con una famiglia

Jorge, Juan e Carlos | Il diritto di VIVERE con una FAMIGLIA

Il caso dei fratelli Jorge, Juan e Carlos è un’ulteriore prova della forza della missione di SOS Villaggi dei Bambini.

Dopo essere stati abbandonati e rimasti separati per due anni, i fratelli hanno potuto ricongiungersi assieme nel 2000, accolti da una Mamma SOS.

Dopo essere stati abbandonati dalla loro famiglia biologica, la sorte di tre fratellini divenne incerta quando furono ospitati in diverse strutture nel 2005.

Mentre Juan e Carlo furono portati nello Stato di Hidalgo, Jorge rimase da solo a Città del Messico.

Adam Jones, Street Scene with Women Pedestrians (Ocosingo-Chiapas, Mexico 2021)

La buona sorte arrivò nella loro vita con il coinvolgimento di SOS Villaggi dei Bambini

La buona sorte arrivò nella loro vita con il coinvolgimento di SOS Villaggi dei Bambini, che prese a cuore la situazione e fece in modo di accoglierli tutti assieme nella stessa casa, per legare nuovamente la loro fratellanza.

Jorge, Carlos e Juan furono accolti con una grande festa al Villaggio SOS di Città del Messico il 22 giugno 2007, quando avevano rispettivamente otto, sette e cinque anni.

Adesso vivono tutti assieme da oltre un anno.

Jorge, Juan e Carlos provenivano originariamente dalla Città di Iguala nello Stato Guerrero, situato nel Messico sud-orientale.

Nel dicembre del 2005 furono abbandonati dalla loro madre e da allora avevano vissuto separati in strutture statali, senza l’opportunità di mantenere alcun contatto fra di loro.

Jorge ne risentì maggiormente: era malato di diabete e piangeva spesso perché voleva tanto riabbracciare i suoi fratellini.

Juan e Carlos riuscirono a riunirsi per primi nel gennaio del 2006, in un rifugio a Hidalgo

La speranza sfiorò le loro vite quando il personale di ambedue i rifugi venne a conoscenza della loro storia e capirono che non era giusto farli vivere lontani.

Riunire i tre fratelli era la cosa migliore da fare.

Organizzare il loro ricongiungimento non è stata cosa semplice

Jorge era entusiasta dell’idea, ma Carlo dopo tutto quel tempo lontano dai fratelli credeva che non gli volessero più bene. Juan, il più piccolo, non si ricordava nemmeno dei suoi fratelli più grandi.

Dopo alcuni mesi standogli vicino e aiutandoli a comprendere la situazione, il loro rapporto cominciò a tornare quello di una volta ed oggi i 3 bambini giocano tutti assieme nello stesso giardino.

Seattle City Council, CDSA preschool photos

Il modello di accoglienza familiare SOS ha dato a loro maggiore sicurezza, grazie alla certezza di sapere che adesso nessuno li lascerà di nuovo soli.

Sanno che un giorno cresceranno e potranno diventare degli adulti autonomi, con un loro lavoro ed una loro casa.

Il direttore del Villaggio SOS, Carlos Toriz, dice:

Pensiamo che i bambini abbandonati possano riuscire più facilmente ad allontanarsi dalla paura se mantengono i contatti con i propri fratelli, soprattutto crescendo all’interno di un ambiente domestico ed amorevole. Prima che fossero accolti al Villaggio SOS, Juan, Jorge e Carlos non avevano alcuna speranza di potersi rivedere e tornare a vivere in un contesto familiare..

Carlos Toriz, direttore villaggio SOS bambini

La vita dei 3 fratelli è stata trasformata positivamente sotto tutti i punti di vista

Ora Juan frequenta l’asilo e la sua insegnante dice che è un bimbo molto sorridente e gioioso, benché talvolta richieda molte attenzioni.

È un bambino pieno di vita, affettuoso, tenero e birichino

Gli piace molto giocare con i suoi fratelli.

Carlos frequenta la seconda elementare, ma ha qualche problema di linguaggio ed apprendimento a causa dei traumi dell’abbandono.

Nel Villaggio SOS frequenta dei corsi di linguaggio e terapia, che lo stanno aiutando a superare i suoi problemi.

Benché il suo progresso sia lento, Carlos fa del suo meglio per prendere buoni voti a scuola ed è stato congratulato dalle maestre per il suo impegno.

È un bambino timido e sensibile, ma gli piace giocare e parlare con i suoi fratelli

Per Carlos è stato difficile adattarsi al contatto fraterno, poiché era rimasto molto tempo in un rifugio da solo e non riusciva a sentirsi parte della famiglia.

Per questa ragione, la sua Mamma SOS gli è stata molto vicino, per dimostrargli che ora non deve più avere paura e tutti i membri del Villaggio SOS gli staranno vicini.

Jorge frequenta la terza elementare, gli piacciono i dinosauri e sogna di diventare archeologo un qualche giorno in futuro.

La sua crescita è minacciata dalla sua malattia: il diabete

È molto pesante da sopportare e deve sottostare a cure a base di insulina, che alterano il suo carattere e l’umore.

Per Jorge è molto difficile convivere con il diabete, poiché ama le caramelle e adesso deve seguire una rigida dieta per mantenere i giusti livelli di glucosio.

Benché talvolta si senta frustrato, Jorge sa che la sua famiglia lo ama e lo sostiene.

Il riavvicinamento dei 3 fratelli ha permesso la guarigione delle ferite emotive causate dalla lontananza dalla famiglia.

Benché ognuno abbia la sua peculiare e talvolta molto diversa personalità, vi è qualcosa che condividono: il desiderio di stare insieme in un luogo dove c’è amore e rispetto per loro.

Note

  • Tratto da SOS villaggi dei bambini
  • Foto di copertina File (Wikimedia Commons)
  • Grafica copertina ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Similitudini fra la PASSIONE per i GIOCHI gladiatori e il CALCIO

Schiere di tifosi osannanti scandiscono i nomi degli uomini in campo per l’evento sportivo dell’anno, ad assistervi in tribuna d’onore ci sono i pezzi grossi della politica e dell’economia, ma non è una finale di Champions league, è la fotografia di uno spettacolo di gladiatori al Colosseo più o meno duemila anni fa.

Allora come oggi gli spettacoli sportivi appassionavano migliaia di cittadini, tanto che i potenti presero ad approfittarne.

Nacque così il meccanismo del consenso che l’autore satirico Giovenale (1° secolo d.C) definì panem et circenses: si organizzavano pubbliche attività ludiche per ingraziarsi il popolo e distogliere l’attenzione dei cittadini dalla vita politica in modo da lasciarla in mano alle élite.

Suona moderno anche questo, vero?

Ma vediamo come divennero popolari i giochi gladiatori.

In origine erano riti funerari. La traccia più antica di giochi gladiatori è stata trovata in alcune tombe di Paestum del IV secolo a.C. ed allora gli spargimenti di sangue avevano un significato simbolico legato al culto dei morti, si chiamavano infatti munera, cioè dovere, dono.

A poco a poco, però, i combattimenti acquistarono una popolarità tale da vivere di vita propria, la gente aveva scoperto la passione per i giochi e, come accade oggi, i politici non tardarono a rendersene conto.

Ma potremmo chiederci cosa c’entri la politica

I giochi gladiatori diventarono uno strumento attraverso il quale i magistrati, ed in seguito ancora di più l’imperatore, si facevano pubblicità.

Divennero talmente importanti che la legge stabilí che un magistrato, una volta eletto, avesse l’obbligo di allestire un gioco gladiatorio o di costruire un edificio pubblico.

Quasi tutti sceglievano i giochi, garantivano il maggior consenso popolare.

Il popolo inneggiava sui muri i propri eroi

La popolarità dei gladiatori è testimoniata per esempio dai graffiti di Pompei, che ci danno un quadro della vita quotidiana più fedele delle fonti storiche, se gli intellettuali dell’epoca guardavano i gladiatori con una certa puzza sotto il naso (allo stesso modo oggi alcuni intellettuali guardano con sufficienza al mondo del calcio) il popolo al contrario li idolatrava.

Il popolo inneggiava sui muri i propri eroi, che spesso avevano soprannomi evocativi: Ferox (Feroce), Leo (Leone), Tigris (Tigre), Aureolus (Ragazzo d’oro) ecc…

Forse Aureolus era il Maradona dell’epoca, le analogie con il mondo del calcio sono molto più numerose di quanto si immagini, due gladiatori potevano scontrarsi tra loro solo se appartenevano alla stessa “classe“, un po’ come oggi una squadra di serie A non può giocare con una di serie B.


I gladiatori vivevano e si allenavano molto duramente

In luoghi preposti, i ludi, spesso gli allenatori erano i rudiarii, ex gladiatori che, esaurito il vigore della gioventù, si convertivano in “mister“, e a gestire i ludi erano i lanisti, sorta di impresari che selezionavano gli schiavi più promettenti, li addestravano, li sottoponevano a diete particolari per rinforzare i muscoli e poi li affittavano, a prezzi esorbitanti, ai grandi personaggi politici dell’epoca o a privati che volevano ingraziarsi il popolo.

