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[PILLOLE DI STORIA] Eleonora D’Arborea, juyghissa sarda

Giudicessa d’Arborea, condottiera e legislatrice. Eleonora può essere definita, senza ombra di dubbio, la più nota dei personaggi del medioevo sardo, e forse di tutta la storia sarda, in quanto sovrana estremamente determinata nella difesa dell’indipendenza dell’isola.

Eleonora nacque probabilmente nel 1340 dalle nozze di Mariano IV

Nacque probabilmente nel 1340 dalle nozze di Mariano IV, giudice d’Arborea, con la nobildonna Timbora, figlia di Dalmazio, visconte dei Roccabertì.

La ragion di stato sancì le sue nozze con Brancaleone Doria, rampollo di una delle più illustri famiglie genovesi. Dall’unione nacquero due figli, Federico e Mariano.

La prima volta in cui Eleonora poté dimostrare le sue doti politiche e la tempra coraggiosa, fu nel marzo del 1383. In quel occasione suo fratello, il giudice d’Arborea Ugone III, con l’unica figlia Benedetta, caddero vittime di una rivolta popolare, forse causata dall’atteggiamento dispotico del giudice nei confronti dei sudditi.

Dopo quei drammatici fatti, la Corona de Logu chiamò a regnare Federico Doria-Bas, figlio primogenito poco più che decenne di Eleonora e Brancaleone; ma, poiché Federico, secondo le consuetudini del giudicato d’Arborea, era troppo giovane per assumere la pienezza dei poteri, fu deciso di porre in sua vece alla guida del giudicato sua madre Eleonora, allora quarantatreenne.

La juyghissa Eleonora si dimostrò dotata di straordinaria abilità politica e di grande forza d’animo

La juyghissa (così Eleonora é indicata dai documenti dell’epoca) si dimostrò dotata di straordinaria abilità politica e di grande forza d’animo, punendo con fermezza gli uccisori del fratello e stroncando in questo modo sul nascere un movimento orientato a costituire Oristano in comune indipendente posto sotto la protezione di Genova.

Intrapresa la lotta contro gli aragonesi, si trovò nel 1383 di fronte ad una situazione drammatica: l’arresto del marito Brancaleone.

Egli si era recato in Spagna, presso il sovrano catalano-aragonese Pietro il Cerimonioso, nel duplice intento di risanare la grave crisi che affliggeva l’Isola e di ottenere una pace vantaggiosa.

Trasferito a Cagliari, fu recluso nella Torre di San Pancrazio, dalla quale tentò, inutilmente, una rocambolesca fuga; fu dunque rinchiuso nella Torre dell’Elefante.

Eleonora si impegnò subito nelle trattative di pace. Nonostante tutti gli sforzi, però, Brancaleone fu rilasciato solo nel 1390, in seguito alla pace di Sanluri.

La pace fu stipulata nel 1388 tra la giudicessa e il sovrano Giovanni il Cerimonioso.

Questa pace fu causa di grave malcontento presso le popolazioni sarde. Questo fu poiché tutte le terre conquistate precedentemente e legate da giuramento di fedeltà al Giudicato d’Arborea, furono sciolte dal giuramento e tornarono nelle mani del sovrano iberico.

Gli Arborensi, guidati ancora una volta da Eleonora, diedero il segno della riscossa nel 1391, riuscendo a riconquistare una buona parte dei territori.

Un’altra tappa degna di nota nella vita di Eleonora è il 1392

Un’altra tappa assolutamente degna di nota nella vita e nell’opera di Eleonora è il 1392. In quell’anno la sovrana si distinse come avveduta e dinamica legislatrice, promulgando la Carta de Logu.

La Carta de Logu fu una raccolta di leggi nel campo del diritto positivo e processuale, civile e penale.

Redatte in sardo arborense ed articolate in 198 capitoli, nel proemio la giudicessa, animata da devozione filiale, dichiara di aver ripreso e arricchito la Carta de Logu di suo padre Mariano IV «sa quali cum grandissimu provvedimentu fudi facta».

Il codice arborense è un documento importantissimo. Esso rivela la volontà della giudicessa di collocare le antiche tradizioni del suo popolo nella cornice di uno stato di diritto, con un risultato che per l’epoca trova pochi confronti a livello europeo.

Del codice resta allo stato attuale un manoscritto del 1400, custodito presso la biblioteca universitaria di Cagliari. La Carta de Logu restò in uso fino al 1827, anno in cui fu sostituito dal Codice Feliciano promulgato dal re piemontese Carlo Felice.

