Rubrica Cultura · Nuova Isola

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[ARTI MARZIALI] Karate Buyo, le danze marziali di Hiroko Ogido

I parallelismi tra il Karate e alcune danze tradizionali di Okinawa, come accadde nell’antico Kobudo, servirono allo scopo della perpetuazione delle arti in determinate epoche, frutto della mescolanza di quelle danze con il Karate e con il Kobudo.

L’esperta Hiroko Ogido diede vita in seguito a quello che si chiamò Karate Buyo

Molti esperti sono giunti a capire, naturalmente, che le danze tradizionali di Okinawa contengono tecniche di Karate, oltre ad un ovvio utilizzo di armi come il bo, nunchaku, sai, eku, tonfa.

È un tema molto interessante e che, senza dubbio, fa parte della cultura contenuta nelle tradizionali Arti Marziali giapponesi, quella cultura che ancora oggi si conserva.

La maggiore rappresentante attuale di questa mescolanza di Karate e Danza chiamata Karate Buyo è senza dubbio Hiroko Ogido, una veterana allieva di Karate e Kobudo del Gran Maestro Shinpo Matayashi, forse molti conoscono Hiroko attraverso il documentario del National Geographic Channel, dove Hiroko Sensei appariva mostrando la sua Arte di Karate e Danza.

Il fatto che Hiroko Sensei fosse stata allieva del Maestro Masauoshi e che dalla morte di questi nel 1997, si fosse incaricata lei del Dojo del Maestro, gli dette la possibilità di coltivare e perfezionare quest’arte.

Hiroko Ogido è una donna matura molto dinamica, si muove molto ed è molto interessata alla divulgazione di quest’Arte, la sua missione ideale è aiutare il più debole e che il suo Karate Buyo deve migliorare il carattere dei suoi praticanti, enfatizza il fatto che non è uno sport e che si tratta di preservare l’arte tradizionale.

Racconta che le danze antiche tradizionali di Okinawa si chiamano Odoro, la loro fusione con il Karate e il Kobudo forma la nuova arte da lei creata

In realtà quest’arte ha una storia recente , poiché non nasce in quanto tale prima degli anni 50  anche se, logicamente, le sue origini risalgono a secoli fa.

La bellezza dell’arte di Ogido Sensei risiede nelle emozioni contenute che in modo sottile ed elegante affiorano attraverso i movimenti di Danza e Karate , il potere dei suoi movimenti, non esenti del Kime del karateka, è forse progettato specificatamente per le donne, manifestando una grazia particolare attraverso la danza.

È difficile che le donne penetrino in un mondo di uomini, ma Ogido rifiuta di pensare che sia perché non sono all’altezza, poiché altrimenti sarebbero perdute, non bisogna nemmeno dimenticare che questo è il Giappone e che qui, storicamente, la donna è stata rispettata in quanto tale, ma attribuendole compiti molto concreti e molto diversi da quelli dell’uomo, ma forse le differenze sono da apprezzare in alcuni casi, poiché la grazia di una donna è degna di essere vista, non dimentichiamo che nell’antichità gli originali kata potevano benissimo essere danze in onore degli dei.

La mitologia giapponese ci insegna che quando la dea Amaterasu si rifugiò nell’antro della Grotta Celeste lasciando il mondo nella penombra , le danze che fecero i paesani all’ingresso, risvegliarono la sua curiosità e la fecero uscire

Danze che, a quanto pare, avevano qualcosa di simile al kata Rohai del Karate, ma questa è un’altra storia, la cosa certa è che la danza Okinawese, e la sua in parte fusione con il Karate, ha fatto parte della cultura Okinawese da sempre, cosa che la rende un interessante argomento di conoscenza, storicamente, come il Kobudo, permise di utilizzare in allenamento come armi gli utensili da lavoro della vita quotidiana, rendendo così l’arte marziale una pratica segreta, clandestina, dissimulata, in modo simile, anche se con le sue evidenti differenze, anche la danza apportava questa possibilità alla Capoeira Brasiliana.

Nel documento della BBC inglese che a metà degli anni 80 mostrava la vita di Hiroko Ogido offre sul tatami ogni tipo di spiegazione su quello che fa, per prima cosa si osserva kata di bo realizzati da una bambina di appena 5 anni, poi Ogido fa vedere varie dimostrazioni di Karate Buyo.

Le danze okinawesi, come se volessero mostrare il significato del Karate, sono dure e morbide allo stesso tempo

Definendo così quasi l’originale Goju Ryu (duro e flessibile), le posizioni, gli spostamenti, la coordinazione con i movimenti di mano, la posizione della schiena, la distribuzione del peso ecc… sono attentamente vigilati in entrambe le arti.

Ma ci sono altre curiosità di kata di Karate che provengono dalle danze okinawesi, alcuni dei suoi caratteristici kamae (guardie) e varie forme speciali di spostamento sono alcune di queste, in stili okinawesi di karate, spostamenti di kata come per esempio Seishan, si realizzano iniziandoli sui bordi esterni dei piedi e non piantando contemporaneamente tutta la loro superficie.

Questa forma caratteristica che negli stili giapponesi in seguito si è in parte perduta (anche se alcuni la mantengono nel nostro Wado Ryu come l’ha insegnata Ohtsuka Sensei), proviene nella realtà dalla danza e si chiama Sansoku, la speciale collocazione delle caviglie durante lo spostamento, apporta una posizione più favorevole all’articolazione e le da un’azione furtiva.

Si dice che Funakoshi Yoshitaka e altri suoi contemporanei si allenassero in modo così intenso negli spostamenti del Karate (con potenti pestoni a volte fuori luogo) che Gichin dovette far loro vedere che non si trattava di rompere le tavole del tatami ma, al contrario, di essere capaci di spostarsi sopra la carta bagnata senza romperla.

Il dualismo forza e morbidezza, potenza e leggerezza, è sempre esistito nella tecnica del Karate, facendo acquistare alla danza okinawese importanza vitale

Apportando la sottigliezza alla rudezza teorica del Karate, l’eleganza e il controllo necessari per elevare la tecnica alla categoria di arte, facendo un confronto con l’arte della tauromachia, potremmo dire che, così come in questa, non si tratta unicamente di eludere gli attacchi del toro, ma di farlo con eleganza, tecnica e cultura, anche la tecnica del Karate è molto di più di un semplice scambio di legnate.

Le danze di Hiroko Sensei includono non solo tecniche a mani nude ma anche con armi come nunchaku, sai, bo, i vistosi abiti che Ogido indossa nelle sue dimostrazioni, nel più puro stile okinawese, non tralasciano i tradizionali gi e hakama del Karate e del Kobudo, ma la forza di Ogido Sensei non la allontana dalla simpatia che sprigiona.

Note


Taiji Kase: Il X dan Maestro karate Shotokan

Taiji Kase è stato un Karateka e maestro di Karate giapponese

Fu uno dei maestri più preparati e più conosciuti nell’ambito del Karate, considerato come uno dei combattenti migliori ed esecutori di Kata grazie alla sua abilità tecnica, alla sua esplosiva velocità e alla sua potenza.

Nel 2000 gli fu conferito il grado di 10° Dan, a conferma del suo immenso valore

Inizia la pratica delle arti marziali a soli sei anni, il maestro Kase tuttavia, non inizia con la pratica del Karate, ma con lo judo, è all’età di quindici anni che inizia a praticare il Karate alla scuola Shotokan di Tokio.

È stato allievo diretto dei Maestri Gichin e Yoshitaka Funakoshi fa la sua comparsa sulla scena Europea nel 1965, inviato con altri giovani Maestri nel continente dalla Japan Karate Association e da quel momento, se si escludono i brevi periodi del soggiorno Belga, è sempre vissuto a Parigi.

In Europa viene subito apprezzato per le qualità sia umane che prettamente tecniche.

Ciò che sorprendeva in lui era l’atteggiamento pacato e la disponibilità che dimostrava in ogni occasione con i suoi allievi, sia che si trattasse di campioni di alto grado o semplici cinture nere.


Nasce il 9 febbraio 1929 a Chiba, in Giappone, e inizia la pratica delle arti marziali a soli sei anni. Il maestro Kase tuttavia, non inizia con la pratica del Karate, ma con lo Jūdō.

È all’età di quindici anni che inizia a praticare il Karate alla scuola Shotokan di Tokyo. È stato allievo diretto dei maestri Gichin e Yoshitaka Funakoshi.

Il maestro Kase fa la sua comparsa sulla scena europea nel 1965.

Fu inviato con altri giovani maestri nel continente dalla Japan Karate Association. Da quel momento, se si escludono i brevi periodi del soggiorno belga, è sempre vissuto a Parigi.

In Europa viene subito apprezzato per le qualità sia umane che prettamente tecniche

Ciò che sorprendeva in lui era l’atteggiamento pacato e la disponibilità che dimostrava in ogni occasione con i suoi allievi. Sia che si trattasse di campioni di alto grado o “semplici” cinture nere.

La caratteristica principale del suo insegnamento è quella di separare completamente la pratica sportiva dal Karate-dō.

Il Karate-dō è una via, un percorso di formazione e crescita che il maestro Kase intendeva insegnare secondo i precetti del suo maestro e fondatore del Karate Gichin Funakoshi. Era l’incarnazione dello spirito del Karate-dō al quale ha dedicato tutta la sua vita e tutto sé stesso.

Nel 1989 fonda la W.K.S.A. (World Karate Shotokan Academy) oggi S.R.K.H.I.A. (Shotokan Ryu Kase Ha Instructor Academy), l’Accademia che si propone di unire praticanti di diversi paesi che seguendo il suo programma di insegnamento si impegnano a diffondere la vera essenza del Karate-dō Shotokan.

Era di casa anche in Italia, invitato spesso dal maestro Hiroshi Shirai per condurre al suo fianco stage e seminari.

Tutti gli appassionati ricordano le dimostrazioni dei grandi maestri giapponesi al Palalido di Milano, nelle quali il Maestro Taiji Kase era sempre fra le più acclamate punte di diamante.

Durante la permanenza in Francia, ha scritto vari libri sulle arti marziali, tra i quali 5 Heian:

  • Katas, Karaté, Shotokan (1974);
  • 18 kata supérieurs: Karate-dô Shôtôkan Ryû (1982);
  • Karaté-dô kata: 5-Heian, 2-Tekki (1983).

Per i suoi atleti è l’espressione più alta del Karate Tradizionale

Sono la rettitudine del suo comportamento, la sua lealtà e la profonda umanità che erano proprie di questo grande Sensei che lo fanno apprezzare da tutti i praticanti di Karate e non solo. Al di là dei diversi stili e delle singole federazioni.

Note


[COMBATTIMENTO] L’evoluzione storica del Jujitsu

L’inizio della codificazione delle forme di lotta a mani nude, come il Chikara Kurabe (la prova di forza), o del Bu Jutsu (l’arte del combattimento), non ha in Giappone una data certa.