Il giro d’affari era paragonabile a quello del calcio di oggi, e come oggi c’erano le scommesse, non sono giunte prove di gare truccate,ma si sa che prima dei combattimenti c’era sempre una probatio armorum, la “prova delle armi“.

Un rito attraverso il quale i gladiatori dimostravano che le loro spade erano adeguatamente affilate, evidentemente il popolo voleva essere sicuro di non essere imbrogliato.

A spendere più di tutti erano gli editores, le figure che affittavano i gladiatori, cioè che mettevano i soldi, un po’ come gli attuali presidenti delle squadre di calcio, le cifre che giravano erano talmente alte che l’imperatore Marco Aurelio (II secolo d.C.) fu costretto a calmierare i prezzi.

Se volessimo prendere esempio dagli antichi romani, non avremmo solo Marco Aurelio a cui ispirarci, Cicerone riferisce della Lex Tullia de ambitu, una legge approvata sotto il suo consolato, nel 63 a.C., che impediva ai personaggi pubblici di finanziare giochi gladiatori nei due anni che precedevano le elezioni.

I Romani erano ben consapevoli di quanto i giochi conferissero popolarità a chi li sponsorizzava, lo sapeva bene l’imperatore Augusto, che per controllarli meglio rese obbligatorio ottenere l’autorizzazione preventiva del senato, e lo sapeva Nerone che, dimostrando fiuto politico, divenne amico di molti famosi gladiatori.

I gladiatori non erano solo degli schiavi

I gladiatori non erano solo degli schiavi. I lanisti gli reclutavano e gli obbligavano a seguire regimi alimentari rigorosi e a sostenere allenamenti intensi, ma se in campo si comportavano bene, ottenevano fama e gloria e molti soldi .

Ben presto gli editores presero a pagare profumatamente i vincitori dei combattimenti più importanti, dando loro l’occasione di un riscatto sociale, molti riuscirono a comprarsi la libertà e addirittura a diventare ricchi.

Per non parlare del successo con l’altro sesso, come i calciatori di oggi, anche i gladiatori erano nel mirino delle donne più belle dell’epoca.

Il poeta satirico Giovenale ironizzò sulla vicenda di una certa Eppia, che abbandonò casa e famiglia per seguire il gladiatore Sergio, che aveva anche un aspetto ributtante, sfregiato, con un enorme porro in mezzo al naso ed un occhio perennemente gocciolante.

Un graffito di Pompei inneggia poi al thraex Celado, che faceva sospirare le fanciulle, i gladiatori erano così noti che andavano in giro in turnèe (potrei dire in trasferta) per tutto l’impero, a Benevento un’ iscrizione funeraria ricorda un gladiatore “straniero“ giunto addirittura da Colonia, in Germania.

Fu per tutti questi vantaggi che anche uomini liberi presero la decisione di diventare gladiatori ,la fama, i soldi e le donne facevano gola a molti, così gli svantaggi passavano in secondo piano.

Chi sceglieva di diventare gladiatore rinunciava ad alcuni privilegi, al diritto di voto per esempio e alla possibilità di intraprendere un carriera politica, i gladiatori, come del resto gli attori e i personaggi di spettacolo, erano considerati cittadini di serie B.

Un’ambivalenza difficile da capire per noi

Anche se erano gli idoli delle folle, erano poco apprezzati dalla classe dirigente, poiché il mestiere di esibirsi difronte a un pubblico era ritenuto poco nobile, per non dire degradante.

Uno svantaggio che si crede impropriamente che avessero i gladiatori è un elemento tutt’altro che trascurabile, il rischio di morire, ma non così tanto come si pensa o come ci hanno fatto credere nei film, a nessuno conveniva che morissero, né al lanista, che aveva investito tempo e risorse su di loro, né tanto meno all’editor, che era tenuto a risarcire cifre esorbitanti al lanista in caso di morte del gladiatore.

A Pompei, per esempio, in ciascuno dei 32 combattimenti documentati dai graffiti, furono coinvolte 20 coppie di gladiatori, dalla lettera scritta accanto ai loro nomi (M per missus, cioè graziato, V per vicit, vinse, e O barrata per i morti) è stato appurato che i morti furono in tutto tre.

Di solito a morire erano i più pusillanimi o i più scorretti, la cui uccisione veniva invocata a furor di popolo.

Sant’Agostino denunciava l’inumana voluttà che travolgeva chi assisteva a questi spettacoli di morte, l’abbrutimento morale di chi si faceva inebriare dagli spargimenti di sangue, la sua visione era  condizionata dalle persecuzioni contro i cristiani.

Le persecuzioni ebbero il loro culmine nelle arene nel lV- V secolo a Roma, l’immagine che esce dagli studi storici, specie in centri minori come Pompei, è però diversa, la gente non era assetata di sangue,né amava lo spettacolo della morte in sé.

L’affermarsi del cristianesimo soppresse i giochi

Generalmente quello che il popolo voleva vedere erano buoni combattimenti, con gladiatori abili, coraggiosi e rispettosi delle regole, che erano rigidissime e ben codificate, né più né meno che i tifosi di oggi che si incontrano al bar dello sport, possiamo immaginare che gli spettatori di allora amassero discutere tra loro delle prove dei loro beniamini.

L’affermarsi del cristianesimo soppresse i giochi fra il lV e il V secolo, che ne denunciò (anche in quanto manifestazione del mondo pagano) la violenza.

Al tramonto dei giochi contribuirono anche la decadenza delle arene che li ospitavano e di Roma stessa.

Da allora in poi in Europa non ci fu più un fenomeno sociale paragonabile ai giochi dei gladiatori, almeno sino al successo del calcio dei nostri tempi.

Note


VIVERE DA GLADIATORE: La selezione, l’allenamento, la carriera

Premessa


Prima di parlare dell’oggetto di questo articolo, vorrei ricordare alcuni gladiatori famosi nella storia:

  • BATO: gladiatore di valore, si rese antipatico a Caracalla, Dione Cassio riferì che l’imperatore lo fece combattere contro tre uomini uno dopo l’altro e gli negò la grazia, fu però seppellito con tutti gli onori;
  • COLUMBUS: originario di Nemausus (odierna Nimes, Francia) vestì l’armatura del mirmillone, ebbe un curriculum di 88 vittorie. Anche lui si inimicò il potente di turno, Caligola, che lo fece uccidere versando sulle sue ferite un composto tossico chiamato poi columinum;
  • LUCILIO DI ISERNIA: definito “uomo sanguinario“ , fu uno dei gladiatori sanniti più famosi, operò intorno alla metà del l° secolo a.C. nella scuola gladiatoria di Capua dove a fine carriera divenne addestratore. Tra i suoi allievi potrebbe esserci stato lo stesso Spartacus;
  • ASTACIUS: reziario, si meritò questo soprannome (letteralmente “gambero”) per la sua tecnica fatta di affondi e veloci arretramenti. Il Mosaico del gladiatore alla galleria Borghese di Roma lo raffigura mentre finisce il suo avversario con una pugnalata;
  • CARPOPHORUS: di questo gladiatore nordico Marziale si disse che proveniva da “una città del polo artico“. La sua specialità erano le belve, nei giochi per l’inaugurazione del Colosseo (80 d.C.) uccise 20 fiere e fu perciò esaltato come emulo dell’eroe mitologico Ercole;
  • CELADUS: un trace, non inteso come provenienza ma nel senso che indossò quel tipo di equipaggiamento gladiatorio. Scritte a Pompei parlano di lui, ma non per i suoi meriti di combattente, è infatti definito “ sospiro delle fanciulle “.

Una biografia a parte tratterò poi per Spartaco, il gladiatore ribelle.

Ma andiamo ad analizzare le diverse specialità, alcune meno pericolose

Come il lusorius, per esempio, combatteva con armi smussate nelle prolusioni.

Dentro le mura della caserma la vita cominciava all’alba. Voci rudi intimavano la sveglia, iniziava l’ennesima giornata di duro allenamento. Con un piccolo fuori programma, un una nuova recluta pronunciava il suo giuramento, un voto speciale e sinistro, che lo impegna a farsi “bruciare, legare, bastonare, uccidere“. Perché questa non è la Legione straniera e neanche una pur severa caserma di legionari romani.

Siamo in un ludus, uno degli oltre cento sorti in ogni provincia dell’impero romano. Palestre-prigioni che i gladiatori chiamavano casa e dove si imparava a combattere e a morire in nome dell’unico tiranno che gli imperatori stessi devono corteggiare : Il Pubblico.

Si sa che i primi combattimenti (munera) del lV-lll secolo a. C. erano cerimonie funebri, ma sappiamo anche che già nella tarda età repubblicana (l secolo a.C.) questi giochi si trasformarono in spettacolo per controllare le masse e l’aspetto sacrale restò come semplice pretesto.