Quanto alla famosa giudicessa, le fonti narrano che morì intorno al 1402. Ella fu forse vittima della “morte nera”, la peste, male che in quegli anni, falciò un gran numero di vite umane in tutta l’Europa

Note


[RICERCA DEL GIORNO] Folklore nella cultura alimentare sarda

Con questa ricerca tratteremo il modo in cui la cultura alimentare sarda si è legata col tempo all’antichissimo al folklore locale. Andremo a vedere come con certi rituali, spesso legati a suggestioni e credenze locali, le persone tentavano semplicemente di alleviare la vita di ogni giorno.

Non solo Pane: Folklore nella cultura alimentare sarda

Da sempre l’umanità ha individuato negli alimenti, o nei derivati animali e vegetali, tanto gli elementi utili a garantire la sopravvivenza in senso stretto, quanto gli aspetti delle valenze magico/rituali in funzione terapeutica o scaramantica.

Queste ultime a volte sconfinano in quella che è comunemente definita superstizione, a volte invece, alla luce delle nuove scoperte scientifiche, si dimostrano realmente in grado di sconfiggere determinate malattie o di prevenirne l’insorgere.

Numerosi ricercatori hanno affrontato questo argomento con taglio diverso secondo la loro specializzazione.

Così abbiamo avuto, di volta in volta, spiegazioni di tipo sociologico, antropologico, psichiatrico e religioso ecc…

Non è mia intenzione tentare ulteriori analisi particolareggiate, per le quali rimando agli autori dei testi specifici della bibliografia essenziale citata

Semplicemente vorrei mostrare alcuni di questi aspetti legati agli alimenti, e rilevare come, nonostante la pressione delle culture egemoniche, che da sempre hanno tentato di sopprimerle, siano arrivate pressoché intatte fino ai giorni nostri e che solo oggi, stiano realmente svanendo nell’oblio a causa della massificazione dei costumi e della scomparsa della cultura orale tradizionale, che in alcuni casi era la sola deputata a tramandarle.

Storie di tradizione orale

Alcuni di questi riti magico/terapeutici sono già stati registrati, altri sono a tuttora assenti nei vari testi di d’etnologia.

Si riesce a venire a conoscenza solo dopo ore, o addirittura giorni, di paziente conversazione con le persone anziane.

Queste, infatti, tendono a riportare fatti per lo più già noti, o comunque che si sono conservati anche nella memoria più recente, chiudendo così il discorso con l’interlocutore.

Ma se si presenta loro la dovuta attenzione, anche quando si parla magari d’altro, improvvisamente salta fuori qualcosa di nuovo.

Qualcosa che magari era stato rimosso da una sorta di censura etica, o forse solo dimenticato.

Del resto, tutte le occasioni importanti, nell’arco dell’anno o della vita umana, sono sancite da tradizioni particolari, volte, come ho già detto, a tutelare un’esistenza che si prospetta precaria e in balia di eventi sconosciuti e ingovernabili.

Rituali esoterici per alleviare la vita

Cristiano Cani – Paste e dolci tipici della Sardegna

Ecco allora le storie di spiriti, di anime in pena che causano sofferenze, se non si rabboniscono in qualche modo.

Non si tratta di veri e propri riti di tipo apotropaico, bensì di azioni volte a migliorare le condizioni dei vivi, e con loro anche dei defunti, che spesso si aggirano ancora nel mondo nell’attesa della pace eterna, e che potrebbero essere addirittura parenti delle persone che “vanno a visitare”.

Queste si preoccupano quindi di rendere più lieve la loro attesa, con preghiere o azioni materiali volte a soddisfare le supposte necessarie.

A questo punto, anche il pianto, apparentemente senza motivo, di un bambino piccolo, che tra le braccia dei genitori non trova conforto, e nel lettino ancora meno, può essere causato da qualcosa di soprannaturale.

Ai genitori, ormai stremati, era consigliato, solitamente da un’anziana della famiglia, di mettere un pezzo di pane sotto il cuscino del piccolo, questi sotto la spinta della disperazione eseguivano, il bambino, dopo un po’, tornava tranquillo (non è dato sapere dopo quanto tempo) e con lui anche i genitori.

Le anime che lo infastidivano, trovato il pane, si erano messe a mangiare lasciandolo finalmente tranquillo.

Che le anime se ne andassero in giro giorno e notte cercando di mangiare non è una novità (basti pensare all’antico Egitto), ma in Gallura, ancora ai primi del novecento (e in alcune zone, anche oggi) la Notte dei Santi, si allestiva un vero e proprio banchetto ad uso e consumo delle stesse.

Una tovaglia bianca, apparecchiatura festiva, pane, vino e cibo, erano poggiati sul tavolo della cucina, la porta che si affacciava verso l’esterno era lasciata aperta e la famiglia andava a letto.

Le anime avrebbero avuto di che soddisfare la fame. Al mattino il tavolo era ripulito.

