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[STORIA ANTICA] Le spade romane: Un breve excursus

I romani imparavano a ferire non di taglio, ma di punta. Questi ultimi infatti non solo vinsero facilmente coloro che con le spade colpivano di solo taglio, ma anche si fecero gioco di essi.

I colpi di taglio infatti, con qualsiasi impeto siano inferti, più arduamente uccidono sul colpo poiché le parti vitali sono difese sia dalle armi ed armature, sia dalle ossa, mentre invece le ferite inferte con la punta della spada se penetrano per due once (cinque centimetri n.d.r) sono mortali.

È infatti necessario che qualsiasi arma penetri nel corpo attraversi punti vitali. In secondo luogo, mentre si colpisce di taglio, il braccio e il fianco destro possono rimanere scoperti, invece quando si colpisce di punta il corpo rimane coperto e si ferisce l’avversario prima che se ne accorga.

Perciò si sa che i romani usarono soprattutto questo tipo di colpo per combattere.

Vegezio indica al cap. XVI “ Quemadmodum Triarii vel Centuriones armentur “ l’armamento dei Triari e dei Centurioni che consiste in scudi, corazze, elmi schinieri, spade, (gladiis) mezzespade, (semispathiis), le piombate e due giavellotti.

In questa mia breve disanima sulle armi romane, presento le spade che godettero in periodi diversi di grande considerazione

Esse furono essenzialmente tre:

  • Il glaudius ispanicus/ispaniensis, il termine ispanicus è riferito alla spada in uso tra le popolazioni celtiche presenti in Spagna sin dal V secolo a.C. E conosciute come Celtiberi. È un’arma simile per caratteristiche alla spada greca e a quella celtica con lama a foglia e che dette vita con la sua struttura, a metà del I secolo d. C.
  • Alla spada tipo Pompei, rettifila e idonea a portare anche colpi di taglio che farà da matrice tra il secondo e il terzo secolo d. C. a quella spada più lunga e pesante adottata dall’esercito romano.
  • Il tipo spartha che tuttavia non soppiantò del tutto la Pompei

Si tratta in tutti e tre i casi di armi potenti e ad alta capacità penetrativa, in particolare le spade tipo Pompei presentano una lama lineare a sezione romboidale con punta acuminata, spigolosa e affilata, priva di guardia e con impugnatura anatomica rilevata a creste.

Il pomolo è sferico e di grandi dimensioni per necessità di equilibrare il peso di assetto della punta. Si può affermare che la Pompei ottimizzò le soluzioni del gladius ripartendo il peso spostandolo dal debole al medio/forte stabilizzandone così la punta, viene giocoforza il paragone con la spada lateniana celtica, della quale condivide in buona misura lunghezza, peso, dimensionamento e impugnatura.

La lama delle spade romane non è a foglia, ma di foggia lineare ed acuta e questo tipo di conformazione si ritrova in alcune lame celtiche

Si sa sempre da Vegezio che l’addestramento alla spada e di spada e scudo era tenuto in gran considerazione, i poderosi colpi di punta erano sferrati al quadrato romano (zona compresa tra il plesso solare e le pelvi) ed i colpi di taglio venivano sferrati principalmente al braccio armato e alle gambe dell’avversario, in particolare all’articolazione esterna/interna del ginocchio o al garretto.

Questa fu una strategia di scuola greca, per inibire la capacità di movimento in combattimento che tra l’altro una tale ferita rendeva il guerriero sopravvissuto un peso alla comunità in quanto non avrebbe più potuto combattere, in alcuni casi si colpiva anche alla testa di fendente con effetti devastanti e a questo colpo ricorrevano i soldati romani, quando si trovavano a combattere contro gli altri soldati sprovvisti di elmi, come nel caso di battaglie sostenute dalla LEGIO II AUGUSTA in Inghilterra.

L’abilità sviluppata nelle scuole di scherma dai soldati romani faceva si che il loro addestramento puntasse a ridurre i tempi di caricamento del colpo, a non esporre il lato destro e soprattutto a muoversi contro un avversario utilizzando gli inganni e le strategie individuali quasi si trattasse di un confronto in duello, mantenendo tuttavia una coesione di massima con il resto della milizia.

Si riducevano così anche le uccisioni di commilitoni nella mischia di contatto, che avvenivano in alcune battaglie per la furia dello scontro tra due unità contrapposte, questo “inconveniente” che portava al ferimento dei soldati amici posti ai lati e dietro era causato dallo sbracciamento dei colpi e dalla scarsa coesione dei ranghi.

Manovrare una replica di spada romana dà l’idea del potere devastante di queste lame

Fa percepire quanto sanguinario e terribile fosse lo scontro tra due armati che giunti alla distanza relativamente corta iniziavano a tirare punte e a lanciare tagli la cui forza sprigionata era tremenda, bisogna ricordare che si tratta di armi che in battaglia venivano utilizzate massivamente in mezzo ad una moltitudine di corpi a stretto contatto in un raggio di azione spesso ridotto.