Giulio Cesare, un maestro di propaganda, si inventò di celebrare grandi giochi per la morte del padre a ben 24 anni dalla sua scomparsa

Federica Guidi, archeologa

All’inizio i condannati a combattere con il gladio (una sorta di spada corta, da cui il termine gladiatore), erano spesso prigionieri di guerra (ed ecco spiegate le classi gladiatorie, che facevano riferimento ai popoli vinti dai romani).

Il loro armamento e i loro nomi, erano differenziati in base ai popoli di appartenenza dei prigionieri-combattenti (il gallo, il sannita, il trace e così via).

Augusto, imperatore che non amava i giochi, riorganizzò queste categorie con nomi che oggi definiremo “politicamente corretti“, ovvero che non offendessero ex avversari divenuti ormai, a secoli di distanza, cittadini dell’Impero. Con questa riforma, per esempio, il gallo diventò il mirmillone.

Con l’età imperiale ci fu anche un’altra innovazione, e quella di gladiatore divenne una professione e non più solo una condanna

Nell’arena presero a scendere anche uomini liberi, i cosiddetti auctorati, che si vendevano alle scuole con un apposito contratto stipulato con il Lanista, una sorta di impresario-manager delle scuole gladiatorie. Questi individui lo facevano per pagare i debiti, o comunque con il miraggio dei soldi.

Combattere nell’arena dava denaro e fama, che controbilanciavano la condanna sociale di questa professione. Diventando gladiatori si rinunciava infatti al proprio pudor, alla dignità civile, cosa gravissima agli occhi di un romano

Federica Guidi, archeologa

I giochi erano seguitissimi, ma disdicevoli, persino un lanista, a dispetto dei lauti stipendi, veniva escluso dalle cariche pubbliche, per il combattente ucciso c’erano di norma le fosse comuni, dove finivano anche ballerine e prostitute, eppure il fascino di questa figura restava indiscutibile, nel l secolo d.C. la febbre dell’arena spinse a combattere senatori, aristocratici, donne e persino alcuni imperatori.

Ma torniamo ai luoghi dell’addestramento, i ludi di proprietà imperiale o privati, a Roma il più celebre era il Ludus magnus, i cui resti sono ancora visibili non lontano dal Colosseo.

Grandi o piccole, queste strutture si somigliavano tutte: pianta quadrata o rettangolare, cubicoli per alloggi, magazzini per le armi, a volte prigioni (per gli “ospiti “ che non erano lì per scelta) e soprattutto un’ampia corte per le esercitazioni, a volte dotata di una piccola arena in cui l’ editor che finanziava i giochi poteva “testare“ in anteprima i suoi campioni.

Nel ludus si entrava come novicii, cioè principianti, e l’occhio esperto del lanista individuava subito in base alla conformazione fisica la specialità in cui inquadrare la nuova recluta, e così un uomo magro e scattante sarebbe potuto diventare un buon reziario, mentre uno massiccio e robusto andava bene per categorie armate più pesantemente, come l’oplomaco o il mirmillone.

L’ars gladiatoria seguiva regole precise che prevedevano scontri fra coppie bilanciate in base all’armamento, il combattimento avveniva ad digitum (cioè come ritengono in molti, finché uno dei contendenti alzava il dito in segno di resa), quasi mai all’ultimo sangue (sine missione).

Inoltre il lanista opponeva sempre gladiatori di pari esperienza, così il combattimento durava più a lungo. Se nessuno dei due prevaleva sull’altro, l’arbitro poteva sospendere l’incontro, far bere i duellanti e farli ricominciare.

Se uno dei due veniva ferito e cadeva a terra e chiedeva la resa alzando un dito

A quel punto l’editor decideva il destino dello sconfitto. Poteva farlo da solo o chiedere il parere del pubblico che gridava iugula (sgozza) o missum (lascialo andare)

Il pubblico e l’ editor rispondevano a loro volta con il dito alla richiesta di grazia, nei testi latini il gesto per ordinare la morte è indicato come il pollice o pollicem vertere, ma il significato è motivo di dibattito ancora oggi.

Pollicem premere voleva invece dire “sia risparmiato“, molti studiosi ritengono che la grazia venisse espressa con il pollice chiuso nel pugno, a mimare il gesto della spada che viene rinfoderata e la condanna con il pollice all’insù, l’idea che fosse rivolto all’ingiù si diffuse nell’ Ottocento, nei dipinti che rievocavano i duelli nel Colosseo.

Anche l’esercito romano fece ricorso ai gladiatori, giovani ben addestrati utili a sostenere le file dei militari

Nel 105 a.C. per esempio il console Publio Rutilio chiamò dei Maestri d’armi da Capua per insegnare ai propri soldati l’arte della scherma, mentre Vitellio nel 69 d.C. riunì una schiera di gladiatori per far fronte alle legioni del rivale Vespasiano, del resto anche il suo predecessore Otone aveva arruolato nell’esercito romano addirittura duemila gladiatori, come ricorda Tacito nelle sue Historiae .

Stessa cosa fece Marco Aurelio sul finire del ll secolo, rinforzando con alcuni gladiatori le file dell’esercito decimato dalle guerre contro le tribù germaniche.

Non mancarono casi opposti, soldati che confidando nelle doti guerresche apprese in battaglia, cercavano gloria e denaro nelle arene

Quest’ultima a pratica si diffuse talmente tanto che fu necessario emanare una legge, nel 357 d.C., che proibiva ai lanisti di stipulare contratti con i soldati per non indebolire i ranghi delle legioni.

Ai diversi tipi di gladiatori corrispondevano tecniche specifiche e per ciascuna di esse c’era un doctor, da non confondere con il medicus (che ovviamente in caserma non mancava) , il doctor era il Maestro d’ armi, spesso un ex gladiatore a riposo, insieme ad altri personaggi minori, per esempio gli unctores, i massaggiatori, ma anche contabili e guardie di sicurezza per impedire fughe o suicidi tra i gladiatori “forzati“.

Questo variegato team di atleti e personale costituiva la familia gladiatoria in cui il novicius faceva il suo ingresso

Dell’addestramento in sé si sa poco, tra gli strumenti quotidiani c’era la rudis, un gladio di legno concesso simbolicamente a fine carriera, diventava anche una sorta di salvacondotto per cessare l’attività. Con la rudis ci si allenava a coppie, ma spesso anche contro fantocci legati al palo, da cui il titolo di primus palus concesso al gladiatore più abile della scuola.

Terminata la preparazione di base l’aspirante diventava un tiro (recluta, da cui il termine tirocinio), ma era solo dopo il primo combattimento che meritava la qualifica di veteranus, a quel punto riceveva una speciale tessera gladiatoria in osso o avorio.

Era la carta d’identità su cui annotare un evocativo nome di battaglia ed eventuali vittorie. In generale i gladiatori si coprivano solo con un perizoma e una cintura secondo una tradizione che rimandava alla nudità di eroi e atleti greci.

Tra i miti da sfatare, quelli di una vita solitaria e sempre grama. Parecchi gladiatori avevano mogli e figli fuori dalla caserma e i pasti forniti dal lanista erano sostanziosi.

Tutto, anche la dieta, ruotava infatti attorno al combattimento nell’arena.

Feroce sì, ma raramente all’ultimo sangue, a dispetto degli iugula-gozza! urlati dalla folla, i combattimenti finivano spesso con una richiesta di resa

Questo anche perché il pubblico, in genere, aveva già avuto la sua razione di sangue poiché i combattimenti dei gladiatori avvenivano nel pomeriggio, dopo le varie battute di caccia e le condanne a morte.

Certo, come per i calciatori di oggi, per un campione che diventava ricco e famoso, c’erano migliaia di anonimi che morivano dimenticati e senza diritti, ma, proprio come le star del pallone, chi aveva fortuna o era particolarmente abile, poteva contare non solo sul riscatto (gli schiavi che facevano guadagnare bene il loro lanista, potevano comprarsi la libertà) ma persino un invidiabile ascendente sulle donne.

Gli esempi in tal senso non mancano, nelle satire di Giovenale (l secolo d.C.) si parla di un tale Sergiolus (Sergino) brutto e coperto di cicatrici, ma gladiatore, che fece perdere la testa alle matrone, che abbandonarono i mariti per fuggire con lui.

Proprio le leggende sul vigore sessuale dei dannati dell’arena alimentarono un ulteriore business: un indotto dei giochi gladiatori, il sangue e il sudore dei combattenti erano infatti venduti a peso d’oro come afrodisiaci.

Le statuette falliche dei gladiatori erano, tra i diversi gadget legati ai giochi, quelli forse più ricercati e meglio pagati.

La vita però era solitamente breve

Magari se si era fortunati e la carriera era gloriosa, in tutto, non si viveva più di 30 anni. Tanto durava la vita media di un gladiatore che in carriera poteva combattere da 5 a 34 volte, anche se molti non facevano in tempo a superare i primi incontri.