Nessuno aveva visto niente, solo a qualcuno era parso di sentire dei rumori provenienti dal locale in cui era esposto il cibo, ma del resto, chi mai si sarebbe sognato di andare a controllare?

Ovviamente poi, il fatto che il cibo fosse scomparso, dava ragione a chi quest’usanza continuava a perpetuarla

Solo qualcuno iniziava ad insinuare che forse non di anime si trattasse, ma di mendicanti o bontemponi…Inutile dire che la teoria era destinata a cadere inascoltata, o addirittura tacciata di eresia (ovviamente al contrario).

Anche la notte del 1° agosto si procedeva in modo simile

In quest’occasione si preparava un cunchinu di chjusoni (un bel piatto di gnocchi) conditi con formaggio e pomodoro fresco e, questa volta, si metteva sul davanzale.

Anche in questo caso, alle prime ore del giorno, il piatto era ripulito e le anime imbonite, con gran soddisfazione degli abitanti della casa che da questo fatto traevano auspici favorevoli per tutta la famiglia.

Di questa consuetudine rimane traccia nell’abitudine, ancora viva in alcune zone della Gallura, di preparare il 1° agosto, questa pietanza. Non sappiamo però se solo per i vivi, oppure anche per i trapassati.

Tradizioni al giorno d’oggi ormai perse

Un giustificato pudore impedisce di ammettere, oggi, una tale abitudine, anche per non essere esposti al ludibrio dei più “colti”.

Un’altra forma scaramantica, questa volta un po’ più complessa, anche perché gli informatori non sanno dare spiegazioni in merito, è quella di lu casju parafocu (il formaggio che ferma il fuoco).

In questo caso, il Giorno dell’Ascensione, l’allevatore/agricoltore prelevava una forma di cacio dalla scorta annuale, e, dopo averci inciso sopra, con un coltello, una croce, la conservava in un angolo della casa fino al termine della stagione estiva.

Questa forma possedeva la virtù di proteggere tutto il territorio, di proprietà dell’esecutore, dai temutissimi fuochi estivi.

Anche se, come già detto gli informatori non sanno spiegare questa usanza, da quanto dicono, pur non dichiarandolo apertamente, si può desumere che rappresentasse una sorta di tutela contro il male estremo per antonomasia.

Oltre a queste forme scaramantiche, altri espedienti costituiscono una via di mezzo tra queste e la medicina popolare.

Vi è, infatti, una fusione tra elementi magico – rituali ed altri che potrebbero avere, se opportunamente studiati, un riscontro spiegabile scientificamente.

Prendiamo ad esempio l’Ociu Casgju, preparato il giorno dell’Ascensione

Prendiamo ad esempio l’Ociu Casgju (olio del formaggio) che era preparato il Giorno dell’Ascensione.

In quella data si “segnavano” capretti e agnelli e si marchiavano i manzi. Mentre gli uomini attendevano a queste incombenze le donne preparavano il pranzo.

In questa occasione era d’uopo cucinare la mazza frissa, una salsa di condimento per gli gnocchi ottenuta con la panna di latte.

Durante la cottura, la panna rilasciava l’olio in essa contenuto, questo era raccolto in un vasetto e conservato per tutto l’anno come unguento medicinale, specificamente per lu mali di la ula e lu custuppatu (mal di gola e bronchi impegnati).

Spalmato sul torace e poi ricoperto cu la calta biaitta di la pasta (la carta straccia azzurra della pasta sfusa) o cu la bambacia (ovatta) era considerato infallibile.

In altre zone quest’olio veniva preparato il 3 febbraio.

In questo caso ci troviamo di fronte ad una corrispondenza perfetta tra il rito popolare e quello religioso,

Perché in questa data la Chiesa Cattolica celebra S.Biagio vescovo e martire (III-IV sec.)

A lui sono riconosciute qualità di taumaturgo, protettore degli animali, Santo dei fidanzati e… guaritore del mal di gola.

Questo perché avrebbe guarito un bambino che stava per morire soffocato da una spina di pesce;

Ma mentre la chiesa festeggia in quel giorno “la candelora”e nella cerimonia sacra sul collo dei fedeli il celebrante poggia una candela benedetta che poi, portata a casa, verrà utilizzata tutto l’anno con questa funzione.

Il popolo utilizza le sostanze che ha a disposizione, e che, se vogliamo, sono anche affini (cera – grasso) con le stesse finalità.

C’è da sottolineare che il fatto di sottolineare che il fatto di strofinare il torace con un unguento, causando il riscaldamento della zona interessata, potrebbe, in effetti, portare ad un miglioramento delle condizioni dell’ammalato.

Se poi questo unguento è stato preparato il giorno dell’Ascensione, e quindi nel periodo in cui le piante sono quasi al culmine delle loro proprietà curative, si può ipotizzare che parte delle loro sostanze attive si siano trasferite nel latte e quindi nel nostro olio.