È evidente che il suo sviluppo fu, come purtroppo in ogni altra parte del mondo, legato all’accrescimento delle necessità belliche, sia d’offesa che di difesa, del popolo stesso.

Nel corso dei secoli si è avuta dunque un’evoluzione di queste arti di combattimento e un loro affinamento dal punto di vista tecnico, con un’interdipendenza molto forte e tipicamente orientale dall’aspetto etico, religioso e filosofico.

Questa molteplicità di nozioni tecniche e di regole di vita ha portato sin dall’origine ad una codificazione necessaria per poter essere tramandata nel tempo; nell’epoca feudale, per tutto il periodo del Medioevo giapponese, sino al decreto imperiale del 1876 che privava i Samurai del diritto di portare la katana e il Wakizashi.

La definizione del Jujitsu si attribuiva genericamente alla forma di combattimento a mani nude ed in alcuni casi con armi

Essa era praticata all’interno di una moltitudine di Ryu (le scuole di arti marziali) disseminate per il Giappone.

Le scuole di arti marziali studiavano e tramandavano dal fondatore del Ryu (il Shodai o Soke) e successivamente dal Maestro del Ryu (il Sensei).

Al discepolo migliore della scuola il Libro o Documento Segreto (il Densho) del Ryu, che racchiudeva le spiegazioni delle tecniche segrete di combattimento lasciate in eredità dagli antichi Bushi (i guerrieri).

Il contenuto di questo libro poteva essere reso noto dal Soke solo agli adepti della scuola, era gelosamente custodito dal clan, anche a costo della vita dei suoi appartenenti e aveva diversi livelli di divulgazione anche all’interno del Ryu stesso.

I discepoli più fidati potevano accedere agli Okuden (i segreti) più reconditi, mentre gli altri allievi avevano accesso all’Omote (la parte più semplice e superficiale delle nozioni).

Frequentemente il Juko Gashira era il figlio dello Shodai o del Sensei e prendeva in conseguenza di ciò il titolo di Waka Sensei (Giovane Maestro).

I metodi di combattimento dei vari Ryu erano molteplici e davano la possibilità ai seguaci della scuola di specializzarsi nelle tecniche di Toshunobu (difesa a mani nude con aggressore disarmato), in quelle di Bukinobu (difesa a mani nude con aggressore armato) o nel Bugei (l’arte del combattimento con le armi).

Vi erano anche ulteriori distinzioni all’interno di ogni Ryu e delle suddivisioni in branche dette Ha che generavano altri Cryugi (stili di pratica).

Ogni Ryu professava la sua invincibilità nel combattimento e non era raro che i vari clan si sfidassero in incontri detti Dojo Arashi (la tempesta che si abbatte dove si studia il metodo)

Tutti i praticanti di un Ryu si recavano presso un altro Ryu rivale con il loro Sensei e si battevano per saggiare l’efficacia del proprio stile, il Ryu sconfitto era così disonorato ed i suoi adepti lo abbandonavano per seguire quello del vincitore.

La codificazione più antica di una forma di combattimento in Giappone riguarda il Sumo, la tradizionale lotta legata ai riti dello Shinto (la religione priva di divinità superiori che venera i principi della natura come Il sole, la terra , la pietra, le piante etc), ma nell’epoca Kamakura (1115 – 1333) i Bushi rielaborarono delle tecniche di combattimento senza armi efficaci anche contro un’avversario che ne fosse stato provvisto, derivanti dall’antica arte del Kumi Uchi (tecnica del contatto, dell’afferrare per iniziare il combattimento) e dal Tai Jutsu (l’arte del corpo), di cui non di hanno notizie certe, che presero appunto la denominazione di Jujitsu.

In pratica il jujitsu serviva al Bushi o meglio al Samurai per giungere all’annientamento fisico dell’avversario e spesso alla sua morte senza l’uso delle armi

Questo metodo di combattimento si aggiungeva a quelli riguardanti le armi specifiche, tra cui il Ken Jutsu (l’arte della sciabola) che prese ad avere una parte predominante nell’addestramento dei Bushi e dei Samurai in partire dal X secolo.

Pur avendo come bagaglio tecnico il Kyuba no michi (l’arte del tiro con l’arco e dell’equitazione), i Ryusha nei vari Ryu avevano un addestramento specifico in qualche forma particolare di combattimento che veniva contraddistinto da varie denominazioni e traeva origine molto spesso dall’abilità del Soke in quello specifico stile.

Note


COPERTINA allunaggio

[LUNA 1969] 54 anni fa l’Allunaggio

Quando la sonda Lro (Lunar Reconnaissance Orbiter) lanciata dalla Nasa comincerà ad osservare il suolo lunare, potrà vedere ciò che è rimasto delle missioni Apollo che 40 anni fa hanno portato per la prima volta l’uomo sulla Luna.

Potrà vedere, per esempio, il modulo di atterraggio Eagle con cui il 20 luglio 1969 il comandante della missione Apollo 11, Neil Armstrong, e Buzz Aldrin toccarono il suolo lunare, e potrà vedere anche i moduli delle altre cinque missioni del programma Apollo che hanno portato uomini sulla Luna.

LO SBARCO SULLA LUNA

Gli sforzi compiuti per anni da 400.000 persone culminarono nella missione Apollo 11, che il 16 luglio 1969 partì dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral (Florida) e il 19 raggiunse l’orbita lunare.

Alle 22,17 (ora italiana) del 20 luglio Neil Armstrong e Buzz Aldrin toccavano il suolo lunare a bordo del modulo Eagle, mentre il loro compagno Michael Collins controllava il modulo di comando Columbia.

Intanto, dalla Terra, oltre 500 milioni di persone seguivano le immagini dello sbarco trasmesse in diretta dalle TV di tutto il mondo.

Neil Armstrong, Apollo 11 Lunar Lander (1969)

CORSA ALLA LUNA

A più di 50 anni dallo sbarco, le 170 tonnellate di oggetti lasciati dall’uomo sul suolo lunare raccontano la storia di una corsa allo sbarco molto diversa da quella attuale.

Toccare il suolo lunare era l’obiettivo della sfida tra Stati Uniti e Unione Sovietica nata in piena Guerra Fredda e nella quale l’Urss aveva affermato il 4 ottobre 1957 il suo primato agli occhi del mondo lanciando con successo il primo satellite artificiale, lo Sputnik.

Le testimonianze sono ancora sparse sul suolo lunare, tra Mare delle Nuvole e Mare della Tranquillità, dove sono cadute le sonde sovietiche lanciate alla fine degli anni ’50.

Nel Mare della Serenità c’è il simbolo di un altro primato sovietico, la sonda Luna 2, primo oggetto costruito dall’uomo ad avere mai toccato il suolo lunare.

Ma nel Cratere Copernico e nell’Oceano delle Tempeste si trovano i simboli della riscossa americana, con le sonde Surveyor lanciate fra il 1966 e il 1977.

Il Lago dell’Eccellenza racconta invece una storia molto più vicina e molto diversa, nella quale alla corsa alla Luna si affacciano nuovi protagonisti, come l’Europa: È qui che nel 2006 si è ”tuffata” la sonda Smart 1, dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa).

UN LUNGO SILENZIO

L’ultimo uomo a camminarci sopra è stato, nel dicembre 1972, Eugene Cernan, membro della missione Apollo 17.

Poi la corsa si è fermata per un lunghissimo periodo. Un silenzio che, secondo gli esperti, si potrebbe spiegare con l’immensa mole di dati e materiali (382 chilogrammi di rocce lunari) portati a Terra dalle missioni Apollo e Luna.

Ma nel frattempo l’arrivo dello Shuttle e la nascita della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) avevano concentrato tutta l’attenzione, mentre le missioni scientifiche si sono concentrate sugli altri pianeti del Sistema Solare, allora sostanzialmente sconosciuti.

NUOVI PROTAGONISTI

Dall’epoca dello sbarco sulla Luna le cose sono molto cambiate; non c’è’ più la contrapposizione fra due blocchi, ma una gara fra nazioni che vogliono affermare la loro importanza a livello tecnologico, come Cina e India, e nazioni, come gli Stati Uniti, che vogliono mantenere la leadership conquistata 40 anni fa

Enrico Flamini, Responsabile dell’Unità per l’osservazione dell’universo dell’Agenzia Spaziale Italiana (2009)

Osserva il responsabile dell’Unità per l’osservazione dell’universo dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), Enrico Flamini.

E stanno nascendo nuove alleanze, come quella fra Russia e India, che punta a portare un veicolo Rover sulla Luna.

Note

  • Foto di copertina File (Wikimedia Commons)
  • Grafica copertina ©RIPRODUZIONE RISERVATA
  • Fonte: Articolo Ansa di Enrica Battifoglia
  • Articolo pubblicato originariamente nel 2009

CERVELLO: In molti l’ONESTÀ è innata

L’onestà è nel cervello e chi ne è dotato non ha bisogno di trattenersi dall’imbrogliare ma si comporta in modo naturalmente onesto, senza sforzi.

Lo dimostra uno studio di Joshua Greene e Joseph Paxton della Harvard University di Boston, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

Grazie a questo studio, quindi, gli esperti hanno messo a punto un ‘test dell’onesta”, per capire chi è onesto di indole e chi, invece, se ha l’occasione tende ad imbrogliare.

Riportato sul magazine scientifico New Scientist, lo studio potrebbe avere risvolti pratici discutibili: una volta validato, un test simile potrebbe essere usato, per esempio, per ‘controllare’ gli impiegati e la loro onestà sul luogo di lavoro.

Il test dell’onestà si basa su un gioco semplice, il lancio di una moneta

I partecipanti devono scommettere sull’esito (testa o croce) del lancio; nella prima parte del test, prima del lancio, i volontari devono scrivere su un foglio cosa prevedono esca.

Nella seconda parte, invece, devono dire, a lancio avvenuto, se avevano previsto giusto (e quindi sta a loro dire se hanno vinto o meno la scommessa).

È ovvio che questa dichiarazione sta alla loro onestà personale, perché potrebbero imbrogliare e dire di aver ‘azzeccato’ l’esito del lancio e quindi vinto la scommessa.

Eppure, in molti casi i volontari sembrano rispondere con onestà senza approfittare dell’opportunità di imbroglio; mentre altri tra loro (lo si capisce con la statistica di successo della previsione) imbrogliano di certo, dicendo di aver previsto bene l’esito del lancio.

Durante queste dichiarazioni i neurologi hanno monitorato aree del loro cervello, come la corteccia prefrontale, legate alle decisioni e al controllo dei comportamenti, usando la risonanza magnetica funzionale.