Le condizioni di vita non erano certo facili, specie se i combattenti non conquistavano grande fama. In un anno ogni gladiatore poteva scendere da due a quattro volte nell’arena, ma viveva in una condizione di stress continuo, accompagnato dalla paura di una morte disonorevole.

A volte l’angoscia era tale che sceglievano addirittura di togliersi la vita

In una delle sue lettere Seneca racconta la vicenda di Germano, avrebbe dovuto combattere contro gli animali in una venatio, ma prima di entrare nell’anfiteatro si recò nella latrina eludendo la sorveglianza, e prese il bastone con la spugna usato per pulirsi e se lo conficcò nella gola, morendo soffocato.

Note


[STORIA ANTICA] Spartaco il ribelle

La storia del gladiatore che tra il 73 e il 71 a. C. guidò una rivolta di schiavi, mise a ferro e fuoco il Sud Italia e diede filo da torcere ai romani.

Per alcuni fu il primo guerriero marziale della storia, lo stesso Marx, in una lettera al “compagno Engels“ nel 1861 lo definì “un genuino rappresentante del proletariato antico“.

Eppure quel Che Guevara in anticipo sui tempi non aveva mai sentito parlare né di socialismo, né di plusvalore, né tanto meno del barbuto filosofo tedesco, alla cui nascita mancavano ben 19 secoli.

E se qualcuno gli avesse nominato la lotta di classe, lui avrebbe pensato ad una battaglia navale, perché in latino classis vuol dire anche flotta.

Si chiamava Spartaco, era gladiatore, nato forse nel 109 a.C. In Tracia (l’attuale Turchia europea)

Morì a 38 anni dopo combattendo in Basilicata contro Marco Licinio Crasso, futuro triunviro, che faccia avesse non si sa, ma molti lo immaginano coi capelli biondi e la fossetta sul mento di Kirk Douglas, che nel 1960 lo interpretò in un film “Sparacus“.

Oltre a quel film, nell’ultimo secolo la Spartaco Story ha ispirato saggi, romanzi, opere d’arte, partiti e persino squadre sportive.

Il nome Spartak dilaga negli stadi d’Europa da Mosca a Busto Arsizio, con massima densità nei paesi dell’Est.


Ma chi era il vero Spartaco?

Per ricostruire la sua storia ci si basa essenzialmente su sei autori antichi, due greci (Appiano e Plutarco) e quattro di lingua latina (Sallustio,Eutropio,Floro e Orosio), che però in comune hanno ben poco.

Infatti Sallustio era un senatore della Sabina (fra Lazio e Abruzzo), supporter di Giulio Cesare, Eutropio, nato a Bordeaux, un pagano vissuto quando il paganesimo era già alla frutta (lV secolo), Orosio, un aggressivo polemista cristiano portoghese, fedelissimo di sant’Agostino.

Appiano faceva invece l’avvocato ad Alessandria d’Egitto, mentre Plutarco era un raffinato intellettuale di Atene, animalista ante litteram, e Floro un magrebino che in casa parlava il dialetto berbero.

Eppure benché lontani per epoca, patria e cultura, almeno gli autori latini un dato comune ce l’hanno: di Spartaco parlano male tutti.

Eutropio gli imputa “molte calamità“ , Floro ne dà un giudizio sprezzante (da soldato a disertore, poi predone) e dice che “distrusse con orrendi eccidi“ varie città.

Il testo di Sallustio è monco, ma basta per tacciare gli spartachisti di “ira barbarica“, infine Orosio definisce “infame“ la rivolta, accusa i ribelli, di una loro prigioniera violentata e morta suicida.

Ma è tutto vero?

Almeno Orosio va preso con le pinze.

Ciò sia perché scrisse 500 anni dopo i fatti, quindi basandosi su fonti di quarta mano, sia perché i suoi erano testi a tesi. Volevano dimostrare quanto male avesse prodotto il passato di Roma rispetto al benefico presente cristianizzato.

Ma da guardare con sospetto non è solo Orosio

Osserva un biografo moderno di Spartaco, Aldo Schiavone, docente all’Istituto Italiano di scienze umane di Firenze: come per altre grandi figure che hanno combattuto contro Roma (il cartaginese Annibale o il gallo Vercingetorige) tutto ciò che si sa di Spartaco lo dobbiamo a quel che hanno ricordato di lui i suoi mortali nemici.

Le immagini della tradizione antica sono un riflesso di quelle fissate negli occhi dei vincitori.

Eppure se dagli autori latini si passa ai greci, almeno una voce fuori dal coro c’è

Infatti Plutarco pur confermando le violenze dei ribelli, attribuisce la colpa di tutto allo stato disumano in cui vivevano gli schiavi.

“Rinchiusi a forza per la lotta gladiatoria, non per aver commesso gravi colpe ma per l’ingiustizia del loro padrone“, dallo stesso Plutarco ci giunge l’unico ritratto positivo di Spartaco, uomo “dotato non solo di grande coraggio e forza fisica, ma anche per intelligenza e dolcezza superiori alla sua condizione“

Predone o dolce eroe dunque?

Ripartiamo dai fatti, tutto iniziò quando in Italia era da poco finita l’epopea dei Gracchi ed in Africa fumavano ancora le rovine di Cartagine, distrutta da meno di 35 anni.

Fu allora che in un villaggio dei Rodopi (i Monti delle rose, oggi tra Bulgaria e Turchia), abitato dalla tribù trace dei Maidi, venne al mondo il futuro gladiatore.

All’epoca i Maidi non erano ancora sudditi di Roma, che però aveva già incluso nei suoi domini la vicina Macedonia.

Qualche tempo dopo (87 a.C.), quando Spartaco era ventenne o poco più, la Tracia diventò, come metà dei Balcani, un teatro di manovra delle legioni romane, dirette ad est per combattere il Re dei Parti, Mitriade.

In quell’ambiente di frontiera il giovane Spartaco fece ciò che poi fecero molti indiani d’America durante le guerre coloniali anglo-francesi: si arruolò nell’esercito che pagava meglio.

Quando come e per quanto tempo il futuro ribelle abbia offerto i suoi servigi agli invasori, non si sa, ma la notizia è certa

Eutropio, sinteticamente ma chiaramente, dice che Spartaco “aveva combattuto un tempo con i romani“ e il magrebino Floro conferma.

Per via indiretta si può dedurre il resto.

Per esempio che Spartaco militò quasi sicuramente nella Vl legione, detta Macedonica dalla zona dove operava, o che il suo primo capo fu Silla, futuro dittatore di Roma, fino all’83 Kapò militare dei balcani.

Ma la carriera di mercenario non durò, presto Spartaco disertò e diventò “il predone“

Perché? Schiavone avanza un’ipotesi suggestiva anche se basata solo su indizi logici: Spartaco avrebbe disertato nel 77, quando il successore di Silla, tale Appio Claudio Pulcro attaccò i Maidi.

A quel punto Spartaco si sarebbe riunito ai suoi nella resistenza “diventò un ribelle e per i romani un bandito“ commenta Schiavone, in realtà era un guerriero, una sorta di partigiano.

Ma anche la carriera di partigiano durò poco

Non oltre il 75 l’ ex legionario fu catturato con sua moglie (una sacerdotessa di Dionisio) e ridotto in schiavitù.

La Tracia, prosegue Schiavone, era in quegli anni con le Gallie, uno dei bacini di approvvigionamento per il sistema schiavistico romano.

Spartaco finì a Roma e lì fu comprato da un lanista (impresario-allenatore) di Capua, Lentulo Baziato.

All’epoca Capua aveva un attivissimo anfiteatro, con annessa un’atroce scuola-prigione gladiatoria, dove uomini atletici e sfortunati si riciclavano in tori da corrida, ad uso di una torma sadica di spettatori urlanti.

Gli allievi della scuola venivano abituati all’idea che l’unico metodo per sopravvivere era scannare qualcun altro.

Un incubo insomma. In quell’inferno spartaco rimase un anno scarso

Arrivato nel 74 a.C., nel 73 a.C. era già evaso, lo fece con altri compagni di sventura (minimo 30 secondo Floro, minimo 78 secondo Plutarco).

Iniziò così quella che Roma chiamò poi “Terza guerra servile“ (le prime due scoppiarono in Sicilia nel 135 e nel 104 a.C.) e gli spartachisti moderni “guerra proletaria“ .

Che gli evasi fossero proletari veri, cioè uomini che non avevano “nulla da perdere se non le loro catene“, però nei loro bagagli, invece di falci e martelli, c’erano spiedi e coltelli.

Erano armi rudimentali, più da cuochi che da guerriglieri, infatti Plutarco riferisce che erano state prese in una cucina.

Vagando nelle campagne gli evasi incrociarono alcuni carri carichi di spade e forconi da gladiatore destinati, curiosa coincidenza, all’Anfiteatro di Capua.