Non era possibile sfuggire più di tanto a fendenti e stoccate impetuose, data la situazione di battaglia, e si doveva tentare di chiudere le linee con dei colpi in tempo e dove era necessario opporre decisamente e con grande impeto scudo u spada ai colpi avversi.

Note


Similitudini fra la PASSIONE per i GIOCHI gladiatori e il CALCIO

Schiere di tifosi osannanti scandiscono i nomi degli uomini in campo per l’evento sportivo dell’anno, ad assistervi in tribuna d’onore ci sono i pezzi grossi della politica e dell’economia, ma non è una finale di Champions league, è la fotografia di uno spettacolo di gladiatori al Colosseo più o meno duemila anni fa.

Allora come oggi gli spettacoli sportivi appassionavano migliaia di cittadini, tanto che i potenti presero ad approfittarne.

Nacque così il meccanismo del consenso che l’autore satirico Giovenale (1° secolo d.C) definì panem et circenses: si organizzavano pubbliche attività ludiche per ingraziarsi il popolo e distogliere l’attenzione dei cittadini dalla vita politica in modo da lasciarla in mano alle élite.

Suona moderno anche questo, vero?

Ma vediamo come divennero popolari i giochi gladiatori.

In origine erano riti funerari. La traccia più antica di giochi gladiatori è stata trovata in alcune tombe di Paestum del IV secolo a.C. ed allora gli spargimenti di sangue avevano un significato simbolico legato al culto dei morti, si chiamavano infatti munera, cioè dovere, dono.

A poco a poco, però, i combattimenti acquistarono una popolarità tale da vivere di vita propria, la gente aveva scoperto la passione per i giochi e, come accade oggi, i politici non tardarono a rendersene conto.

Ma potremmo chiederci cosa c’entri la politica

I giochi gladiatori diventarono uno strumento attraverso il quale i magistrati, ed in seguito ancora di più l’imperatore, si facevano pubblicità.

Divennero talmente importanti che la legge stabilí che un magistrato, una volta eletto, avesse l’obbligo di allestire un gioco gladiatorio o di costruire un edificio pubblico.

Quasi tutti sceglievano i giochi, garantivano il maggior consenso popolare.

Il popolo inneggiava sui muri i propri eroi

La popolarità dei gladiatori è testimoniata per esempio dai graffiti di Pompei, che ci danno un quadro della vita quotidiana più fedele delle fonti storiche, se gli intellettuali dell’epoca guardavano i gladiatori con una certa puzza sotto il naso (allo stesso modo oggi alcuni intellettuali guardano con sufficienza al mondo del calcio) il popolo al contrario li idolatrava.

Il popolo inneggiava sui muri i propri eroi, che spesso avevano soprannomi evocativi: Ferox (Feroce), Leo (Leone), Tigris (Tigre), Aureolus (Ragazzo d’oro) ecc…

Forse Aureolus era il Maradona dell’epoca, le analogie con il mondo del calcio sono molto più numerose di quanto si immagini, due gladiatori potevano scontrarsi tra loro solo se appartenevano alla stessa “classe“, un po’ come oggi una squadra di serie A non può giocare con una di serie B.


I gladiatori vivevano e si allenavano molto duramente

In luoghi preposti, i ludi, spesso gli allenatori erano i rudiarii, ex gladiatori che, esaurito il vigore della gioventù, si convertivano in “mister“, e a gestire i ludi erano i lanisti, sorta di impresari che selezionavano gli schiavi più promettenti, li addestravano, li sottoponevano a diete particolari per rinforzare i muscoli e poi li affittavano, a prezzi esorbitanti, ai grandi personaggi politici dell’epoca o a privati che volevano ingraziarsi il popolo.

Il giro d’affari era paragonabile a quello del calcio di oggi, e come oggi c’erano le scommesse, non sono giunte prove di gare truccate,ma si sa che prima dei combattimenti c’era sempre una probatio armorum, la “prova delle armi“.

Un rito attraverso il quale i gladiatori dimostravano che le loro spade erano adeguatamente affilate, evidentemente il popolo voleva essere sicuro di non essere imbrogliato.

A spendere più di tutti erano gli editores, le figure che affittavano i gladiatori, cioè che mettevano i soldi, un po’ come gli attuali presidenti delle squadre di calcio, le cifre che giravano erano talmente alte che l’imperatore Marco Aurelio (II secolo d.C.) fu costretto a calmierare i prezzi.