È chiaro che sono solo ipotesi senza fondamento certo, ma quanta di questa saggezza popolare non è stata prima irrisa e poi accolta?

Si pensi semplicemente all’uso delle erbe, da sempre patrimonio della tradizione popolare ed ora accettata e ricercata da tutti.

Diverso il discorso dell’Uovo del giorno del 25 marzo

Qui, o ci si crede, o non ci si crede. Gli “antichi” ci credevano! L’uovo deposto dalla gallina il 25 Marzo, vale a dire nove mesi prima della nascita di Gesù, quindi nel giorno ipotetico del Suo concepimento, veniva raccolto e conservato in un luogo inaccessibile fino a Natale.

Non si doveva toccarlo per nessun motivo, pena la riuscita del “prodigio”, se ci si atteneva a queste regole, il giorno di Natale l’uovo sarebbe stato ormai di cera

A questo punto diventava anch’esso medicinale e, passato sulla gola malata, la guariva, poggiato su un arto dolorante ne leniva il dolore ecc…Questi sono solo alcuni esempi della miriade di riti che l’uomo ha ricercato o creato per risolvere i problemi di ogni giorno.

Oggi ci fanno sorridere, e forse ci meravigliamo dell’ingenuità dei nostri nonni, disposti a credere a simili panzane, ma…Stiamo bene attenti, perché, come si dice: “Quel che buttiamo via dalla finestra, rientra dalla porta”.

Quanti di noi, infatti, non si sono mai sentiti dire da qualcuno, non necessariamente più anziano: “Bevi il caffè stando seduto, altrimenti non diventerai mai ricco!”

E soprattutto, chi non si è seduto immediatamente, dopo una simile minaccia?

Quanti di noi, ancora, non si sono accodati alle schiere degli adepti della Notte di Halloween, muniti di zucca e sonagli, pronti ad andare in giro, all’insegna della nuova cultura egemone, per chiedere “dolcetto o scherzetto”? invece di: “Li molti e molti”, senza pensare che la festa di Halloween non è nient’altro che un rito simile a quelli che volutamente abbiamo seppellito, bollandoli come dabbenaggini da ignoranti.

Infine, visto che il filo conduttore del nostro discorso è la tradizione alimentare.

Come facciamo a sorridere dei nostri vecchi, che traevano auspicio da un piatto di gnocchi lasciato sul davanzale o dalle foglie d’olivo nummati (cui era dato il nome di un uomo e quello di una donna), gettate sul piano incandescente dei focolare se poi, puntualmente andiamo a guardare l’oroscopo del giorno.

E a Capodanno, per quanto già satolli, non rinunciamo a mangiare le lenticchie che, per il nuovo anno, saranno foriere di soldi?

E pensare che il Capodanno in Sardegna, una volta era in settembre …Una volta!

Note

Bibliografia

  • Alberto M. Cinese, Cultura egemonica e culture subalterne, Pa. Palombo 1978.
  • Paolo Toschi, Guida allo studi delle tradizioni popolari, To. Boringhieri 1971
  • Giuseppe Cocchiera, Storia de folklore in Europa, To. Boringhieri 1972
  • Francesco Alziator, Il folklore sardo, Bo. La Zattera 1957
  • Francesco De Rosa, Tradizioni popolari di Gallura, Bo. Arnaldo Forni 1989
  • Maria Azara, Tradizioni popolari di Gallura – Dalla culla alla tomba – Roma Italiane 1943
  • Gino Bottiglioni, Vita sarda – folklore, racconti e leggende, Mi. Trevisani 1925
  • Ernesto De Martino, Magia e civiltà, Mi. Garzanti 1962
  • Francesco Cossu, Tradizioni popolari di Gallura, SS. Chiarella 1974
  • Mario Atzori, Maria M. Satta, Credenze e riti magici in Sardegna – Dalla religione alla magia, SS. 1980
  • Marua Margherita Satta , Riso e pianto nella cultura popolare – Feste e tradizioni sarde, SS. Asfodelo 1982
  • Nicolino Cucciari, Magia e superstizione fra i pastori della bassa Gallura, SS. Chiarella 1985

TOMARI: L’antica GROTTA SEGRETA del KARATE

Una mitica grotta nelle colline di Tomari nella città di Naha, di fronte alla costa, fu anticamente il nascondiglio dei naufraghi cinesi arrivati ad Okinawa.

Molti dei quali erano artisti marziali che cominciarono a praticare ed a insegnare il Karate in questo mitico luogo nella più assoluta clandestinità.

È questo il caso di Chinto, l’abile karateka cinese al quale dobbiamo il nome di uno dei Kata di Karate più rapidi e più fluidi.