Dopo l’ovvio assalto ai carri, i 78 (o meno) si equipaggiarono a dovere e, a marce forzate, andarono ad arroccarsi tra le vigne del Vesuvio, prima “terra liberata“ della rivolta.

Là scelsero tre capi: due galli (Crisso ed Enomao) e il trace Spartaco

All’inizio il Senato non si rese conto della portata di quei fatti, prima lasciò il compito di ristabilire l’ordine pubblico alle deboli truppe locali, che ebbero subito la peggio, poi inviò da Roma quattro coorti (circa 2.500 uomini) al comando di un ingenuo pretore, Claudio Gabro.

Egli si limitò a bloccare i sentieri della montagna, pensando che i ribelli si sarebbero arresi per fame e sete.

Grave errore, una notte i gladiatori intrecciarono delle funi usando tralci di vite, quindi si calarono da una parete, presero gli assedianti alle spalle e li decimarono.

Le prime vittorie permisero a Spartaco e soci di prendere tre piccioni con una fava, si sottrassero all’assedio, si rifornirono di armi migliori prese ai militari battuti, ed infine si fecero pubblicità calamitando nuove reclute.

Così quando da Roma arrivò un nuovo pretore, Publio Varinio, non si trovò poche decine di sbandati bensì un esercito, secondo Floro, di 10 mila uomini.

Seguirono mesi di guerriglia di logoramento

Prima gli spartachisti annientarono in un agguato una colonna nemica comandata da un luogotenente di Varinio, tale Furio, poi piombarono in una villa tra Ercolano e Pompei, dove un altro luogotenente (Cossinio) stava tranquillamente facendo il bagno e lo uccisero.

Ucciso Cossinio, venne il turno di Varinio, sconfitto presso Nola (Napoli). A pochi mesi dall’evasione, Spartaco era padrone di fatto della Campania e di mezzo Meridione.

Ma quanto si era rivelato abile nella tattica militare, tanto fu inconcludente nella strategia, dando inizio ad un percorso contraddittorio su e giù per l’Italia che si concluse in Calabria, da dove tentò di passare in Sicilia con l’aiuto di alcuni pirati che però lo bidonarono.

Che cosa si proponeva l’ex gladiatore con quella lunga marcia?

La spiegazione di Plutarco è che Spartaco intendeva varcare le Alpi e poi dare il rompete le righe in modo che tutti tornassero alle rispettive patrie.

Fu però ostacolato dagli altri leader della rivolta, che preferivano saccheggiare le opulente città del Sud.

Non tanto Enomao, morto in una delle prime battaglie, quanto Crisso, che ad un certo punto si separò da Spartaco e si diresse in Puglia.

Dei contrasti che minavano la solidità dell’armata ribelle, Roma non sapeva nulla, e quando Spartaco attraversò due volte l’Italia Centrale.

Dopo i pretori del 73, i Senato mandò i consoli del 72, Lucio Gellio e Cornelio Lentulo.

L’unico che ottenne un parziale successo fu Gellio, che al Gargano uccise il dissidente Crisso, ma poi entrambe i consoli furono sconfitti e costretti alla fuga.

Solo nel 71 a.C. il vento cambiò

Ad invertirne la direzione fu Marco Licinio Crasso, l’erede politico di Silla.

Patrizio durissimo e ricchissimo, cui il Senato affidò ben otto legioni, costui esordì accusando di viltà i veterani che avevano già affrontato Spartaco e con metodi proto-nazisti ne fece uccidere 50, scelti con il metodo della decimazione.

Poi, quando fu sicuro che i soldati temevano più lui che il nemico, puntò contro i ribelli.

Il contatto avvenne presso Reggio, dove Spartaco vivacchiava scornato dopo il fallito trasbordo in Sicilia, in realtà contatto è una parola grossa, perché sulle prime Crasso sigillò i ribelli in un lembo di costa, scavando loro intorno un fossato profondo 15 piedi (4,5 metri) e lungo 300 stadi (circa 55 chilometri).

Accanto al fosso costruì un alto muro, tipo quello che oggi corre tra Israele e i territori palestinesi.

Per Spartaco chiuso tra muro e mare pareva finita, eppure in un sussulto di vitalità l’ex gladiatore riuscì ancora una volta a rompere l’assedio in una buissima notte di tormente e a riparare con i suoi in Lucania.

Ma era il canto del cigno. Scoperta la sortita, Crasso attaccò i ribelli

Prima di buttarsi nella mischia Spartaco uccise il suo cavallo, proclamando pare “Se perdo non servirà più, se vinco ne avrò altri “.

Si avverò la prima ipotesi, l’ex schiavo morì combattendo e il suo corpo fu fatto a brandelli e non fu mai trovato.

Con lui, narra Appiano, caddero sul campo 60 mila, peggio andò ad altri 6 mila, presi vivi e poi crocifissi sulla strada a nord di Capua, dove tutto era iniziato e Roma visse felice e contenta.


In conclusione

Anche se è diventato un simbolo per le laicissime sinistre de 900, Spartaco non era affatto un ateo materialista.

Anzi a quanto si può capire, era profondamente influenzato da certi culti misterici di origine orientale, che a quei tempi avevano permeato tutto il mondo ellenistico, compresa la Tracia, la terra da dove Spartaco proveniva.

Solo in questo quadro si capisce l’importanza che Spartaco stesso attribuì a un sogno fatto poco dopo il trasferimento in catene a Roma.

Mentre dormiva il futuro gladiatore vide un serpente che gli si avvicinava e risaliva lungo il suo corpo fino ad avvolgergli completamente il volto.

Destatosi di soprassalto, riferì tutto alla moglie che era stata catturata assieme a lui, e lei, esperta di culti dionisiaci (ovvero riti a forte componente sessuale, durante i quali sacerdoti e fedeli cadevano in una sorta di trance orgiastica)

Diede questo responso: il sogno annunciava una vita di “enorme potenza“, che però avrebbe avuto una fine tragica.

Note


Vivere in Sardegna: perché può essere un’idea interessante?

Vivere stabilmente in Sardegna può essere davvero un’idea splendida. Una soluzione che ha già intrigato moltissime persone e che, con ogni probabilità, è destinata ad avere un seguito ancor più importante nel prossimo futuro.

Se ci si chiede per quale motivo vivere in Sardegna possa essere una scelta interessante, non si può non citare immediatamente la qualità della vita che questa regione può offrire. Non è un caso, d’altronde, se la scelta di vivere stabilmente in Sardegna riguardi soprattutto coppie e persone non più giovanissime, le quali desiderano trascorrere la vecchiaia all’insegna della serenità e del benessere.

Ma come fare, dunque, a vivere in Sardegna?

L’idea di stabilirsi presso l’isola sarda riguarda per buone percentuali persone pensionate, le quali dunque non devono più preoccuparsi di guadagnarsi da vivere e possono concentrarsi sul desiderio di vivere una vecchiaia piacevole, priva di pensieri.

Allo stesso tempo, tra le persone che scelgono di vivere in Sardegna vi sono delle famiglie benestanti. Si tratta prevalentemente di importanti capitalisti anche stranieri, oppure imprenditori che non hanno impedimenti lavorativi da disbrigare personalmente.

Tra chi sceglie di vivere in Sardegna, tuttavia, vi sono anche dei giovani di ceto medio, che hanno quindi la necessità, come tutti, di trovare un lavoro.

Lavorare sull’isola

Le professioni connesse con il turismo sono numerosissime. Di conseguenza l’isola sarda riesce ad offrire ogni estate numerosissimi posti di lavoro. Il turismo sardo però, come noto, è prevalentemente stagionale. Di conseguenza riuscire a vivere con il solo lavoro estivo può obiettivamente non essere semplice.

Non bisogna dimenticare tuttavia che la Sardegna accoglie in diverse sue zone un turismo lussuoso ed elitario, attorno a quale orbita un business milionario. Di conseguenza alcune figure professionali, soprattutto di tipo manageriale, possono certamente assicurarsi tramite il solo lavoro estivo degli stipendi in grado di rivelarsi ampiamente sufficienti per tutto l’anno.

Il costo della vita

Potrebbe sembrare paradossale, eppure la Sardegna è molto apprezzata anche per il suo costo della vita, davvero molto basso. Sebbene come già detto alcune zone siano una meta assolutamente VIP e prevedano un costo della vita molto elevato, altri versanti dell’isola si rivelano pressoché opposti in tal senso.

Paragonando il costo della vita di molte zone della Sardegna a quello di numerose città italiane, soprattutto dei centri più importanti quali Roma e Milano, la differenza risulta davvero fortissima, soprattutto per chi ha la necessità di affittare un appartamento.

I collegamenti da e verso l’isola

La scelta di vivere in Sardegna è ottimale anche per quanto riguarda gli ottimi collegamenti che contraddistinguono quest’isola. Credere che la Sardegna sia mal collegata con l’Italia e con l’estero, infatti, sarebbe un errore.

I porti italiani da cui partono regolarmente numerosissimi traghetti per la Sardegna sono numerosi e riguardano ogni zona d’Italia: Genova, Livorno, Piombino, Napoli, Civitavecchia, Palermo.  