Così hanno visto che nel cervello degli onesti non si accendono queste aree prima di dichiarare che hanno vinto o perso la scommessa; viceversa esse si accendono nel cervello degli imbroglioni.

Secondo i neurologi, ciò significa che l’onestà è un comportamento di default che non richiede autocontrollo da parte del cervello, come a dire che per gli onesti non vale il detto “l’occasione fa l’uomo ladro”. I disonesti, invece, devono pensare al fatto se sfruttare o meno l’occasione di imbrogliare.

Note


Morio Higahonna, il Gran maestro ed eterno allievo

Il 5 settembre 2007, il Maestro Anichi Miyagi concesse a Morio Higaonna il 10° dan di Karate, con il beneplacito di Shuichi Arakaki.

Morio nacque a Naha il giorno 25 Dicembre del 1938

Cominciò a praticare il Karate a 13 anni con suo padre, un poliziotto okinawense praticante di Shoin Ryu,.

Un paio di anni più tardi si allena sotto la guida di un allievo del Maestro Chojun Miyagi, il quale però lo incoraggia a praticare il Goju Ryu ed entra così nel Dojo del Maestro Anichi Miyagi, dove in realtà ad impartire le lezioni era proprio il Maestro Chojun.

Nonostante non fosse conosciuto come Maestro, la tecnica di Anichi era molto pura rispetto a quella di Chojun Miyagi.

Kina Sensei normalmente diceva che i movimenti di mano di Anichi erano molto simili a quelli di Chojun Miyagi e che le sue espressioni e il suo modo di parlare erano esattamente uguali,

Lui era molto preciso nei suoi movimenti, per questo motivo il suo Karate era molto puro in relazione a quello che aveva imparato da Chojun.

Li Morio Higaonna perfezionò la sua tecnica e strinse il legame ancor di più con Anichi Miyagi.


Racconta Morio:

Arrivavo al Dojo verso le 07:00 ed entravo come tutti dal retro.

Normalmente arrivavo per primo e dopo aver salutato la moglie di Chojun Miyagi, mi mettevo a lavorare  mi cambiavo i vestiti e mi mettevo a pulire il Dojo.

Scopavo e lo inumidivo leggermente, per evitare scivoloni durante l’allenamento, quindi tiravo fuori gli attrezzi per l’allenamento che conservavamo dentro riempivo le anfore d’acqua.

Nel giardino del dojo di Chojun, la moglie si incaricava di riscuotere le quote, ma non passò molto tempo che la quota di Morio venne eliminata, come premio dei suoi sforzi, della sua costanza e dei suoi progressi.

Mia madre pagava la mia quota mensile nel Dojo, ma dopo alcuni mesi Myazato Sensei, vedendomi allenare con serietà e duramente, non volle che pagassi più.

Quando portai il denaro a mia madre, lei mi rimandò di nuovo a pagare, ma Myazato non accettò, decisi allora di partecipare di più all’attività del Dojo, insegnando ai nuovi, pulendo ecc…

A volte, Anichi Sensei veniva a casa mia di domenica, affinché se potevo, andassi con lui a casa di Chojun Miyagi, per riparare il makiwara, pulire o qualunque altra cosa fosse necessaria.

Anichi dedicava tutto il tempo libero al dojo del Sensei Chojun Sensei.

“Quando finivamo, la moglie di Chojun normalmente ci dava una tazza di tee e qualche pasticcino, e quando ce ne andavamo ci dava delle borse di arance affinché le portassimo a casa nostra“


Chojun Miyagi muore nel 1953. Sono anni molto difficili per Higaonna Sensei

Chojun Miyagi muore nel 1953, sono anni molto difficili per Higaonna Sensei, perchè deve lavorare su vari fronti, senza trascurare la sua pratica personale.

Nel 1959 Anichi ha bisogno di denaro per mantenere la sua famiglia e si arruola nella marina mercantile.

Assunto da una compagnia petrolifera, Morio perde per il momento il suo quotidiano insegnamento e ad esempio,egli stesso racconta:

Quando Anichi entrò nella Marina Mercantile, logicamente lasciai il Dojo, non mi sentivo più a mio agio, inoltre me ne andai a Tokyo per studiare all’università ed insegnare il Karate, poiché lì c’era uno dei miei compagni, che sostituii nelle lezioni quando lui se ne andò via. Fu un periodo in cui mi allenavo ed insegnavo tutto il giorno, fu un bel periodo!

L’arrivo a Tokyo

Nel 1960 Morio si trasferisce a Tokyo per entrare all’università, recandosi ad Okinawa un paio di volte all’anno come minimo, il che gli permise di non staccarsi dal Karate della piccola isola.

Molto presto inizia ad impartire lezioni di Karate a Takushoku che era un’università con un importante club di Karate Shotokan.

In effetti, a causa di un tremendo scontro in cui uno dei suoi membri si era visto coinvolto, l’università aveva proibito il Karate.

Ciò diede l’opportunità a Morio di iniziare nuove lezioni di Karate, questa volta di Goju Ryu

Poco dopo essersi stabilito nella sua nuova dimora, ed ebbe un gran successo.

Il 30 dicembre 1960 si fecero i primi esami multi-stile di passaggio di Dan ad Okinawa.

I principali istruttori furono promossi 5° Dan, ma M° Morio era contrario ai gradi, pensava che non portassero altro che problemi.

Dopo la laurea in economia Morio inizia ad impartire lezioni di Karate in altre università della capitale del Giappone, e la sua fama crebbe ancor di più.

Questa sua fama gli creò non pochi nemici nell’ambito del Karate

Uno con cui ebbe a che fare per diversi anni fu Eichi Miyazat.

Morio gli chiese anche la collaborazione per mettere fine alle diatribe, ma Eichi rifiutò accusando Morio di tentare di cambiare la storia del Goju Ryu attraverso un suo libro.

La partenza da Tokyo negli Stati Uniti per motivi economici

Giudicando impossibile vivere di solo Karate, Morio si trasferì negli Stati Uniti. Non ci resistette per molto, e tornò ad Okinawa per poter continuare ad apprendere il Karate.

Considerandosi non un Maestro, ma un allievo pronto ad imparare tutto ciò che altri Maestri potessero insegnarli, ancora insegna ed impara.

Il suo Kata preferito è Seishan, continua ad insegnare in un Dojo tipico Okinawense, piccolo, di legno, con un’entrata diretta dalla strada, senza ornamenti, ma solo ricordi.

Note


Goffredo di Buglione: Il crociato perfetto?

Goffredo di Buglione è entrato nel mito come “il liberatore” (a suon di massacri) di Gerusalemme, ma il suo mito postumo è assai lontano dalla realtà

Egli è passato alla storia come “il capitano/ che il gran sepolcro liberò di Cristo “, il quale “ molto operò col senno e con la mano /molto soffrì nel doloroso acquisto“

Ma Torquato Tasso che scrisse questi versi nel Cinquecento, era più poeta che storico e quindi si concesse alcune licenze, appunto, poetiche.

Fra queste cosiddette licenze le principali da segnalare sono:

  • La prima: Goffredo di Buglione non era capitano ma Duca;
  • La seconda: a conquistare Gerusalemme non fu soltanto né principalmente lui;
  • La terza: l’acquisto fu sì doloroso, ma per i vinti, che vennero trucidati senza distinzione di sesso né di età.

Chi fu dunque, al di là delle leggende, il (presunto) super condottiero della prima crociata?

Iniziamo col dire che in realtà si chiamava Godefroy e che Buglione è una traduzione casereccia di Bouillon, cittadina del Lussemburgo (non lo stato attuale, bensì l’omonima provincia Belga) dove la famiglia del “capitano“ aveva un castello.

Lui però non nacque lì, ma quasi di sicuro a Baisy-Thy, frazioncina di Genappe, che è anch’essa in Belgio, ma nella regione del Bramante, più incerta del luogo di nascita e la data, per convenzione, si parla del 1060 circa.

Ma perché se era nato altrove, Godefroy è chiamato di Buglione?

Per rispondere occorre fare un passo indietro e dire due parole sulla famiglia materna del futuro crociato, che aveva un albero genealogico strapieno di Goffredi (il nostro era il quinto), un grande feudo in Lorena (Francia) e una salda devozione per l’impero, allora impegnato in quel duro braccio di ferro con il papato che va sotto il nome di “lotta per le investiture“, però suo zio Goffredo lV detto il gobbo aveva sposato Matilde di Canossa, supporter del papa.

Quel matrimonio politicamente spurio era finito malissimo

Prima lei aveva lasciato lui, poi lui aveva fatto oggetto lei di un cocciuto stalking, infine narra un antico cronista, Landolfo Seniore da Milano-lei aveva fatto uccidere lui “mentre stava seduto al cesso, infilandogli una spada nell’ano“

Ammazzato in quel modo atroce, il povero zio Goffredo fu trattato male anche da morto, perché l’imperatore Enrico lV, dimenticò dei servigi da lui ricevuti e, col pretesto che il defunto non aveva eredi, ne aveva confiscato il feudo.

Che Goffredo lV non avesse figli era vero

Matilde gli aveva dato solo una bambina, morta in tenerissima età, però lo sfortunato nobiluomo lorenese aveva indicato come suo successore un nipote minorenne, il nostro Godefroy.

Finì che l’imperatore, pur confermando le confische in Lorena, tacitò il giovane erede assegnandogli il titolo di conte (poi duca) e certe terre periferiche del feudo dello zio, tra cui appunto il Lussemburgo belga, Bouillon compresa, obbediente, Godefroy si stabilì lassù e diventò così “di Buglione“

Se le date convenzionali sono giuste, quando zio Goffredo morì (1076) il suo omonimo nipote aveva solo 16 anni e ne aveva 35 quando papa Urbano ll indisse la prima crociata

Era una chiamata alle armi rivolta a tutto il mondo cristiano, ma soprattutto ai francesi, che il pontefice blandiva ed incitava attribuendo loro “insigne gloria nelle armi, grandezza d’animo, agilità di membra“, Godefroy rispose subito all’appello, forse per ardore religioso, forse per opportunismo, forse per vendetta.

L’ipotesi più probabile comunque è la seconda, infatti la lotta per le investiture era ancora in atto, il papa era in netto vantaggio e la dinastia dei Goffredi, già militante nel fronte avverso, doveva rifarsi una verginità agli occhi del probabile futuro vincitore.

Più curiosa è però l’ipotesi numero tre, quella della vendetta

Ad accreditarla è il De liberatione civitatum Orientis, un libretto scritto da un crociato ligure, Caffaro da Caschifellone, il quale narra che Goffredo andò una prima volta a Gerusalemme coperto non con una corazza militare ma con un saio da pellegrino.

In data incerta fra il 1083 e il 1085, si imbarcò a Genova con tale Roberto, conte di Fiandra, su una nave Pomella, fece tappa in Egitto, poi sbarcò in Palestina e salì a piedi a Gerusalemme.