Oppure di Kosaku Matsumora, l’eroe del posto da quando nel 1392 le famose 36 Famiglie di Kume (il cui nome si deve al quartiere dove si stabilirono) si trasferirono dalla città cinese di Fuzhou fino a Naha.

Il pellegrinaggio di cinesi ad Okinawa fu una costante, benché la storia nella quale ci immergiamo si situi quattro secoli più tardi.

Chi è Kosaku Matsumora

Kosaku Matsumora (1829-1898) nacque nella cittadina di Tomari. Di enorme talento, fu una persona che seppe approfittare del suo piccolo ma potente corpo.

Quando era giovane studiò le tradizioni marziali di Tomari, dove si distinse come coraggioso e bujin.

Arrivò ad essere ben conosciuto per la sua cavalleria e per il suo spirito vibrante e fu sempre ricordato per aver evitato che un Samurai armato di katana importunasse gli abitanti di Tomari.

Poi in uno sforzo per evitare delle rappresaglie, si confinò in un luogo remoto di Nago. È anche ricordato per aver protetto la proprietà della cittadina su incarico del governatore.

Nel 1879 le proprietà e i beni  derivanti dai contributi rischiarono di essere confiscati dal nuovo governo, dopo che il Re abdicò e il Regno venne abolito.

Ma gli sforzi degli ufficiali giapponesi per confiscare i beni di Tomari furono vani grazie in parte  all’impegno di Matsumora.

Il 7 novembre del 1898 Kosaku Matsumora muore e comincia la sua leggenda a Tomari e per un secolo il suo ricordo è rimasto nelle leggende della zona, e oggi si può ammirare un bel rilievo in suo onore.

La selva di Tomari

La zona più sconosciuta, disabitata e desolata di Tomari, ad Okinawa, è una piccola selva vicino al mare, che è composta da montagne che nascondono delle crepe nel terreno, utilizzate anticamente come nascondiglio da gente che, per una ragione o per l’altra, dovevano rimanere nell’ombra.

I naufraghi cinesi

Questo fu il caso di alcuni importanti Karateka venuti dalla Cina in nave.

Si nascosero in queste grotte dopo aver naufragato di fronte alla costa, e si guadagnavano da vivere come potevano (spesso rubando). Praticavano le loro arti marziali in queste zone nascoste, vicino alla spiaggia di Naminoue.

Verso il XIV secolo Chinto, un marinaio cinese esperto in arti marziali dotato di una notevole abilità nell’arrangiarsi in certe circostanze, cominciò ad insegnare arti marziali vicino alla grotta, e da lui ricevettero tali informali insegnamenti in questo luogo all’incirca 1840 contadini di Tomari e personaggi che sarebbero poi diventati importanti in futuro, tra cui Giei Yamada.

Non possiamo parlare di Tomari senza parlare di Kosaku Matsumora, che divenne il maestro più importante e famoso della forma marziale conosciuta da approssimativamente l’anno 1700 come Tomare Te.

Chinto e Kosaku Matsumora

Kosaku imparò questa forma del futuro Karate con Teruya Kishin e un giorno, mentre stava praticando le sue arti marziali in gran segreto e in solitario vicino alla grotta, notò che c’era qualcuno che lo stava spiando dall’interno della grotta.

Matsumora andò a raccontarlo a Teruya e quest’ultimo lo fece ritornare sul posto dove la “spia“ della grotta uscì, si scusò per aver interrotto il sua allenamento, gli consegnò un foglio e poi, quell’enigmatico personaggio semplicemente sparì.

Quando Kosaku mostrò il foglio a Teruya, questi esclamò: “chiaro, non poteva essere che lui“, si trattava di Chinto.

Tempo dopo Sokon Matsumura, il Capo Militare del castello di Shuri, fu inviato a fermare un clandestino cinese che aveva causato dei tumulti nella città e che si era stabilito nelle grotte di Tomari.

Le strategie, le furberie e le abilità di quel cinese fecero si che la missione non risultasse così facile, come in principio era sembrata, si trattava di Chinto e Sokon Matsumura per arrestarlo, si fece accompagnare da un esperto conoscitore del posto e delle grotte delle colline di Tomari.

Questo esperto non era che Kosaku Matsumora, il quale in questo modo ebbe modo di conoscere assieme a Matsumura, questo bizzarro cinese.

In poco tempo i tre diventarono amici per via della loro passione comune, le arti marziali, di cui si scambiarono le rispettive conoscenze.

L’abilità di Chinto gli fece meritare l’onore di dare poi il nome al famoso Kata (più avanti conosciuto in alcune scuole di Karate anche come Gankaku).

Benché non si sappia se sia stato una creazione sua, di Matsumura Sokon o se semplicemente sia stato importato dalla Cina da quest’ultimo e poi ribattezzato con quel nome in onore di Chinto.