Anche per quanto riguarda l’estero la Sardegna è una regione molto ben collegata. Basti citare a tal riguardo porti quali quello spagnolo di Barcellona, quello francese di Marsiglia, e quelli, vicinissimi, situati in Corsica.

Sebbene infine il traghetto sia la soluzione più scelta da chi intende raggiungere la Sardegna, anche per il fatto che consente di poter trasferire sull’isola il proprio veicolo, non bisogna peraltro dimenticare numerose opportunità per quanto concerne i collegamenti aerei, soprattutto nei mesi estivi.

Vivere in Sardegna: conclusioni

Insomma, la Sardegna non è solo turismo, ma può essere anche una scelta di vita molto interessante, perfetta per chi pone la qualità della vita al primo posto tra le proprie priorità. Un’isola che può garantire un relax ed una distensione fisica e mentale senza precedenti.

La Sardegna infatti è la regione ideale per chi desidera costruirsi una vita ben distante rispetto al caos cittadino ed ai più tipici paesaggi urbani.

Note

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FAO: Fame, è record storico. Oltre un miliardo di persone affamate

La fame nel mondo raggiunge un nuovo record: Per la prima volta nella storia umana, oltre un miliardo di persone in tutto il mondo risultano sottonutrite.

Lo rende noto la Fao, che ha rivisto al rialzo le stime per il 2009 sul numero di persone che soffrono la fame, indicando la cifra di 1,02 miliardi.

Tale cifra supera di oltre 100 milioni il livello dell’anno scorso e rappresenta circa un sesto della popolazione mondiale.

Questo aumento della fame a livello mondiale – spiega la Fao – non è la conseguenza di raccolti insoddisfacenti, ma della crisi economica mondiale che ha ridotto i redditi e aumentato la disoccupazione.

E anche nelle nazioni sviluppate la denutrizione è divenuta un problema crescente, riguardando 15 milioni di persone.

La fame nel mondo ha mostrato un trend di lenta ma continua crescita nell’ultimo decennio

Deb Haaland – Raccolta alimentare in Nuovo Messivo (2019)

La fame nel mondo – sottolinea l’agenzia delle Nazioni Unite – ha mostrato un trend di lenta ma continua crescita nell’ultimo decennio.

Quest’anno il numero di persone vittime della fame è previsto crescere globalmente dell’11%, secondo le stime della Fao basate su analisi del Dipartimento per l’Agricoltura degli Stati Uniti.

Quasi l’intera popolazione sotto-nutrita vive nei Paesi in via di sviluppo ma una fetta di 15 milioni riguarda i Paesi sviluppati.

In Asia e nel Pacifico circa 642 milioni di persone soffrono di denutrizione cronica; nell’Africa Sub-Sahariana 265 milioni; in America Latina e nei Caraibi 53 milioni; nel Vicino Oriente e nel Nord Africa 42 milioni.

La situazione di crisi economica di alcuni Paesi in via di sviluppo – nota la Fao – è anche aggravata dal fatto che i trasferimenti monetari (le rimesse) degli emigrati nei loro Paesi d’origine sono diminuiti sostanzialmente nel corso di quest’anno, causando una notevole riduzione delle riserve estere e dei redditi familiari.

La diminuzione delle rimesse, insieme al previsto declino degli aiuti ufficiali allo sviluppo, ridurrà ulteriormente la capacità dei Paesi di avere accesso al capitale necessario a sostenere la produzione e a creare reti di sicurezza e schemi di protezione sociale per i poveri.

Mentre i prezzi alimentari sui mercati internazionali sono diminuiti nel corso degli ultimi mesi, i prezzi interni nei Paesi in via di sviluppo sono scesi assai più lentamente e sono rimasti più alti in media del 24% alla fine del 2008 rispetto al 2006.

DIOUF, ADOPERARSI TUTTI CON URGENZA PER SRADICARLA

La Fao nota infine che i prezzi dei generi alimentari di base, sebbene siano diminuiti, restano ancora più alti del 24% rispetto al 2006, e del 33% rispetto al 2005.

“Questa silenziosa crisi alimentare costituisce un serio rischio per la pace e la sicurezza nel mondo. Abbiamo urgentemente bisogno di creare un largo consenso sul totale e rapido sradicamento della fame nel mondo, ed intraprendere le azioni necessarie ad ottenerlo”.

Lo afferma il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, commentando la stima dell’agenzia Onu di un livello record di oltre 1 mld di persone affamate nel 2009.

L’attuale situazione dell’insicurezza alimentare nel mondo non ci può lasciare indifferenti


“L’attuale situazione dell’insicurezza alimentare nel mondo non ci può lasciare indifferenti – aggiunge Diouf – Le nazioni povere devono essere dotate degli strumenti economici e politici necessari a stimolare la produzione e la produttività del loro settore agricolo”.

“Gli investimenti in agricoltura – conclude Diouf – devono aumentare, perché per la maggioranza dei Paesi poveri un settore agricolo in buone condizioni è essenziale per combattere i problemi della fame e della povertà, ed è un prerequisito indispensabile per la crescita economica generale”.

Note

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  • Fonte: ANSA
  • Articolo originariamente pubblicato nel 2009

Nel karate ci sono PREGIUDIZI, lo sappiamo TUTTI

Quanti Sensei sono realmente qualificati per insegnare una disciplina così difficile?

I lottatori, fuori controllo, ripresero la lotta avventandosi uno sull’altro come in una lotta tra cane e gatto. Varie cinture nere e altri assistenti saltarono allora sul ring. Quando smisero di lottare, la gente che era salita sul ring tentò di attaccare un uomo con la pelle di colore differente, come se un’onda razzista fosse sul punto di esplodere nel Karate americano. Gli organizzatori del torneo a questo punto pensarono di tenere dei tornei separati per bianchi e neri, sperando che lo spirito del Bushido restituisca la saggezza agli atleti di Karate prima che degenerasse tutto nei tornei

La filosofia del Bushido finisce sempre per apparire in discussioni accademiche di questo tipo, l’ideale sarebbe che prevalesse sempre lo spirito del Bushido, così non ci sarebbero problemi, ma quanti Sensei sono realmente qualificati per insegnare una disciplina così difficile?

Quanti oggi possono dire oggi ai loro allievi “Seguitemi ,che io vi indicherò la strada“?

Il mio Maestro “Nakaashi” una volta mi ha detto I pregiudizi sono un atteggiamento della mente, la discriminazione è un’azione”.

Uno può apparire senza l’altro, i comitati e le commissioni possono formarsi per creare un codice di condotta che elimini il pregiudizio di fondo, ma c’è un solo modo per combattere i pregiudizi: un cambiamento di carattere, aiutato ed appoggiato dalla disciplina e dal rispetto.

I Maestri di una volta avevano la risposta. Per loro, nei loro insegnamenti era l’Etica: sapevano che la natura di un uomo non cambiava perchè si vestiva con abiti civili o con il gi.

Il cambiamento del carattere deve essere fatto dall’allenamento, un allenamento con una severa disciplina

La continua ripetizione e revisione delle basi, anno dopo anno, fu pensata per fare una selezione e lasciar fuori gli allievi troppo emotivi e impazienti.

Gli istruttori il cui comportamento si basa più sulla rottura che sulle promesse non dovrebbero parlare, nessuno può negare che l’atteggiamento degli allievi rifletta l’ambiente dei Dojo nel quale si allenano, ogni Dojo è unico, ognuno ha nel suo specifico ambiente la sua specifica personalità, un Dojo è il riflesso dei Sensei, dell’organizzazione e dell’ambiente.

Generalmente, un Dojo attrae e conserva gli allievi che si inseriscono nel suo ambiente

Se un Sensei segue una traiettoria deviata, i suoi allievi seguiranno la stessa traiettoria, c’era una vecchia storia che illustra questo punto:

Perché non cammini dritto figlio mio? Disse un vecchio granchio a suo figlio, devi imparare ad andare dritto!Insegnami come, padre, rispose il giovane granchio, e quando andrai dritto, proverò a seguirti.

Un’immagine vale più di mille parole e finché i Sensei di questo paese non agiscono seguendo questo principio, il Karate sarà come il vecchio granchio che non riuscì a rispondere al proprio figlio.


Era appena finita la guerra del Pacifico e l’occupazione del Giappone era in pieno svolgimento

Una sera, dopo aver visto un film, Arai andò a camminare a Isezaki-cho, la strada principale di Yokohama, da dove provenivano grida, voci, parolacce che ascoltava ed il suono di una rissa a Negishiva, nell’unico luogo aperto tutta la notte.