Tutto filò liscio fino all’ingresso del Santo Sepolcro, dove il custode (musulmano) gli chiese il “bisante“ (la tassa d’ingresso che tutti i cristiani pagavano) .

Ma Goffredo non aveva spiccioli “Perché il suo tesoriere che portava il denaro, si era allontanato“

L’intoppo degenerò in alterco, poi in contatto fisico: “Mentre Goffredo richiamava il tesoriere, uno dei guardiani della porta gli sferrò un gran pugno sul collo, il Duca incassò con pazienza l’insulto, ma pregò Dio che prima di morire gli concedesse di vendicare l’offesa con la spada”.

L’aneddoto è vero?

Sull’attendibilità di Caffaro si nutrono molti dubbi, certo è che una volta indetta la crociata il duca di Buillon si mise al lavoro di buona lena.

Diede in pegno al vescovo di Liegi il suo castello, vendette alcune tenute di quello di Verdun, taglieggiò i sudditi ebrei, coinvolse nella colletta altri nobili, poi con il ricavato arruolò un esercito robusto: 12 mila uomini secondo le stime più prudenti, 10 mila cavalieri e 70 mila fanti secondo le più generose.

Non era l’unica armata in partenza per Gerusalemme, ma la più numerosa sì.

I crociati di Godefroy partirono nell’agosto 109

Il loro capo aveva il physique du role, ”Un grande cavaliere dai capelli lunghi e dalla barba bionda“ lo descrive, sulla scorta di fonti musulmane, lo storico franco-libanese Amin Maalouf, autore del best-seller Le crociate viste dagli arabi .

Ma in realtà Goffredo era capo fino ad un certo punto

Al comando dell’armata c’era un un triumvirato formato da lui e dai suoi fratelli Eustachio e Baldovino.

Eustachio era una figura scialba, defilata che aspettava solo di tornare a casa, come un soldato a fine naja, gli altri,invece, si facevano notare, ma per motivi diversi.

I due fratelli presentavano un contrasto forte, ha scritto uno dei più famosi storici delle Crociate, l’inglese Steven Runciman

Baldovino era ancor più alto di Gofferdo, era scuro quanto l’altro era biondo, ma di carnagione molto chiara. Goffredo era gentile nei modi, Baldovino arrogante e freddo, Goffredo era di gusti semplici, Baldovino pur potendo sopportare privazioni, amava il lusso, Goffredo era casto, Baldovino indulgeva ai piaceri del sesso

Steven Runciman, A History of the Crusades: Volume 1, The First Crusade and the Foundation of the Kingdom of Jerusalem (Cambridge University Press 1951)

La colonna dei tre fratelli seguì per un tratto il Danubio, puntando poi su Costantinopoli

Quasi tutti i crociai raggiunsero la Terrasanta via Italia, con imbarco a Brindisi. Invece la colonna dei tre fratelli seguì per un tratto il Danubio, puntando poi su Costantinopoli.

La  scelta creò qualche problema con ungheresi e bizantini.

Cristianissimi entrambi, Colomanno, re d’Ungheria, per concedere il transito pose condizioni-capestro: “chiese che gli fosse dato in ostaggio Baldovino, fratello del capo con la moglie e la famiglia“ narra Alberto di Aquisgrana, un prelato coevo, autore di una Historia hierosolymitanae expeditionis.

Goffredo non fece una piega

Consegnò il fratello (recalcitrante) e attraversò l’Ungheria senza incidenti, gli andò peggio più avanti, nella Tracia Bizantina, dove in assenza di ostaggi il controllo della truppa sfuggì di mano ai capi della spedizione:

tutta quella terra” racconta il solito Alberto “fu data in preda ai pellegrini e ai soldati in arrivo, che per otto giorni vi fecero tappa e saccheggiarono tutta la regione“

Con questo prologo, ben si capisce che poi i rapporti tra Goffredo e l’imperatore bizantino Alessio non furono mai più cordiali.

Una volta arrivati a Costantinopoli, i crociati furono costretti ad accamparsi fuori città e Alessio intimò a Goffredo di giurargli fedeltà.

Il duca rifiutò, l’imperatore reagì tagliando i rifornimenti ai crociati

In breve tutto precipitò, il duca rifiutò, l’imperatore reagì tagliando i rifornimenti ai crociati e, mentre il prode Godefroy non sapeva più che pesci pigliare, suo fratello Baldovino risolse il problema a modo suo, facendo provviste a suon di rapine nei sobborghi della capitale.

Il braccio di ferro costò diversi morti e durò circa dal Natale 1096 alla Pasqua 1097, infine Goffredo cedette e si sottomise.

Poi a Costantinopoli giunsero altri crociati, imbarcati a Brindisi e lo scenario mutò radicalmente

Il vero capo della spedizione divenne Boemondo d’Altavilla, duca normanno-pugliese, che evitò inutili prove di forza con Alessio.

Anzi, gli promise che tutte le terre conquistate ai musulmani sarebbero state consegnate all’Impero.

Seguì il passaggio del Bosforo (26 aprile 1097) e la lenta calata verso sud-est attraverso l’Anatolia, dove finalmente i crociati smisero di far guerra ad altri cristiani e si scontrarono con i loro nemici naturali, i turchi.

La figuraccia politica che Goffredo aveva fatto a Costantinopoli non fu riscattata sul piano militare

Alla prima operazione di rilievo, l’ assedio di Nicea , il “Duca di Buglione“ si limitò a presidiare un tratto di mura, senza partecipare ai violenti scontri con un’armata turca giunta in aiuto agli assediati.

Il peso della battaglia gravò tutto su altri due comandanti, Roberto di Fiandra e Raimondo di Tolosa.

In quei giorni Goffredo sostenne da solo un duello con un nemico anomalo: Un orso

A narrare l’aneddoto è sempre Alberto di Aquisgrana.

L’orso assalì un pellegrino addetto alle salmerie, ma il duca “afferrata subito la spada e spronato con forza il cavallo” accorse in aiuto al poveretto, mise in fuga l’orribile fiera e la inseguì nei boschi.

Vistosi braccato, l’orso si fermò, abbatté il cavallo del duca, e poi, eretto sulle gambe posteriori, prese a unghiate il nostro eroe.

Benché ferito e atterrato, “dispiacendogli l’idea di morire di morte vile per opera di un animale sanguinario“ reagì e trafisse l’orso nel fianco destro.

Orsi a parte, le prime vere due battaglie che Goffredo sostenne furono nel 1098 ad Antiochia (oggi Antakya, nel sud della Turchia)

Una fu in attacco per prendere la città, l’altra in difesa, per respingere un contropiede nemico.

In entrambe i casi il primattore fu però il pugliese Boemondo, che secondo Caffaro di Caschifellone “Uccise tutti i turchi assassini e li mandò così a patire le pene dell’inferno insieme a Maometto“.

Stavolta anche Goffredo combatteva sul camp, ma come (relativo) comprimario, dirigeva tre schiere di fanti su sette.

Solo il 7 giugno 1099 il Duca di Buglione arrivò in vista di Gerusalemme

Meta prefissata della spedizione da lui fortemente voluta e meno saldamente guidata.

Schierò i suoi uomini all’angolo nord-ovest della città, mentre gli altri comandanti occupavano i lati nord, sud e ovest. Il lato est rimase libero per carenza di truppe.

Un primo assalto alla città scattò il 12 giugno, preceduto da un pellegrinaggio al Gestsemani, l’Orto degli ulivi dove per i Vangeli era iniziata la passione di Gesù.

Ma nonostante le preghiere nell’Orto, l’attacco si risolse in un flop.

A salvare la situazione furono un’eclissi di Luna, l’apparizione di un morto e l’arrivo nel porto di Giaffa di due navi genovesi.

L’eclissi fu interpretata come un segnale premonitore della prossima fine della mezzaluna musulmana, il morto si chiamava Ademaro di Monteil, era un vescovo francese bellicoso e carismatico, che aveva guidato un contingente crociato fino ad Antiochia, dove poi era morto di tifo.

Ebbene il 6 luglio un prete, tale Pietro Desiderio, disse di aver visto il fantasma di Aldemaro, che incitava ad un nuovo attacco.

La notizia risollevò il morale delle truppe, ma un effetto ancor più positivo ebbe l’arrivo delle navi genovesi, che furono subito smontate e trasferite a pezzi sotto le mura di Gerusalemme.

Il legname ricavato servì per costruire due torri mobili (una per Raimondo, una per Goffredo), da usare nell’assalto finale, che iniziò la notte sul 14 luglio con un finto attacco diversivo nel settore nord-ovest ( quello di Goffredo), e due attacchi veri altrove.

L’obiettivo principale era riempire il fossato per consentire alle torre mobili di accostarsi alle mura

L’operazione riuscì per prima lasera del 14, alla torre di Raimondo, che però finì bruciata.

Quella di Goffredo arrivò la mattina del 15 e quando i crociati cominciarono a scavalcare le mura, i primi a salire furono due cavalieri fiamminghi che i libri di storia hanno dimenticato: Litoldo e Giberto di Turnai.

Il duca di Bouillon fu tra i primi a seguirli, ma si fermò sugli spalti, lasciando che a guidare l’occupazione della città fosse un ardito nipote di Boemondo: Tancredi d’Altavilla, futuro principe di Galilea, all’epoca 27enne.

Seguirono giorni da incubo “la popolazione della Città Santa“ scrisse lo storico curdo Ibn al-Athir “fu passata a fil di spada e i franchi massacrarono i musulmani per una settimana“.

La liberazione diventò una Kermesse di macellai, che oscurò per ferocia altre barbarie precedenti

Quando non ci fu più nulla da predare e nessuno da ammazzare, i crociati si posero il problema di dare a Gerusalemme un re cristiano.

Ma i candidati non erano molti, Ademaro, vescovo carismatico, che avrebbe potuto governare in nome del papa, era morto.

Boemondo, vero capo della crociata, si era già sistemato come principe di Antiochia: idem per Baldovino, autoproclamatosi conte di Edessa: Eustachio aveva già pronti i bagagli per tornare a casa: Roberto di Fiandra pure.

Restarono in lizza solo due “papabili“, Raimondo di Tolosa e Goffredo

Il primo però rifiutò, così quel finto capo, grande organizzatore ma cattivo politico e mediocre soldato, divenne sovrano di Gerusalemme, anche se in un sussulto di decenza rifiutò il titolo di Re e scelse quello di difensore del Santo Sepolcro.

Governò un anno, poi si spense e il Regno di Gerusalemme passò a suo fratello Baldovino, come era scritto dal destino.