Se volessimo prendere esempio dagli antichi romani, non avremmo solo Marco Aurelio a cui ispirarci, Cicerone riferisce della Lex Tullia de ambitu, una legge approvata sotto il suo consolato, nel 63 a.C., che impediva ai personaggi pubblici di finanziare giochi gladiatori nei due anni che precedevano le elezioni.

I Romani erano ben consapevoli di quanto i giochi conferissero popolarità a chi li sponsorizzava, lo sapeva bene l’imperatore Augusto, che per controllarli meglio rese obbligatorio ottenere l’autorizzazione preventiva del senato, e lo sapeva Nerone che, dimostrando fiuto politico, divenne amico di molti famosi gladiatori.

I gladiatori non erano solo degli schiavi

I gladiatori non erano solo degli schiavi. I lanisti gli reclutavano e gli obbligavano a seguire regimi alimentari rigorosi e a sostenere allenamenti intensi, ma se in campo si comportavano bene, ottenevano fama e gloria e molti soldi .

Ben presto gli editores presero a pagare profumatamente i vincitori dei combattimenti più importanti, dando loro l’occasione di un riscatto sociale, molti riuscirono a comprarsi la libertà e addirittura a diventare ricchi.

Per non parlare del successo con l’altro sesso, come i calciatori di oggi, anche i gladiatori erano nel mirino delle donne più belle dell’epoca.

Il poeta satirico Giovenale ironizzò sulla vicenda di una certa Eppia, che abbandonò casa e famiglia per seguire il gladiatore Sergio, che aveva anche un aspetto ributtante, sfregiato, con un enorme porro in mezzo al naso ed un occhio perennemente gocciolante.

Un graffito di Pompei inneggia poi al thraex Celado, che faceva sospirare le fanciulle, i gladiatori erano così noti che andavano in giro in turnèe (potrei dire in trasferta) per tutto l’impero, a Benevento un’ iscrizione funeraria ricorda un gladiatore “straniero“ giunto addirittura da Colonia, in Germania.

Fu per tutti questi vantaggi che anche uomini liberi presero la decisione di diventare gladiatori ,la fama, i soldi e le donne facevano gola a molti, così gli svantaggi passavano in secondo piano.

Chi sceglieva di diventare gladiatore rinunciava ad alcuni privilegi, al diritto di voto per esempio e alla possibilità di intraprendere un carriera politica, i gladiatori, come del resto gli attori e i personaggi di spettacolo, erano considerati cittadini di serie B.

Un’ambivalenza difficile da capire per noi

Anche se erano gli idoli delle folle, erano poco apprezzati dalla classe dirigente, poiché il mestiere di esibirsi difronte a un pubblico era ritenuto poco nobile, per non dire degradante.

Uno svantaggio che si crede impropriamente che avessero i gladiatori è un elemento tutt’altro che trascurabile, il rischio di morire, ma non così tanto come si pensa o come ci hanno fatto credere nei film, a nessuno conveniva che morissero, né al lanista, che aveva investito tempo e risorse su di loro, né tanto meno all’editor, che era tenuto a risarcire cifre esorbitanti al lanista in caso di morte del gladiatore.

A Pompei, per esempio, in ciascuno dei 32 combattimenti documentati dai graffiti, furono coinvolte 20 coppie di gladiatori, dalla lettera scritta accanto ai loro nomi (M per missus, cioè graziato, V per vicit, vinse, e O barrata per i morti) è stato appurato che i morti furono in tutto tre.

Di solito a morire erano i più pusillanimi o i più scorretti, la cui uccisione veniva invocata a furor di popolo.

Sant’Agostino denunciava l’inumana voluttà che travolgeva chi assisteva a questi spettacoli di morte, l’abbrutimento morale di chi si faceva inebriare dagli spargimenti di sangue, la sua visione era  condizionata dalle persecuzioni contro i cristiani.

Le persecuzioni ebbero il loro culmine nelle arene nel lV- V secolo a Roma, l’immagine che esce dagli studi storici, specie in centri minori come Pompei, è però diversa, la gente non era assetata di sangue,né amava lo spettacolo della morte in sé.

L’affermarsi del cristianesimo soppresse i giochi

Generalmente quello che il popolo voleva vedere erano buoni combattimenti, con gladiatori abili, coraggiosi e rispettosi delle regole, che erano rigidissime e ben codificate, né più né meno che i tifosi di oggi che si incontrano al bar dello sport, possiamo immaginare che gli spettatori di allora amassero discutere tra loro delle prove dei loro beniamini.

L’affermarsi del cristianesimo soppresse i giochi fra il lV e il V secolo, che ne denunciò (anche in quanto manifestazione del mondo pagano) la violenza.

Al tramonto dei giochi contribuirono anche la decadenza delle arene che li ospitavano e di Roma stessa.

Da allora in poi in Europa non ci fu più un fenomeno sociale paragonabile ai giochi dei gladiatori, almeno sino al successo del calcio dei nostri tempi.