Il significato esatto del nome Chinto è incerto

Una traduzione potrebbe essere “lottare dell’ovest“, mentre un’altra potrebbe essere “lottare in una città“, Chinto fu uno dei Kata che Gichin Funakoshi portò in Giappone, assieme ad altri 15, all’inizio era un Kata introdotto dal Tomari –Te ed integrato allo Scurite.

Ci sono più di 5 differenti versioni di Chinto.

La versione di Tomari mantiene qualcosa dell’essenza cinese, mentre quella di Shuri è più semplicistica, il Kata segue una linea di movimento retta e si deve eseguire con tecniche molto dinamiche.

Caratteristica di questa forma è la ripetuta posizione con la gamba alzata, che ricorda la splendida visione di una gru posata su una roccia mentre sta per colpire la sua vittima.

Si usano anche vari calci in salto, che la contraddistinguono da altri Kata.

Entrambe le caratteristiche rappresentano la preparazione del Kata per lottare su gradini e tratti di scala, da una parte, e in posti con un terreno non uniforme e perfino delle pietre dall’altra.

Il terreno dove è ubicata la grotta, ha influenzato anche la tecnica di questo Kata, con i salti con calcio frontale sferrati da sopra le rocce.

Sia il personaggio Chinto che Tomari lasceranno un segno nella vita di Kosaku Matsumora, il quale diventò poi un un vero e proprio eroe per via della sua strenua difesa degli interessi dei contadini di Tomari nel corso degli anni in cui i Samurai dell’isola principale del Giappone li sottomisero.

Divenne molto famoso e ancor oggi si ricorda in questa zona il combattimento che Matsumora una volta ebbe contro un Samurai Satsuma.

Il fatto accadde nella via Haariya. Durante il combattimento, nel quale il Samurai usò la sua Katana regolamentare e Matsumora solo una giacca di panno, il Karateka perse un dito… che gettò nel fiume insieme al capo d’abbigliamento.

Senza dubbio Matsumora è il vero simbolo di Tomari

Con tutto rispetto di un altro esperto della zona, Kokan Oyodomari, i suoi allievi ricevettero insegnamenti regolarmente dall’eroe di Tomari nelle zone della grotta, estemporanei dojo naturali di allora, ed oggi considerati da coloro che amano il Karate più tradizionale, come luoghi storici della nostra arte marziale.

Come aneddoto da menzionare va detto che Kosaku non voleva insegnare tecniche di combattimento a Motobu per via del suo modo di essere. La bizzarria di Chocki lo spinse a spiare Kosaku nei suoi allenamenti privati e a rubargli così alcune sue conoscenze.

Note


[STORIA ANTICA] Vercingetorige, nemico pubblico dei romani

In Francia è un eroe Nazionale, per i romani, e per Cesare in particolare, era il nemico pubblico numero uno

Oggi vorrei parlare di Vercingetorige, un altro combattente e della sua storia.

Il capo carismatico che riuscì ad unire le bellicose tribù galliche

Per conquistare la Spagna, Roma impiegò secoli. Per la Giudea invece, quasi 200 anni.

La Germania non l’ha mai conquistata, la Dacia nei Balcani le perse in poco tempo. La Gallia invece, cadde in soli otto anni, quelli del proconsolato di Giulio Cesare, a metà del l secolo a. C.

Dopo allora, l’Impero non dovette più fronteggiare alcun ritorno del nazionalismo gallico

La regione che poi sarebbe diventata la Francia (ed in parte anche il Belgio e gli attuali Paesi Bassi) si sarebbe integrata perfettamente con usi e costumi romani.

Eppure quegli otto anni furono lunghissimi per gli abitanti di quei territori, determinati a rifiutare il dominio romano, resistettero finché Cesare ci diede letteralmente,un taglio, facendo amputare le mani ai difensori di un villaggio gallico di irriducibili: Fu il caso di Uxelludunum, roccaforte dei galli cadurci sul fiume Dordogna.

A quel tempo la grande ribellione del 52 a. C. era già stata archiviata ad Alesia e il suo leader languiva in catene in attesa di essere esibito nel trionfo dal conquistatore.

L’epopea di Vercingetorige era durata lo spazio di pochi mesi, ma quel nome era già simbolo della resistenza all’imperialismo romano.

Prima di Vercingetorige la Gallia non era mai stata unita e le singole tribù erano perennemente in contrasto tra loro. Ma non solo, alcune, come gli edui, si erano addirittura alleate con i romani.

Altre Tribù erano già sotto il dominio di Roma (come quelle della provincia Narbonense, nelle attuali Linguadoca e Provenza), altre erano state assoggettate dai germani suebi o travolte da imponenti migrazioni, come quella degli Elvezi che Cesare arginò con le sue legioni.