Note

Bibliografia

  • Le Crociate viste dagli Arabi (Les Croisades vues par les Arabes, 1983), trad. di Z. Moshiri Coppo, Torino, Società Editrice Internazionale, 1989, ISBN 978-88-050-5050-5
  • A History of the Crusades: Volume 1, The First Crusade and the Foundation of the Kingdom of Jerusalem (Cambridge University Press 1951)
  • Alberto di Aquisgrana, Historia Hierosolymitanæ Expeditionis, XII secolo
  • Ali Ibn al-Athir, al-Kāmil fī l-taʾrīkh (“La Storia Completa”, in arabo: الكامل في التاريخ ), 1231 d.C. circa

UGUAGLIANZA: Un aneddoto del SENSEI Richard Kim

I filosofi americani, dai dilettanti ai più esperti, hanno riflettuto sull’uguaglianza degli uomini e per comprovare le loro teorie.

Nel terreno della morte non esistono razze o credenze, ciò che conta è il bene che si è fatto nella vita.

Sono ricorsi alla Dichiarazione dei Diritti, alla Costituzione degli Stati Uniti ed al famoso discorso a Gettysburg di Lincoln.

Da giovane mi inquietava il problema dell’uguaglianza

In un ristorante di San Farcisco non hanno voluto servire alcuni miei amici per la loro razza, in questo modo così doloroso hanno potuto saggiare gli invincibili artigli della discriminazione sociale.

Erano arrabbiati, non erano mai stati trattati così ad Honolulu, dove erano nati, uno di loro pensò a voce alta “Se fossi nell’Elks Club lo capirei, ma in un locale pubblico…”

Un giorno dopo l’allenamento, parlai di uguaglianza al mio Sensei

In realtà gli parlai del fatto di San Francisco, una città in cui si supponeva non abbondassero gli atteggiamenti di questo tipo.

“Dopo la nascita” – mi disse Sensei – “ci sono due luoghi nella vita in cui gli uomini sono uguali“ gli chiesi quali fossero e mi rispose:

Il giorno in cui entri in una palestra sei come gli altri, cominci dal basso; ed il giorno in cui ti trovi nel terreno della morte, quando la morte ti guarda, non c’è diversità siamo tutti uguali

“Ma cosa succede con le leggi?” – gli risposi “la Dichiarazione dei Diritti, la Costituzione… La legge è buona quanto la coscienza degli uomini” proseguì il Maestro.

Osserva il cuore non la legge, tutto sta nel cuore e, come artista marziale, dovresti renderti conto che il cuore degli uomini non segue il ritmo della legge.


Mi raccontò la storia dove Hozoin Gakuzenbo Inye, uno dei maestri migliori di lancia del Giappone, riesce finalmente a battere in un combattimento Yagyu Muneyoshi

Nei precedenti combattimenti Yagyu aveva avuto sempre la meglio su Inye, ma la superiorità di Inye si faceva più evidente.

Sfortunatamente, Inye rimane così tanto impressionato di sé stesso per il combattimento vinto, che la vittoria stessa gli dà alla testa.

Un giorno un giovane di circa 17 anni giunge in palestra da Inye e gli dice: sono venuto ad imparare ad usare la lancia, chiedo se puoi impartirmi delle lezioni perché tu sei il migliore e voglio imparare da te.

Il ragazzo viene accettato, Inye tratta il ragazzo in una maniera completamente inumana e si adopera al massimo per scoraggiarlo, ma il ragazzo non fa una piega e continua a dire che vuole lottare.

Inye accetta, in dieci giorni sconfigge lo stesso Inye e dopo un mese Inye non vuole neppure entrare in palestra, perché ha paura del ragazzo.

Un giorno il ragazzo si avvicina ad Inye e gli dice: “non mi fido molto di te, ti sopravaluti, non capisco come hai potuto sconfiggere Yagyu, ti sfido ad un vero combattimento, tra cinque giorni verrò nel tuo giardino, preparati ad affrontare la morte” – e se ne va.

In quel momento a Inye appare tutto più chiaro e ritorna al suo stato normale, è molto preoccupato.

”Perché non mi sono preoccupato per quel ragazzo?” – si chiede, dovevo trattarlo meglio!

Impaziente la notte prima del confronto Inye si reca nel giardino con la lancia, rimane in piedi sul bordo dello stagno e si ferma a contemplare l’acqua.

Lo sguardo del ragazzo lo scorge dal fondo.

Improvvisamente passa una nuvola e tutto si oscura e quando la nuvola passa Inye vede il riflesso della sua lancia nell’acqua con una croce sulla punta.

Nervoso, si affretta a recarsi a casa del fabbro del tempio e gli chiede ciò che oggi è noto come il Kama-yari la famosa lancia Hozoin.

Arriva la notte del confronto ed Inye attende nel giardino l’arrivo del ragazzo, ma il ragazzo non appare.

Al suo posto giunge un monaco con un messaggio: il ragazzo ti ha lasciato questo, dice il monaco.

Inye apre il messaggio il ragazzo aveva scritto:

Tratta tutti gli uomini come esseri umani, con decenza e rispetto, non siamo tutti uguali in abilità o in creatività, ma tutti siamo esseri umani.

L’importante è ciò che conserviamo nel cuore, sono sicuro che oggi l’hai capito, è l’insegnamento che voglio darti, quando ti sei reso conto che avresti affrontato la morte, hai scoperto il denominatore comune che ci rende tutti uguali, nella vita, l’uguaglianza è nel cuore degli uomini.

Note


Gichin Funakoshi, il fondatore del Karate-dō

Premessa

Gichin Funakoshi non fu solo il fondatore del karate-dō, ma seppe inoltre infondere a quest’Arte il suo senso della vita. Le tecniche e i rudimenti del Karate-do iniziarono ad esistere, come tutti sanno, quando Funakoshi li organizzò in un tutto coerente.

Fu proprio la visione e l’impegno personale del suo carattere a dare forza e senso globale ad uno stile che si è consacrato come uno dei punti di riferimento delle Arti Marziali in tutto il pianeta.

Per questo motivo conoscere a fondo la concettualizzazione del Karate di Funakoshi non è uno sforzo inutile, oggigiorno sono pochi gli studenti del Karate che conoscono le formule originarie della loro Arte, forse, per alcuni può sembrare persino anacronistica la pretesa di questo articolo.

Chi non conosce il passato, difficilmente potrà affrontare il futuro

Funakoshi fu un uomo con una personalità molto particolare, e per avvicinarci al Funakoshi uomo, alla sua personalità non c’è niente di meglio che leggersi la sua autobiografia Karate-Do, Il mio cammino, ormai tradotta in quasi tutte le lingue.

In essa troviamo un uomo semplice, non un intellettuale. Un uomo con una morale retta e ben definita, con principi che delineano una forte spina dorsale dalla quale sgorga un carattere forte e leale alle proprie convinzioni.

Senza dubbio non dovette essere facile avere a che fare con lui in vita: tuttavia era una di quelle personalità magnetiche, un leader nato, capace di trasmettere all’esterno il suo messaggio attraverso una forte impronta, e benché l’Arte che lui definì assomigli poco alle forme ed ai principi che conosciamo oggi come Karate, non va dimenticato che la sua evoluzione sarebbe stata impossibile senza un punto di partenza fermo e stabile, come quello che il Maestro seppe imprimere alla via della mano vuota.


Venti principi che definiscono la formale etichetta e l’atteggiamento che devono esistere nella pratica dell’Arte

Per questo è essenziale comprendere uno dei suoi lasciti principali, sfornati dal suo Dojo Kun, venti principi che definiscono la formale etichetta e l’atteggiamento che devono esistere nella pratica dell’Arte, affinché l’allievo raggiunga l’eccellenza, anticamente questi principi si recitavano a voce alta prima di ogni lezione, una pratica persa perfino nei Dojo più tradizionali.

Recitati come una litania, gli allievi li conoscevano a memoria e pur senza capirli, nel loro apprendistato, continuavano a poco a poco ad integrarne il senso e la ragione d’essere, l’articolo che oggi sto scrivendo, cerca di addentrarsi nel senso e nelle ragioni nascoste di questi venti punti, per facilitare ai più giovani una comprensione più profonda e completa delle origini essenziali della loro Arte Marziale e per ricordare ai più maturi, sia in età che in esperienza, la provenienza, i fondamenti della nostra tradizione Marziale.

Funakoshi, uomo di poche parole e di ancor meno spiegazioni, sosteneva che quello che impari con il tuo corpo non lo dimentichi mai, mentre quello che impari con la tua testa è facile da dimenticare. Senza dubbio il Maestro non immaginò nemmeno che, negli anni seguenti, la testa sarebbe servita (in troppi casi) solamente a reggere il cappello, perciò senza ribattere il fondatore, vorrei analizzare uno ad uno i punti ed il relativo significato, un’eredità piena di valore ora e sempre, un ulteriore regalo del fondatore al quale i Karateka devono sempre rispetto e gratitudine.


I · IL KARATE-DO COMINCIA E FINISCE CON IL SALUTO

La gentilezza ed il rispetto si dimostrano e si acquisiscono anche con la pratica. Salutare è ricordare al nostro corpo che deve obbedire ad alcuni criteri, nei quali il rispetto deve sottomettere altri impulsi che, senza dubbio, si attivano nella pratica (aggressività, paura, etc).

Dominarli è uno dei compiti dell’artista marziale, ma oltre alla cortesia, il saluto Orientale chinando il capo, possiede un senso simbolico e persino energetico poco diffuso, o, che poi è la stessa cosa, piuttosto dimenticato, chinando il capo, sia in posizione Seiza che stando in piedi, unifichiamo i principi di Cielo e Terra.

I principi e le loro energie che penetrano il nostro corpo attraverso la colonna vertebrale (dischi e genitali) come due serpenti di forza, in Seiza le mani devono unirsi contemporaneamente (non prima una poi l’altra), creando un triangolo formato tra i pollici e gli indici, tra i quali si deve collocare la fronte.

La cortesia significa contenimento per reindirizzare gli istinti, la sua ripetizione risulta sempre educativa ed organizzativa per le gerarchie, il saluto al Maestro ha questo significato, il saluto con il tuo contendente riconfigura lo spazio formale del combattimento apportandovi dei limiti, ricordandoci che il nemico è dentro di noi, non fuori.

L’altro è solo uno specchio (un’opportunità di presa di coscienza ), nel quale le nostre limitazioni si vedranno rispecchiate, il quale non è, dunque, il colpevole di esse.

II · NON UTILIZZERAI MAI IL KARATE-DO SENZA MOTIVO

Sun Tsu comincia il suo libro sulla Guerra avvertendoci: “La Guerra è un tema di vitale importanza, il territorio della vita e della morte, non deve essere affrontato alla leggera”.

Giustificare l’aggressione è un argomento filosoficamente complesso, per Funakoshi l’aggressività si spiega solo come atto difensivo, la violenza gratuita era continuamente criticata dal Maestro, oppostosi perfino al Ju Kumite (combattimento libero) che suo figlio invece propugnava.