Quasi tutti i giapponesi che si trovavano per strada a quell’ora erano magnaccia, prostitute, ladri e delinquenti

Era appena finita la guerra del Pacifico e l’occupazione del Giappone era in pieno svolgimento, quasi tutti i giapponesi che si trovavano per strada a quell’ora erano magnaccia, prostitute, ladri e delinquenti, il resto erano uomini delle Forze Armate statunitensi e marinai della marina mercantile che, al crepuscolo, si riunivano nel Ne gishiya per prendersi un ultimo drink o farsi uno spuntino, in questo miscuglio così eterogeneo di gente, le risse notturne erano abituali e il Negishiva era il luogo adatto a questo.

Ci fermammo a guardare e la rissa finì in piazza, di fronte all’entrata, un marinaio della mercantile stava lottando con due soldati e un bullo, il marinaio non riusciva quasi a reggersi in piedi, un gancio sinistro nello stomaco lasciò uno sei soldati a terra e un uppercut destro lasciò l’altro stordito.

Quando stava andando dal bullo, una bottiglia che qualcuno lanciò dalla folla gli colpì alla testa e lo atterrò

La folla corse verso di lui, gli diedero calci violentissimi e, come lupi intorno ad una preda indifesa, riempirono l’ambiente di suoni spaventosi. All’improvviso, Arai si avventò sulla folla per aiutare l’uomo, emise un kiai come non si è più sentito da quella notte di novembre, il suo kiai fece tacere di colpo la folla assetata di sangue e restarono pietrificati, proprio allora apparve la Polizia Militare e, all’improvviso, la folla scomparve.

La mattina seguente, prima dell’alba, Arai andò nel cortile antistante la casa e iniziò a praticare kiaijutsu, il Sensei diceva sempre “Devi tirar fuori il tuo spirito attraverso il suono“ dopo la notte precedente Arai si rese conto che il Kiai che aveva emesso era un Kiai di stordimento, era un buon kiai che utilizzato in momenti chiave del combattimento poteva pietrificare l’avversario o paralizzarlo, doveva essere una vera e propria arma.

In genere il kiai emesso durante la pratica delle arti marziali è un semplice grido dalla gola, ma il vero si tira fuori in modo esplosivo dalla zona addominale, in coordinazione con il diaframma, la posizione della lingua è importante, le diverse posizioni della lingua danno luogo a diversi tipi di kiai.


Muso Gonnosuke affermava che aveva sconfitto in un combattimento l’incomparabile Miyamoto Musashi utilizzando un bastone

La sua affermazione era difficile da credere, poiché nessuno era riuscito a battere Miyamoto in un duello con la Katana, e tanto meno con un bastone, la storia inoltre raccontava che Miyamoto aveva vinto gli avversari in sei duelli a morte, per questo l’impresa di Gonnosuke doveva sembrare incredibile.

Secondo quanto si racconta, accadde una seconda volta, Miyamoto sconfisse Gonnosuke in un primo combattimento ma gli risparmiò la vita, la seconda volta, dopo aver studiato per tre anni come battere  Miyamoto, ci riuscì con un lungo Bo di più di un metro e lasciò che Miyamoto se ne andasse risparmiandogli anch’egli la vita, così come aveva fatto lui con la sua.

Arrivava perfino a dover rifiutare nuovi allievi, poiché il suo Dojo avrebbe potuto correre il rischio di crollare

Il contributo di Gonnosuke ai posteri comunque non è questo fatto rilevante solo nelle arti marziali, ma è stato anche il primo ad introdurre i principi nel mondo dello spettacolo delle arti marziali e le rese attrazioni per un pubblico desideroso di pagare per vederle, riuscì anche a fare del suo modo di vestire un altro spettacolo, si vestiva come un pavone reale e si pavoneggiava come tale, tutti i suoi movimenti erano calcolati, come si dice nel mondo dello spettacolo, nessun artista vale più di ciò che può ottenere al botteghino, la gente accorreva in massa per vederlo lottare e vedere come muoveva il suo corpo.

Arrivava perfino a dover rifiutare nuovi allievi, poiché il suo Dojo avrebbe potuto correre il rischio di crollare, Gonnosuke era inoltre un uomo d’affari sensato ed intelligente, con una mente fredda, non faceva quello che fanno oggi molti professionisti, far salire i prezzi alle stelle.

È un peccato che non si sia scritto molto su di lui, è probabile che i tradizionalisti abbiano detestato il suo lato professionale, ma in quel momento chi poteva prevedere eventi futuri che si sarebbero verificati 500 anni dopo?

Un buon Sensei deve trasformare il potenziale di un allievo in qualcosa di reale, ogni allievo può diventare potenzialmente un Maestro ed è il Sensei che si fa carico di motivare ed indirizzare l’allievo perchè questo possa scoprire se stesso. La motivazione del Sensei ha un effetto simile al processo che fa trasformare una crisalide in una bella farfalla


Narra un atleta

Narra un atleta: eravamo da tre giorni in un programma di allenamento estivo in montagna e si stava rivelando duro, ci restavano davanti sette giorni di un corso di dieci giorni, stavamo imparando allenamento di arti marziali e sopravvivenza in montagna.

Dovevamo adattarci per ottenere cibo da Madre Natura

Era difficile sopportare il rigoroso allenamento che aveva stabilito il professore e, inoltre, dovevamo imparare tecniche di sopravvivenza, dovevamo adattarci per ottenere cibo da Madre Natura, per me non era molto complicato, ma per un mio compagno Tanaka stava diventando molto dura.

Tanaka non era una persona molto comunicativa ma, ogni volta che apriva bocca, l’unica cosa di cui parlava era del buon cibo che c’era nel quartiere cinese di Yokohama “Non credo di essere un Samurai, ora che ci penso, i miei antenati erano agricoltori, una cosa è certa, dovevano avere sempre qualcosa da mangiare “ .

Tutti finimmo col perdere peso, a volte Sensei diceva: “Vi stanno diventando grandi i pantaloni? Ricordate che quanto più lunga è la cintura, tanto più corta sarà la vita“.

Un giorno, dopo aver imparato a catturare pesci nel fiume con un arpione, Tanaka mi disse “Sai ora che ci penso, non ho mai sentito parlare di un Samurai grasso, probabilmente l’obesità gli avrebbe impedito di fare movimenti e avrebbe diminuito la sua resistenza, sto imparando a valorizzare questa esperienza, sto iniziando a capire perché il Sensei ha incluso questo tipo di allenamento.“

L’ultima notte il Sensei di diresse verso di noi e disse: “In tutta la sua vita Miyamoto Musashi partecipò a 60 combattimenti, la maggior parte mortali, il suo primo combattimento fu a 13 anni e l’ultimo quasi a 30, in seguito non tornò più a lottare e morì sul tatami, da vecchio ed in pace“.

Decisamente, fu una delle figure più importanti del Giappone, tuttavia non riuscì a trovare un successore, mentre lo trovarono figure meno abili di lui, Miyamoto ha commesso lo stesso errore che commettono molti bravi Maestri, tentò di formare un allievo a sua immagine e somiglianza.


Un buon Sensei non è colui che forma un allievo come lui, ma colui che trasforma il potenziale del suo allievo in realtà

Io sono io e tu sei tu, quando arriva il tuo momento, dovrai trasformarti in te stesso, e il modo per farlo è insegnare le arti marziali come un’esperienza totale, non come un’arte specializzata.

Note


[SARDEGNA] La Bandiera dei Quattro Mori

Lo scudo con croce rossa accantonata da quattro mori bendati è il simbolo del popolo sardo

Studiosi di tutti i tempi si sono mossi in un intrico di leggenda e realtà storica, tra Sardegna e Spagna.

Tutti hanno cercato di ricostruire origini e significati, ma lo stemma dei quattro mori rimane ancora oggi sostanzialmente un mistero.

La tradizione iberica lo considerava la bandiera della Sardegna una creazione di Re Pietro I d’Aragona

Il fine fu la celebrazione della vittoria di Alcoraz (1096).

La vittoria sarebbe stata ottenuta anche grazie all’intervento di San Giorgio (campo bianco e croce rossa) e che avrebbe lasciato sul campo le quattro teste recise dei re arabi sconfitti.

Sulla tradizione iberica si innestò la tradizione sarda.

Questa, contro ogni evidenza storica, legava lo stemma al leggendario gonfalone dato da papa Benedetto II ai Pisani in aiuto dei Sardi.

I pisani furono mandati contro i crudeli saraceni di Museto che in quegli anni minacciavano di conquistare Sardegna e Italia (1017).

In realtà, la più antica attestazione dell’emblema della Sardegna risale al 1281 ed è costituita da un sigillo della cancelleria reale di Pietro il Grande d’Aragona

Ma fu soltanto nella seconda metà del XIV secolo che i quattro mori apparvero per la prima volta legati alla Sardegna.

Questo fu come simbolizzandone il Regno all’interno della confederazione della Corona d’Aragona (Stemmario di Gerle).

Importato dunque dai re aragonesi, il simbolo comparve nella Sardegna spagnola su opere a stampa, monete e sui gonfaloni dei corpi speciali dei Tercios de Cerdeña, istituiti da Carlo V per la difesa dell’isola e distintisi a Tunisi (1535) e Lepanto (1571) nelle operazioni contro i Turchi.