E se Vercingetorige fu il primo a dare unità ai Galli, si dovranno aspettare i franchi di Clodoveo cinque secoli dopo e la dinastia merovingia per vedere la futura Francia unita sotto un’unica corona.


La regione che i romani chiamarono Gallia aveva dunque fatto della frammentarietà il suo tratto distintivo

Ma i popoli che l’abitavano avevano molti tratti comuni a cominciare dalla religione druidica, la quale aveva il suo centro nella Foresta dei carnuti vicino ad Orléans.

Qui, ogni sesto giorno dopo il solstizio d’inverno, si celebrava la raccolta del vischio.

I Druidi erano la classe dirigente, sacerdoti ma anche giudici, insegnanti e guaritori, ritenuti dai loro connazionali depositari di poteri soprannaturali, come predire il futuro e trasformarsi in animali.

Ogni nazione gallica aveva un re o una ristretta oligarchia al vertice della gerarchia politica, una cerchia di nobili guerrieri e la popolazione composta in gran maggioranza da contadini.

Come Arminio, l’eroe della resistenza germanica che fermò i romani nella battaglia di Teutoburgo nel 9 d. C., anche Vercingetorige aveva militato nell’esercito romano come ausiliario. Un cronista dell’epoca, Cassio Dione (III secolo d. C.), si spinse a dire che era amico personale di Cesare.

A partire da questo indizio c’è chi ha supposto che il capo gallico fosse addirittura un agente del Proconsole, che lo avrebbe incaricato di scatenare la rivolta per permettergli di consolidare il proprio potere.

Poco prima che Vercingetorige (ovvero “Grande re degli eroi”) emergesse dalle nebbie della storia, Cesare aveva già sedato la rivolta di Ambiorige, il leader più prestigioso che i galli avessero avuto fino a quel momento.

Il proconsole poteva ragionevolmente supporre di aver portato a termine il compito di pacificare la Gallia, dopo sei anni di lotte ininterrotte.

Capi giustiziati o esiliati, presidi legionari ovunque, territori talmente devastati che, a detta dello stesso Cesare, nessuno sarebbe stato in grado di sopravvivervi, erano il segno di un dominio imposto col ferro e col fuoco, tanto da aver spinto alcuni storici moderni a parlare di genocidio, invece il peggio doveva ancora venire.

Cominciò tutto a Cenabum, dove in pieno inverno la tribù locale dei carnuti compì un massacro di funzionari e commercianti romani.

L’azione, probabilmente decisa durante la cerimonia della raccolta del vischio e dunque “benedetta” dai druidi, riaccese ovunque il nazionalismo gallico.

Ci furono sollevazioni in serie, alle quali mancava solo una guida comune per sfociare in una rivolta generale.

L’uomo che aspettavano i galli si trovava tra gli Arverni, uno dei popoli più potenti della Gallia

Stanziato nella regione dell’Auvergne (Francia Centrale) gli Arverni, si narrava secoli prima, avevano partecipato all’invasione dell’Italia, poi infine si erano spartiti il dominio della Gallia stessa con gli Edui.

Sempre un re degli Arverni, Luernio, sfoggiava la sua ricchezza percorrendo le strade sul cocchio e gettando manciate di oro e d’argento, mentre un altro, Bituino, era stato deposto dai romani nel 121 a.C.

Il padre di Vercingetorige, Celtillo, aveva esteso il proprio potere a tal punto che i suoi stessi connazionali-rivali per fermarlo lo avevano giustiziato.

Quando iniziarono a circolare le voci sull’eccidio di Cenabum, Vercingetorige, che Cesare nel De bello gallico definì “di giovane età” eccitò gli animi alla rivolta.

Egli incontrò però l’opposizione della classe dirigente arverna, che lo espulse dalla capitale Gergovia


Ecco come il proconsole, nella sua mirabile prosa asciutta, ne descrisse l’ascesa:

Non rinuncia all’iniziativa e arruola nelle campagne i poveri e i disperati, messo insieme questo nucleo, convince tutti i concittadini che incontra a passare dalla sua parte, li esorta a prendere le armi per la libertà comune, riunite infine truppe numerose caccia dalla città i suoi avversari, dai quali poco prima era stato espulso.

A quel punto Vercingetorige fu proclamato Re dai suoi fedelissimi. Racconta ancora Cesare:

Spedisce in ogni direzione delle ambascerie, scongiura tutti di mantenersi fedeli, in breve tempo lega a sé i senoni, i parisi, i pittoni, i cadurci, i turoni , gli aulerci, i lemovici, gli andi e tutti gli altri che abitano sulla costa dell’oceano.