Inoltre, il Karate è persino un allenamento della personalità, dello spirito dell’allievo che allena il suo carattere ed il suo corpo per raggiungere uno stato di allerta e di eccellenza, non per ostentare le sue abilità o per dimostrare a sé stesso o agli altri qualcosa.

III · PRATICARE IL KARATE-DO CON SENTIMENTO DI GIUSTIZIA

Rafforzando il punto precedente, il Maestro aggiunge inoltre che la pratica del Karate ed il suo utilizzo devono servire solo cause giuste, con atteggiamenti impeccabili, allo stesso modo, in questo punto Funakoshi ammonisce coloro che pretendono di utilizzare il Karate e le sue conoscenze al servizio di ignobili cause.

Per gli Istruttori, la selezione degli allievi e delle loro intenzioni nell’apprendimento dell’Arte  era una delle sue principali preoccupazioni e, sebbene oggigiorno il potente Cavaliere Denaro abbia abbassato i parametri limitando l’entrata solo a coloro che pagano la retta mensile, è giusto ricordare che abbiamo una responsabilità aggiunta nell’esercizio dell’insegnamento dell’Arte.

IV · PRIMA DI CONOSCERE GLI ALTRI BISOGNA CONOSCERE SE STESSI

Esattamente come recitava il testo scritto nel portico dell’Oracolo di Delfi “Conosci te stesso“, Funakoshi stabilisce qui uno dei principi essenziali della via del Guerriero, “Niente fa niente a nessuno! “ invece di nasconderci incolpando continuamente gli altri delle circostanze negative della nostra vita,Funakoshi per prima cosa ci intima di guardarci dentro ed, in questo modo, di assumerci la responsabilità per i nostri atti .

Invece di perdere tempo a tentare di fuggire dalle nostre miserie evidenziando le altrui, il Maestro ci chiede rigore nei nostri giudizi, guarda prima te stesso, poi te stesso, poi ancora te stesso e, dopo esserti guardato dentro, rifallo ancora una volta, e solo a questo punto considera gli altri.

V · DALLA TECNICA NASCE L’INTUIZIONE

Questo è un principio spesso mai interpretato in Occidente, molti credono che sia la tecnica in sé ad essere importante, tuttavia dobbiamo partire dal fatto che per gli orientali il valore delle cose sta nella loro forma.

La tazza esiste ed ha un’utilità nella misura in cui possiede uno spazio in grado di contenere.

La ruota rotea e sostiene la propria struttura perché possiede uno spazio tra i raggi, la tecnica è dunque “la forma“ che ci conduce al movimento naturale, non un busto stretto che strangola la nostra fluidità, tuttavia, per raggiungere tale abilità è necessario allenare la tecnica per alla fine realizzare la conoscenza attraverso il vincolo con “il naturale”.

Così Funakoshi ci ricorda che la pratica di una forma tecnica corretta, ci collegherà alla nostra conoscenza essenziale con l’intuizione, per fluire in modo naturale con le infinite circostanze.

VI · NON LASCIATE VAGABONDARE LO SPIRITO

La concentrazione è in ogni pratica Orientale un principio insostituibile, quando il duro allenamento esercita una pressione sufficiente, la mente tende a vagabondare, ad allenarsi, per interrompere lo sforzo.

Funakoshi era un uomo di abitudini e principi solidi ed ordinati, conoscitore del fatto che tutto comincia in Yin, mantenerci fermi nel qui e adesso è essenziale per la pratica del Karate come via di coscienza.

La routine e le ripetizioni dell’allenamento sono una dura prova per la concentrazione, l’allievo deve evitare la dispersione mentale e la meccanizzazione del movimento, solo essendo presenti, le tecniche possiedono la forza e l’intensità adeguate, solo concentrati nella loro applicazione possiamo ricaricare i nostri sistemi di forza, per concludere l’allenamento più forti di quando l’abbiamo cominciato.

VII · IL FALLIMENTO NASCE DALLA NEGLIGENZA

Per il Maestro non ci sono casualità, non ci sono “Ma” e non ci sono “Se”! Con questo punto il Maestro rafforza il precedente, l’attenzione, l’impegno sono essenziali nella pratica.

Non servire adeguatamente le parti che formano il tutto, farlo con deficienza, senza l’attenzione dovuta o senza lo sforzo necessario, conduce al fallimento, il fallimento non è una disgrazia che cade arbitrariamente dal cielo, ma anzi è sempre il risultato della distrazione, della disattenzione, dell’abbandono, della negligenza, dell’apatia o della trascuratezza.

Funakoshi ci ricorda che siamo responsabili dei nostri atti e dei suoi risultati, aprendoci così la porta delle possibilità di miglioramento e di crescita, l’evoluzione esiste a partire dal continuo errore, perciò il guerriero si alza ad ogni caduta con la certezza che, se corregge il suo errore, potrà raggiungere il suo obiettivo.

VIII · IL KARATE-DO SI PRATICA SOLO NEL DOJO

Il Dōjō è letteralmente “il posto del risveglio“ , il Karate-dō , non è una pratica utile ad attaccarsi per le strade, il suo obiettivo non è sottomettere gli altri, bensì rimodellare se stessi, per risvegliarci in una realtà dove il simbolico e il reale sono una cosa sola.

Con questo principio il Maestro ci ricorda ancora una volta che non dobbiamo utilizzare inadeguatamente le nostre conoscenze, circoscrivendo la nostra pratica nello spazio sacro del Dōjō .

IX · LA PRATICA DEL KARATE-DO DURA TUTTA LA VITA

Come pratica spirituale, il Karate-do è un’Arte che fa parte per sempre della natura degli allievi, inoltre, recitando questa frase gli allievi rinnovano quotidianamente il loro impegno con l’Arte, dandogli lo spazio adeguato nel loro essere.

Come pratica dai lunghi e lenti risultati, il Karate richiede un impegno durevole per raggiungere i suoi obiettivi e togliere il velo che nasconde i suoi tesori, perciò il Maestro in questo principio, ripete la necessità in un impegno per tutta la vita.

X · AFFRONTO I PROBLEMI CON LO SPIRITO DEL KARATE-DO

Ancora una volta comprendiamo attraverso un altro principio, che il Karate do come Arte trascende l’ambito del puramente fisico o sportivo, il Karate è un modo di vivere, un modo di affrontare le cose .

Quando Funakoshi ci intima di affrontare i problemi con spirito del Karate do, ci ricorda che siamo guerrieri ventiquattro ore al giorno, non solo quando siamo sul tatami , in questo modo il Karate do è implicato in tutti gli avvenimenti dell’esistenza del praticante, in modo tale che le virtù che l’adornano debbano attivarsi davanti alle avversità con autocontrollo, responsabilità, forza di superamento, rispetto ed impegno.

XI · IL KARATE-DO È COME L’ACQUA CHE BOLLE

L’acqua è un argomento ricorrente ed essenziale nella tradizione nipponica, esistono duecento termini differenti per dire acqua in funzione dello stato e delle circostanze che la circondano.

L’acqua è il principio della vita e l’essenza della sua natura è andare verso il basso, fluire, avvolgere, non opporsi.

Quando Funakoshi cita l’acqua nel suo stato di ebollizione, ci sta parlando dell’acqua nel suo stato “legno“, facendo riferimento ai cinque elementi chiamati GO KYO in Giappone.

Il legno si caratterizza per essere la forza di volontà e l’acqua in ebollizione si trasforma così nella realizzazione opposta della sua natura, attivandosi sale invece di scendere, cercando l’evaporazione, quest’attivazione della natura dell’acqua è il fuoco di consapevolezza che sorge dallo sforzo del praticante.

Perciò il praticante deve essere capace di rimanere in uno stato fluido ma attivo, sempre pronto a rispondere ad un attacco.

XII · NON ALIMENTATE L’IDEA DI VINCERE NÈ QUELLA DI ESSERE VINTI

Questo punto è quello che ha generato la tanto discussa polemica se il Karate debba essere o meno praticato in competizione.

La cosa essenziale in questo ambito risiede nell’atteggiamento corretto dell’allievo.

Se collochiamo l’obiettivo all’esterno infatti, senza dubbio non lo stiamo collocando all’interno.

Ma tale decisione è più uno stato d’animo che un atto definito, per il Maestro, il Karate è innanzitutto una via interna, come cammino verso l’auto-superamento nel Karate, i risultati esterni non possono essere il suo fondamento.

Pertanto il nemico non sta fuori bensì dentro di noi, ogni volta che rispondiamo solo esternamente, staremo trascurando la vera ragione d’essere dell’Arte.

XIII · ADATTARE L’ATTEGGIAMENTO A QUELLO DELL’AVVERSARIO

Bisogna evitare le formule preconcette nella vita, essere flessibili, adattarsi sempre alle circostanze, la pratica dell’Arte non è l’applicazione di formule, bensì la risoluta conquista delle risorse necessarie per fluire costantemente oltre le nostre limitazioni.

“Ogni toro ha la sua corrida“ recita il detto taurino, perciò quelli che pretendono di usare sempre la stessa tecnica davanti a diversi rivali saranno sconfitti.

XIV · IL SEGRETO DEL COMBATTIMENTO RISIEDE NELL’ARTE DI SAPER DIRIGERLO

Il combattimento come dice Sun Tsu , è un tutto dove regna l’apparente disordine, tuttavia l’esperto sa comprendere le chiavi nascoste utili ad ordinarlo, è possibile dirigere, perché nel mezzo dell’apparente caos dobbiamo capire che non solo esiste un ordine, ma che può essere diretto da un centro.

Comprendere che il centro della spirale dirige la sua periferia, sia nello spazio che nel tempo, è la chiave Maestra che ci propone Funakoshi ricordandoci che tutto questo è possibile e ci intima a cercare quei ritmi essenziali che dominano ogni contesa, per diventare padroni del ritmo del rivale affinché balli secondo la nostra musica.

XV · LE MANI E I PIEDI DEVONO COLPIRE COME SCIABOLE

Qui il Maestro sottolinea la conoscenza delle spirali come le forze e i movimenti più potenti e naturali.

Einstein ci aprì gli occhi comprendendo l’affermazione per la quale la linea più vicina a due punti è quella retta, non sarebbe stata sempre corretta, la stessa conformazione delle nostre braccia sorge nel periodo embrionale  da due spirali che derivano dalla collisione delle forze Cielo e Terra, che generano l’embrione.

Nella loro polarizzazione che è la crescita, queste forze sviluppano due paia di spirali di sette giri che generano le braccia e le gambe, una è più lunga, Yin (le gambe), e l’altra è più corta, Yang (le braccia), la loro concezione e la loro architettura fanno si che ogni movimento circolare sia facilitato.