L’iconografia del simbolo fu quanto mai confusa e le teste dei mori furono rappresentate in vario modo: volte a destra e a sinistra o affrontate, scoperte, coronate, cinte da una benda sulla fronte

Bandiera del Regno di Sardegna (1324-1848)

Risale alla metà del Settecento l’iconografia destinata a perdurare, con le teste volte a sinistra e le bende calate sugli occhi.

Delle ragioni di quest’ultima innovazione, se dettate dal caso oppure più maliziosamente alludenti agli atteggiamenti (illiberali) del governo piemontese verso la popolazione isolana, non sapremo mai.

Lo stemma comparve nell’arma composita della dinastia piemontese su atti, monetazione di zecca sarda e bandiere dei miliziani


Successivamente ornò gli stendardi delle brigate combattenti sarde, tra queste la “Sassari”, divenuta leggendaria per le imprese eroiche sul fronte austriaco della Grande Guerra.

Nel 1952 lo scudo dei quattro mori diventava stemma ufficiale ed ornava il gonfalone della Regione Autonoma della Sardegna (DPR del 5 Luglio 1952).

Oggi i sardi hanno la loro bandiera.

I quattro mori però, memori dell’antico affronto piemontese, hanno voltato la testa e aperto gli occhi, non più fasciati dalla benda che torna a cingere la fronte.

Note

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[SEPPUKU] Cosa è lo Harakiri (腹切り)?

Per quanto strano possa sembrare, nessuno è in grado di precisare le origini del seppuku; questa forma atroce di suicidio.

Ma il seppuku (lettura più colta dei due ideogrammi di harakiri, “ventre – taglio“) divenne col tempo il modo di morire in quattro situazioni diverse.

Era l’ultimo rifugio per evitare un’indicibile disgrazia come quella di cadere nelle mani del nemico.

Poteva essere effettuato come JUNSHI, suicidio alla morte del proprio signore, oppure essere l’ultima risorsa per contestare un superiore di cui non si approvava il comportamento. Infine poteva essere la sentenza capitale imposta a un guerriero dalle autorità.

Lo HARAKIRI, detto anche seppuku, era naturalmente prerogativa della classe samuraica

A monaci, contadini, artigiani e mercanti non era concesso darsi questo tipo di morte.

Un nobile della corte di Kyoto, ad esempio, avrebbe preso il veleno, ciò sta a significare che lo harakiri fu scelto perché principalmente era la dimostrazione di un coraggio quasi sovrumano, qualità che insieme alla lealtà era la somma, indispensabile virtù del Samurai.

Per usare le parole di uno storico:

la scelta di tale estrema sofferenza fu senza dubbio correlata all’idea che era obbligatorio per i membri dell’elitaria classe marziale mostrare il proprio eccezionale coraggio e la propria determinazione nell’affrontare una prova così atroce che la gente comune non poteva affatto sopportare

Bisogna anche tener presente che il ventre (hara) in Giappone era considerato il centro dell’uomo, dove risiedevano il suo spirito, la sua volontà, le sue emozioni.

Chi si apprestava a fare il harakiri doveva essere pronto a esporre questa sede per dimostrare la propria sincerità. Un brano da Sole e acciaio di Mishima ci fornisce una spiegazione alquanto singolare di questa specifica concessione:

Prendiamo una mela, una mela intatta, l’interno della mela è naturalmente invisibile, così all’interno di questa mela, rinchiuso nella polpa del frutto, il torsolo si nasconde nella sua livida oscurità, tremante nell’ansiosa ricerca di sapere se è una mela perfetta.

È certo che la mela esiste, ma per il torsolo questa esistenza è ancora insufficiente, se le parole non possono confermarla, allora l’unico mezzo per farlo sono gli occhi.

In realtà per il torsolo la sola sicurezza di esistere è esistere e vedere allo stesso tempo, c’è un solo modo per risolvere questa contraddizione: conficcare un coltello ben dentro la mela, spaccarla ed esporre il torsolo alla luce, a quella stessa luce che vedeva la buccia.

Yukio Mishima, Sole e acciaio (titolo originale 太陽と鉄
Taiyō to tetsu)

Ma l’esistenza della mela finisce a pezzi, il torsolo sacrifica l’esistenza per vedere.

Col tempo si realizzò che la morte per seppuku era non solo coraggiosa, ma anche “bella“

Era considerata un’onorevole e quindi esteticamente soddisfacente fine per una vita, per quanto breve, di leale servizio.

Sin dall’inizio del Xlll secolo almeno, il seppuku come pratica comune divenne talmente parte della tradizione Samuraica, che al figlio di un guerriero gli venivano impartite già nell’infanzia istruzioni al riguardo.

In epoca posteriore il Seppuku divenne una cerimonia rituale, specie quando a un samurai veniva imposto (o dal Governo o dal suo signore feudale) il suicidio.

Già verso la fine del XVll secolo erano state codificate regole molto complicate, come il numero di tatami da usare e la loro disposizione.

I tatami erano stuoie di giunchi di circa un metro per due, usate per coprire i pavimenti delle case.

Dovevano essere bordati di bianco e su questi veniva posto un grande cuscino sul quale il guerriero che doveva fare seppuku si poneva in atteggiamento formale.

Inginocchiato e seduto eretto sui talloni, circa un metro dietro di lui alla sua sinistra, stava inginocchiato il kaishakunin, l’assistente al seppuku. Egli era un amico intimo del protagonista, che brandiva la spada nelle due mani e il suo compito era di decapitare l’amico nel momento concordato insieme prima della cerimonia.

Così a meno che non gli fosse ordinato diversamente, il kaishakunin cercava di cogliere il minimo accenno di sofferenza o di incertezza, pronto a decapitare il condannato appena questi si conficcava il pugnale nel ventre dopo averlo preso dal vassoio che gli stava di fronte.

Si dice che sovente la decapitazione avesse luogo appena il pugnale era tolto dal vassoio o addirittura al solo stendersi della mano verso di esso.

I coraggiosi che riuscivano a portarlo a termine, si tagliavano da sinistra a destra e quindi volgevano la lama verso l’alto, questa tecnica era conosciuta come jumonji, taglio traverso, poi interveniva il kaishakunin.

Note

Bibliografia

  • Yukio Mishima, Sole e acciaio (titolo originale 太陽と鉄
    Taiyō to tetsu) tradotto da Lydia Origlia, Prosa contemporanea, Guanda, 1982  ISBN 8877462159.

Harakiri (腹切り): Da Konishi Yukinaga all’Incidente di Kobe

Harakiri. Non tutti però avevano tale coraggio

Nella disfatta di un esercito per esempio, il comandante Ispida Mitsunari fu fatto prigioniero, ma non lo ritenne un’infamia intollerabile, disse agli uomini che avrebbe potuto uccidersi da solo, ma pensava fosse meglio lasciare il disturbo ai propri nemici.

Un altro importante prigioniero fu Konishi Yukinaga, il generale cristiano divenuto famoso durante la guerra di Corea.

Catturato, gli venne imposto di suicidarsi, ma rifiutò sostenendo che la sua fede cristiana lo considerava un peccato. In seguito venne decapitato sulle rive del fiume Kamo.

Un esempio ben documentato di Harakiri: L’incidente di Kobe

Esiste un classico resoconto di un seppuku, scritto da A.B. Mitford rappresentante della delegazione britannica.

L’avvenimento ebbe luogo alla fine del periodo feudale, in una notte del 1868, in un tempio presso Kobe.

Protagonista un Samurai di nome Taki Zenzaburo, reo di aver ordinato ai suoi uomini di far fuoco sulla colonna straniera di Kobe, con mano ferma prese il pugnale che gli stava dinnanzi e lo fissò intensamente, quasi con affetto.

Restò assorto per un momento, poi se lo conficcò in profondità al di sotto della cintura nella parte sinistra, lentamente lo portò a destra, poi lo rigirò nella ferita e lo trasse verso l’alto.

Durante questa tremenda operazione non in un muscolo della sua faccia si mosse, estrasse il pugnale e si abbandonò in avanti reclinando il collo.

A questo punto il kaishaku, che era rimasto accoccolato al suo fianco spiando attentamente ogni sua mossa, balzò in piedi brandendo alta la katana.

Un lampo, un tonfo sinistro, e con un solo colpo la testa rotolò via dal corpo.


Conclusioni

I tempi cambiano, ma chi ha innata la cultura e il senso dell’onore ancora oggi effettua il suicidio l’Harakiri.

Le motivazioni sono diverse, (vedi quel direttore di banca che aveva truffato i clienti) ma il risultato è lo stesso.

Harakiri anche senza il proprio kaishaku, il giappone una tradizione, una popolazione, un solo onore.

In Italia se ci fosse lo stesso principio dell’onore con relativo Harakiri, troveremmo tantissimi kaishaku e nessun candidato al Harakiri. Di questo ne sono più che convinto!

Note