Ed è sempre Cesare a tramandare le informazioni sullo “stile di governo” del capo dei galli:

A uno zelo grandissimo accompagna una grandissima severità nell’esercizio del potere, tiene insieme gli esitanti con la gravità delle pene, infatti fa uccidere con il supplizio del fuoco e con ogni altro tormento i colpevoli di gravi delitti, per una colpa più leggera rimanda a casa il colpevole dopo avergli fatto tagliare le orecchie e cavare un occhio, perché siano d’esempio ai rimanenti e gli altri si spaventino per la grandezza del castigo.

Cesare, che un quel momento si trovava a sud delle Alpi, si precipitò per colpire la riottosa Arvernia, noncurante della neve ammassata sui passi

Vercingetorige rispose spostandosi nei territori alleati di Roma e costringendo così il proconsole, in nome del prestigio dell’Urbe, a venire loro in soccorso.

Cesare diede inizio ad una serie di assedi che culminarono con quello di Avarico, l’odierna Bourges, capitale dei galli biturigi.

Caduta dopo un contrattacco finito male, questa sconfitta paradossalmente rafforzò il prestigio di Vercingetorige, che aveva sconsigliato di affrontare i romani in campo aperto.

I due antagonisti puntarono allora su Gergovia, dove ebbe luogo l’assedio successivo.

Stavolta fu a Cesare che andò male. Per lui non fu una gran batosta, ma molte tribù decisero allora di passare con Vercingetorige.

La resa dei conti fra l’armata gallica (arrivata ormai a quasi 100 mila uomini) e i romani ebbe luogo ad Alesia, oggi Borgogna.

Quando la città fu alla fame e l’esercito di soccorso sconfitto, il giovane capo arverno rassegnò il proprio mandato davanti all’assemblea dei capi e si consegnò al proconsole.

La scena della sua resa, immortalata dal resoconto di Cesare, è certamente una delle più famose della storia.

Il proconsole racconta che il capo dei galli si presentò al suo cospetto in equipaggiamento completo, su un cavallo bardato di tutto punto, con il quale compì al galoppo un giro intorno alla postazione del vincitore assiso su una sedia curale, prima di scendere di sella, gettare armi e corazza ai suoi piedi e sedersi accanto a lui senza dire una sola parola.

Vercingetorige si arrende a Cesare (Alphonse-Marie-Adolphe de Neuville – François Guizot)


Il “Grande re degli eroi” non avrebbe più dato noie al futuro dittatore, fu giustiziato sei anni dopo, strangolato a Roma nel carcere Mamertino, dopo essere stato esibito come un trofeo per le vie di Roma.

Una fine che contribuì, soprattutto nell’Ottocento romantico, a farne un simbolo del nazionalismo gallico e un campione della libertà.

Note


[CULTURA SARDA] Il nome Sardegna

Dal latino Sardinia, terra, isola dei Sardi

Dal latino Sardinia, terra, isola dei Sardi (Sardi-orum). Nome con cui i romani chiamavano la Sardegna e nome della provincia romana di Sardegna, costituita nel 227 a.C.

Vincenzo Maria Coronelli – Sardiniae Regnum et Insula (1734)

I Greci chiamavano la Sardegna Sardò

I greci chiamavano la Sardegna Sardò, connettendola a Sardo, figlio di Eracle che secondo il mito sarebbe giunto nell’isola a capo di colonizzatori libici.

La Sardegna era chiamata dai greci anche Ichnussa, dal greco ichnos (orma di piede umano), per la sua caratteristica forma (da cui anche Sandaliotis, da sandalion, sandalo).

Il radicale s(a)rd- , che identifica l’ethnos dei sardi, appartiene al sustrato linguistico mediterraneo preindeuropeo. Si ritiene che i sardi della protostoria indicassero la loro terra e se stessi con nomi derivati da questa base.

La più antica sicura attestazione scritta dell’etnico (Srdn) è contenuta nella fenicia “Stele di Nora” risalente alla fine del IX sec. a.C .

Un altro importante documento risale al VI secolo a.C.

Si tratta di un trattato di amicizia stipulato dagli abitanti della potente città magno-greca di Sibari e dal popolo dei Serdàioi, i Sardi secondo alcune accreditate ipotesi, il cui testo fu inciso su una tavola di bronzo che fu deposta nel famoso santuario panellenico di Zeus ad Olimpia.

Diversi studiosi avanzano l’ipotesi che i Sardi siano da riconoscere anche nei Serdan-, uno dei “Popoli del Mare” menzionati nei documenti egiziani tra il XVI e il XIII secolo a.C. Ciò lascerebbe immaginare una civiltà nuragica eccezionalmente avanzata ed intraprendente a livello mediterraneo, aspetti che però l’archeologia non sembra avere ancora adeguatamente documentato.

Note