Per questa ragione la Katana giapponese è curva, di fronte alla maggior parte delle spade occidentali, la comprensione dei principi della spirale è incisa profondamente nella conoscenza popolare Orientale e spesso rappresentata nei suoi simboli, il Maestro ci ricorda con questo principio che dobbiamo agire in sintonia con la natura delle cose e non contro essa, aprendo con questa chiave la porta ad un principio che ogni allievo deve ricordare nel proprio apprendistato.

Una chiave per ricordare oltre ciò che il suo Maestro gli insegna.

XVI · SGOMBERANDO LA SOGLIA DELLA VOSTRA CASA 10.000 NEMICI VI ASPETTANO

Ancora una volta il principio dell’attenzione continua, l’attenzione deve chiudersi nell’entropia , niente di meglio perciò di mettersi alla prova, per questo il Maestro non insegna il suo trucco, state sempre in guardia! Così la vostra attenzione rimarrà all’erta.

I vietnamiti normalmente si ripetevano: “chi si aspetta il peggio, non prende mai l’iniziativa“, non so perché ma personalmente questa regola mi riporta sempre alla memoria un detto Orientale che mi piace molto: “Se una tigre fa la guardia al passaggio, diecimila cervi non passeranno“.

XVII · KAMAE È LA REGOLA PER IL PRINCIPIANTE, DOPO È POSSIBILE ADOTTARE UNA POSIZIONE PIÙ NATURALE

Kamae. Stare in guardia , attenti, in posizione, pronti a reagire.

Sanzionando la precedente affermazione, il Maestro ci ricorda che l’allenamento possiede dei gradi ed ha un’evoluzione, l’allenamento è come un imbuto dove devi passare, restringe la tua natura, prescindendo quindi dal non necessario, per poi tornare ad essere te stesso ma trasformato dall’esperienza.

È un modo di rendere naturale un viaggio di andata e ritorno nel quale il tuo bagaglio è la cosa imprendibile, i tuoi ricordi, le tue esperienze. Su questo punto ricordo il detto Zen:

Prima dello Zen, la montagna è montagna, la valle, valle, la Luna, Luna. Durante lo Zen la montagna non è più la montagna, né la valle, valle, né la Luna, Luna . Dopo lo Zen, la montagna ritorna ad essere montagna, la valle, valle, la Luna, Luna.

Niente è cambiato, tuttavia tutto è differente. Kamae è un atteggiamento con il quale si allena una chiave che apre una porta, non la stanza nella quale vuoi entrare, è il dito che indica la luna, non la luna stessa.

XVIII · I KATA DOVRANNO ESSERE REALIZZATI CORRETTAMENTE, TUTTAVIA NEL COMBATTIMENTO REALE I LORO MOVIMENTI SI ADATTERANNO ALLE CIRCOSTANZE

Di nuovo ci ricorda di essere flessibili, ma rigorosi.

I Kata sono la base della  “Forma“, perciò è essenziale che nella loro pratica si allenino i movimenti con perfezione tecnica, non c’è contraddizione tra questo e combattere con movimenti che non riproducano quelli che si eseguono nel Kata, come sostengono alcuni maestri attuali.

Funakoshi lo disse chiaramente in questo punto, ancora una volta dobbiamo ricordare la posizione che assumono gli Orientali rispetto alle forme e che sviluppammo nell’analisi del primo punto del Dojo Kun.

Lo scopo del Karate-do non è quello di creare lottatori estremi, bensì sviluppare lo spirito od il corpo dell’allievo attraverso un allenamento che tiri fuori il meglio di lui, favorendo la positiva formazione di individui che possano, inoltre, essere elementi positivi per le loro società.

XIX · TRE FATTORI VANNO CONSIDERATI: LA FORZA, LA CONSISTENZA ED IL GRADO TECNICO

Davanti ad un compagno o di fronte ad un avversario Funakoshi ci ricorda i tre fattori che dobbiamo tenere in considerazione nella valutazione di noi stessi e di chi abbiamo di fronte, i primi due si riferiscono a considerazioni fisiche ed il terzo all’esperienza e alle conoscenze.

XX · APPROFONDITE IL VOSTRO PENSIERO

Probabilmente all’epoca, come adesso, gli allievi di Karate erano persone più d’azione che di riflessione, ma dato che tutto va visto nel suo opposto, il Maestro conclude le sue proposte con una chiara allusione allo sviluppo mentale degli allievi.

In questo piano di realtà tutto è mente o, con le parole di Carlos Castaneda, “Il Mondo è una descrizione“.

Non è vano, quindi, ricordare ad ogni praticante di Karate do di sviluppare le proprie abilità e le proprie conoscenze per crescere come persona, comprendendo la realtà che sta dietro le apparenze, riflettendo e meditando per completare il proprio apprendistato.



Conclusioni

Abbiamo visto in questa analisi che il Karate-do che propose il suo fondatore è una pratica trascendente, nella misura in cui può portarci oltre il simbolico, una via che apre porte e finestre per permetterci di capire e di agire giustamente, persino oltre le valutazioni morali.

Una via di crescita interna che sgorga all’esterno in risultati positivi

una formulazione della via del guerriero che ha saputo, in un modo o nell’altro, trovare un’eco quasi impensabile in quei giorni passati in cui il Maestro coniugò la tradizione Guerriera millenaria dell’Oriente con la comprensione e le formule iniziatiche proprie della tradizione nipponica, raggiungendo una formula Universale ed intensa che è durata, ha evoluto e trasformato migliaia di esseri umani nelle ultime decadi.

Benché oggi i suoi principi esposti nel Dojo Kun siano ignorati, essi rimangono vivi nella spirito che soggiace alle diverse pratiche negli svariati stili, trasformazioni e polarizzazioni di una stessa spirale iniziale, un punto di partenza fermo che ebbe un nome: Gichin Funakoshi .

Perciò, Maestro, con questo articolo voglio rinnovarvi la mia eterna gratitudine ed il mio riconoscimento

E per farlo, niente di meglio che ripensarti proprio quando tanti allievi pensano che tu sia antiquato.

Quello che loro non sanno, è che il classico in quanto tale è eterno e non può mai essere antiquato.

Note


[MAESTRI DELLA STORIA] «Adeus» Hélio Gracie

Hèlio Gracie era un uomo autosufficiente per quanto riguardava la salute, era una roccia per gli anni che aveva e sapeva come badare a se stesso attraverso l’alimentazione e i suoi rimedi naturali.

Questa volta, però, la cosa era molto più seria di una semplice tosse… Poco dopo il ricovero al pronto soccorso per grosse difficoltà respiratorie, gli venne diagnosticato un polmone allagato e un’estesa infezione.

Hèlio lottò contro la febbre alta per tutta la notte, ma il suo organismo non la superò, i più grandi guerrieri sanno che c’è una battaglia che non vinceranno, ma non per questo abbandonano la lotta prima che sia giunto il momento giusto, quel momento in cui l’unica vittoria possibile diventa il sapersi arrendere totalmente e il lasciarsi andare.

Hèlio non solo derise la morte per un lunghissimo periodo di tempo, molto al di sopra della media delle persone normali, la cosa più importante è che visse una vita notevole ed intensa e come egli stesso voleva.

Il suo nome rimarrà per sempre impresso nell’immaginario collettivo come il padre della rivoluzione

Popolò la terra di figli, una dinastia di campioni dediti alla causa, insegnò a migliaia, che insegnarono a milioni e la sua visione marziale oltrepassò frontiere, culture ed ideologie, il suo passaggio in questa terra lascerà un segno nella storia delle Arti Marziali.

Il suo nome rimarrà per sempre impresso nell’immaginario collettivo come uno dei grandi Maestri, come il padre della rivoluzione Gracie e dell’avvento dei combattimenti senza regole, l’importanza di saper lottare nella più corta distanza e della maestria nel grappling.

La sua forte personalità, le sue idee autorevoli, dirette, proprie di una persona forte e territoriale, colpirono come potenti trapani i praticanti per molti anni, il Gran Maestro ha sempre detto alle persone a lui più vicine che voleva riposare nella sua proprietà.

Mentre si fanno i passi delle sue ultime volontà, suo figlio Royce, che era presente e ha seguito da vicino il suo funerale, probabilmente si impegnerà per ottenere il più presto possibile il trasferimento dei suoi resti, ma sempre seguendo i desideri del defunto, il funerale doveva essere immediato.

Se ne va il Maestro, ma rimangono i suoi insegnamenti, le opere sono i figli dell’uomo, rimane anche il suo seme biologico, una lunga prole, figli e nipoti, orgogliosi rappresentanti di una saga infinita, come lo spirito che animava il suo creatore, rimangono i suoi figli spirituali.

Quelli che praticamente adottò ed educò come veri e propri figli, quegli allievi che anticamente si chiamavano UCHI DESHI in Giappone, come il Gran Maestro Mansur.

Il giorno 29 gennaio 2009 ci è arrivata la notizia del decesso di Hèlo Gracie, a 95 anni, a causa di una polmonite

A furia di ascoltare le storie del superuomo brasiliano, si cominciava a credere alla sua immoralità, ma, sfortunatamente, il giorno 29 gennaio 2009 ci è arrivata la notizia del decesso di Hèlo Gracie, a 95 anni, a causa di una polmonite.

Dei nove figli solo Royce e Rolker hanno avuto il tempo di arrivare alle esequie, gli altri erano sparsi tra gli Stati Uniti e l’Europa,

“Due giorni fa, mia madre mi chiamò e mi disse che papà non sarebbe rimasto con noi per molto, allora mi misi immediatamente in viaggio, sembrava stesse aspettando, appena sono arrivato, se ne è andato.“

Questa la dichiarazione di Royce venuto direttamente in volo da Los Angeles. Ma vediamo di percorrere quella che fu la vita di questo Grande Maestro di Jiu Jitsu.

Nato il 1 Ottobre 1913, il più piccolo dei cinque figli maschi di Gasato e Cesalina

Hèlio Gracie passò la sua adolescenza a Belem, una cittadina dove suo padre conobbe il giapponese Conte Koma , l’amicizia tra i due spinse Koma ad insegnare il suo Ju Jitsu a Carlos, figlio maggiore di Gasato.

Il giapponese che aveva girato il mondo facendo presentazioni, sfide e insegnando il suo Ju Jitsu, trovò in Belem, nella persona di Carlos, il suolo fertile di cui aveva bisogno per perpetuare il suo Ju Jitsu che, allora in Giappone già cominciava a cedere il passo al Judo.

Durante parte della sua infanzia e della sua adolescenza, Hèlio soffriva di problemi di salute e perdeva inspiegabilmente conoscenza, problemi che non gli furono mai diagnosticati con precisione.

Il medico di famiglia non gli permetteva di fare sforzi e gli aveva proibito di allenarsi, nel frattempo, osservava distintamente le lezioni e gli allenamenti dei suoi fratelli, nel 1922, Carlos va a vivere a Rio e nel 1925 apre la prima Accademia Gracie di Ju Jitsu nel quartiere di Flamenco.

Per mezzo di sfide pubblicate nei giornali, insieme ai fratelli, dimostrava l’efficacia del Ju Jitsu, ottenendo così i suoi primi allievi .

Un giorno, quando Hèlio aveva già 15 anni, suo fratello Carlos ritardò ad una lezione e il giovane Hèlio decise che egli stesso avrebbe diretto quell’allenamento, con sorpresa di tutti, la lezione fu un successo e da allora, non abbandonò più gli allenamenti e non soffrì più di quella strana patologia di cui era affetto.

Negli anni 20 i Gracie dovettero usare un Marketing aggressivo chiamato “Gracie Challenge“

Per stabilire il suo stile in Brasile, negli anni 20 i Gracie dovettero usare un Marketing aggressivo chiamato “Gracie Challenge“, lanciando sfide attraverso i giornali al fine di attirare l’attenzione della gente su quell’arte dal nome strano, gli annunci dicevano:

“Se vuoi farti rompere un braccio contatta Carlos Gracie a questo numero di telefono“ e fu esattamente provando l’efficacia del suo stile contro rappresentanti del Karate, del Pugilato, della Lotta Libera e della Capoeira che i fratelli Carlos, Gorge, Oswaldo e Hèlio fecero si che il nome Gracie fosse rispettato in Brasile.

Negli anni 90 arrivò il turno di Corion, il figlio maggiore di Hèlio, che usò la stessa strategia per mostrare il valore del Ju Jitsu brasiliano negli USA, insieme ai suoi fratelli e cugini, Corion vinse centinaia di sfide in garage, all’università e perfino nei seminari, fino a riuscire a convincere un allievo milionario a pagare la produzione dell’UFC, uno spettacolo che dimostrò praticamente a tutto il mondo, l’efficacia del Gracie Ju Jitsu in combattimenti con campioni di tutti gli stili di lotta.

Le impressionanti vittorie di Gorge, Carlos e Oswaldo, nelle prime sfide di Vale-Tudo di quell’epoca, spingevano rapidamente il nome Gracie.

A poco a poco Hèlio cominciò a farsi notare negli allenamenti

A poco a poco Hèlio cominciò a farsi notare negli allenamenti e a 18 anni, il 16 gennaio del 1932 , suo fratello maggiore lo accompagnò per la sua prima prova del fuoco nelle regole del Vale-Tudo, contro il campione brasiliano di Boxe Antonio Portugal.

Nonostante il naturale nervosismo del debutto, Hèlio sconfisse l’avversario con tanta rapidità che alcuni pensarono che la lotta fosse un imbroglio.

Il Gracie deviò il primo jab lanciato da Portugal e lo proiettò al suolo, a terra lo finalizzò con una chiave al braccio in 40 secondi.

Dopo la prima vittoria, Hèlio cominciò a condividere gli spazi nei mezzi di comunicazione con i suoi fratelli maggiori già famosi.

Hélio era un uomo autosufficiente

Hélio era un uomo autosufficiente per quanto riguardava la salute, era una roccia per gli anni che aveva e sapeva come badare a se stesso attraverso l’alimentazione e i suoi rimedi naturali.

Questa volta, però, la cosa era molto più seria di una semplice tosse… Poco dopo il ricovero al pronto soccorso per grosse difficoltà respiratorie, gli venne diagnosticato un polmone allagato e un’estesa infezione.

Hélio lottò contro la febbre alta per tutta la notte, ma il suo organismo non la superò.

I più grandi guerrieri sanno che c’è una battaglia che non vinceranno, ma non per questo abbandonano la lotta prima che sia giunto il momento giusto, quel momento in cui l’unica vittoria possibile diventa il sapersi arrendere totalmente e il lasciarsi andare.

Hèlio non solo derise la morte per un lunghissimo periodo di tempo, molto al di sopra della media delle persone normali, la cosa più importante è che visse una vita notevole ed intensa e come egli stesso voleva.


Popolò la Terra di campioni

Popolò la terra di figli, una dinastia di campioni dediti alla causa.

Insegnò a migliaia, che insegnarono a milioni e la sua visione marziale oltrepassò frontiere, culture ed ideologie.

Il suo passaggio in questa terra lascerà un segno nella storia delle Arti Marziali, il suo nome rimarrà per sempre impresso nell’immaginario collettivo come uno dei grandi Maestri, come il padre della rivoluzione Gracie e dell’avvento dei combattimenti senza regole, l’importanza di saper lottare nella più corta distanza e della maestria nel Grappling.

La sua forte personalità, colpirono come potenti trapani i praticanti per molti anni

La sua forte personalità, le sue idee autorevoli, dirette, proprie di una persona forte e territoriale, colpirono come potenti trapani i praticanti per molti anni.

Il Gran Maestro ha sempre detto alle persone a lui più vicine che voleva riposare nella sua proprietà, ma le leggi degli stati moderni sono così spesso complicate da apparire assurde e invece di dipingere la segnaletica delle strade o qualunque cosa utile, i politici si mettono a legiferare su temi che concernono la libertà dell’individuo, come per esempio quello di scegliere il posto della sua ultima dimora.

Mentre si fanno i passi delle sue ultime volontà, suo figlio Royce, che era presente e ha seguito da vicino il suo funerale, probabilmente si impegnerà per ottenere il più presto possibile il trasferimento dei suoi resti, ma sempre seguendo i desideri del defunto, il funerale doveva essere immediato.

Se ne va il Maestro, ma rimangono i suoi insegnamenti

Le opere sono i figli dell’uomo, rimane anche il suo seme biologico, una lunga prole di figli e nipoti, orgogliosi rappresentanti di una saga infinita, come lo spirito che animava il suo creatore.

Rimangono i suoi figli spirituali, quelli che praticamente adottò ed educò come veri e propri figli, quegli allievi che anticamente si chiamavano UCHI DESHI in Giappone, come il Gran Maestro Mansur.

A furia di ascoltare le storie del superuomo brasiliano, si cominciava a credere alla sua immoralità

Sfortunatamente però, il giorno 29 gennaio 2009 ci è arrivata la notizia del decesso di Hélio Gracie, a 95 anni, a causa di una polmonite.

Dei nove figli solo Royce e Rolker hanno avuto il tempo di arrivare alle esequie, gli altri erano sparsi tra gli Stati Uniti e l’Europa, questa la dichiarazione di Royce venuto direttamente in volo da Los Angeles:

Due giorni fa, mia madre mi chiamò e mi disse che papà non sarebbe rimasto con noi per molto, allora mi misi immediatamente in viaggio, sembrava stesse aspettando, appena sono arrivato, se ne è andato

Vediamo di percorrere quella che fu la vita di questo Grande Maestro di Jiu Jitsu

Nato il 1 Ottobre 1913, il più piccolo dei cinque figli maschi di Gasato e Cesalina.

Hélio Gracie passò la sua adolescenza a Belem, una cittadina dove suo padre conobbe il giapponese Conte Koma. L’amicizia tra i due spinse Koma ad insegnare il suo Ju Jitsu a Carlos, figlio maggiore di Gasato.

Il giapponese che aveva girato il mondo facendo presentazioni, sfide e insegnando il suo Ju Jitsu. Trovò in Belem, e nella persona di Carlos, il suolo fertile di cui aveva bisogno per perpetuare il suo Ju Jitsu che, allora in Giappone già cominciava a cedere il passo al Judo.

Durante parte della sua infanzia e della sua adolescenza, Hélio soffriva di problemi di salute e perdeva inspiegabilmente conoscenza, problemi che non gli furono mai diagnosticati con precisione.

Il medico di famiglia non gli permetteva di fare sforzi e gli aveva proibito di allenarsi, nel frattempo, osservava distintamente le lezioni e gli allenamenti dei suoi fratelli.

Nel 1922, Carlos va a vivere a Rio e nel 1925 apre la prima Accademia Gracie di Ju Jitsu nel quartiere di Flamenco, per mezzo di sfide pubblicate nei giornali, insieme ai fratelli, dimostrava l’efficacia del Ju Jitsu, ottenendo così i suoi primi allievi .

Un giorno, quando Hélio aveva già 15 anni, suo fratello Carlos ritardò ad una lezione e il giovane Hélio decise che egli stesso avrebbe diretto quell’allenamento, con sorpresa di tutti, la lezione fu un successo e da allora non abbandonò più gli allenamenti e non soffrì più di quella strana patologia di cui era affetto.

Le “Gracie Challenge“

Per stabilire il suo stile in Brasile, negli anni 20 i Gracie dovettero usare un Marketing aggressivo chiamato “Gracie Challenge“, lanciando sfide attraverso i giornali al fine di attirare l’attenzione della gente su quell’arte dal nome strano.

Gli annunci dicevano: “Se vuoi farti rompere un braccio contatta Carlos Gracie a questo numero di telefono“ e fu esattamente provando l’efficacia del suo stile contro rappresentanti del Karate, del Pugilato, della Lotta Libera e della Capoeira che i fratelli Carlos, Gorge, Oswaldo e Hélio fecero si che il nome Gracie fosse rispettato in Brasile.

Negli anni 90 arrivò il turno di Corion, il figlio maggiore di Hèlio, che usò la stessa strategia per mostrare il valore del Ju JItsu brasiliano negli USA, insieme ai suoi fratelli e cugini, Corion vinse centinaia di sfide in garage, all’università e perfino nei seminari, fino a riuscire a convincere un allievo milionario a pagare la produzione dell’UFC, uno spettacolo che dimostrò praticamente a tutto il mondo l’efficacia del Gracie Ju Jitsu in combattimenti con campioni di tutti gli stili di lotta.

Le impressionanti vittorie di Gorge, Carlos e Oswaldo, nelle prime sfide di Vale-Tudo di quell’epoca, spingevano rapidamente il nome Gracie.

A poco a poco Hèlio cominciò a farsi notare negli allenamenti e a 18 anni, il 16 gennaio del 1932 , suo fratello maggiore lo accompagnò per la sua prima prova del fuoco nelle regole del Vale-Tudo contro il campione brasiliano di Boxe Antonio Portugal.

Nonostante il naturale nervosismo del debutto, Hélio sconfisse l’avversario con tanta rapidità che alcuni pensarono che la lotta fosse un imbroglio.

Il Gracie deviò il primo jab lanciato da Portugal e lo proiettò al suolo. A terra infine lo finalizzò con una chiave al braccio in 40 secondi.

Dopo la prima vittoria, Hèlio cominciò a condividere gli spazi nei mezzi di comunicazione con i suoi fratelli maggiori già famosi.

Note