Note


VIVERE DA GLADIATORE: La selezione, l’allenamento, la carriera

Premessa


Prima di parlare dell’oggetto di questo articolo, vorrei ricordare alcuni gladiatori famosi nella storia:

  • BATO: gladiatore di valore, si rese antipatico a Caracalla, Dione Cassio riferì che l’imperatore lo fece combattere contro tre uomini uno dopo l’altro e gli negò la grazia, fu però seppellito con tutti gli onori;
  • COLUMBUS: originario di Nemausus (odierna Nimes, Francia) vestì l’armatura del mirmillone, ebbe un curriculum di 88 vittorie. Anche lui si inimicò il potente di turno, Caligola, che lo fece uccidere versando sulle sue ferite un composto tossico chiamato poi columinum;
  • LUCILIO DI ISERNIA: definito “uomo sanguinario“ , fu uno dei gladiatori sanniti più famosi, operò intorno alla metà del l° secolo a.C. nella scuola gladiatoria di Capua dove a fine carriera divenne addestratore. Tra i suoi allievi potrebbe esserci stato lo stesso Spartacus;
  • ASTACIUS: reziario, si meritò questo soprannome (letteralmente “gambero”) per la sua tecnica fatta di affondi e veloci arretramenti. Il Mosaico del gladiatore alla galleria Borghese di Roma lo raffigura mentre finisce il suo avversario con una pugnalata;
  • CARPOPHORUS: di questo gladiatore nordico Marziale si disse che proveniva da “una città del polo artico“. La sua specialità erano le belve, nei giochi per l’inaugurazione del Colosseo (80 d.C.) uccise 20 fiere e fu perciò esaltato come emulo dell’eroe mitologico Ercole;
  • CELADUS: un trace, non inteso come provenienza ma nel senso che indossò quel tipo di equipaggiamento gladiatorio. Scritte a Pompei parlano di lui, ma non per i suoi meriti di combattente, è infatti definito “ sospiro delle fanciulle “.

Una biografia a parte tratterò poi per Spartaco, il gladiatore ribelle.

Ma andiamo ad analizzare le diverse specialità, alcune meno pericolose

Come il lusorius, per esempio, combatteva con armi smussate nelle prolusioni.

Dentro le mura della caserma la vita cominciava all’alba. Voci rudi intimavano la sveglia, iniziava l’ennesima giornata di duro allenamento. Con un piccolo fuori programma, un una nuova recluta pronunciava il suo giuramento, un voto speciale e sinistro, che lo impegna a farsi “bruciare, legare, bastonare, uccidere“. Perché questa non è la Legione straniera e neanche una pur severa caserma di legionari romani.

Siamo in un ludus, uno degli oltre cento sorti in ogni provincia dell’impero romano. Palestre-prigioni che i gladiatori chiamavano casa e dove si imparava a combattere e a morire in nome dell’unico tiranno che gli imperatori stessi devono corteggiare : Il Pubblico.

Si sa che i primi combattimenti (munera) del lV-lll secolo a. C. erano cerimonie funebri, ma sappiamo anche che già nella tarda età repubblicana (l secolo a.C.) questi giochi si trasformarono in spettacolo per controllare le masse e l’aspetto sacrale restò come semplice pretesto.

Giulio Cesare, un maestro di propaganda, si inventò di celebrare grandi giochi per la morte del padre a ben 24 anni dalla sua scomparsa

Federica Guidi, archeologa

All’inizio i condannati a combattere con il gladio (una sorta di spada corta, da cui il termine gladiatore), erano spesso prigionieri di guerra (ed ecco spiegate le classi gladiatorie, che facevano riferimento ai popoli vinti dai romani).

Il loro armamento e i loro nomi, erano differenziati in base ai popoli di appartenenza dei prigionieri-combattenti (il gallo, il sannita, il trace e così via).

Augusto, imperatore che non amava i giochi, riorganizzò queste categorie con nomi che oggi definiremo “politicamente corretti“, ovvero che non offendessero ex avversari divenuti ormai, a secoli di distanza, cittadini dell’Impero. Con questa riforma, per esempio, il gallo diventò il mirmillone.

Con l’età imperiale ci fu anche un’altra innovazione, e quella di gladiatore divenne una professione e non più solo una condanna

Nell’arena presero a scendere anche uomini liberi, i cosiddetti auctorati, che si vendevano alle scuole con un apposito contratto stipulato con il Lanista, una sorta di impresario-manager delle scuole gladiatorie. Questi individui lo facevano per pagare i debiti, o comunque con il miraggio dei soldi.

Combattere nell’arena dava denaro e fama, che controbilanciavano la condanna sociale di questa professione. Diventando gladiatori si rinunciava infatti al proprio pudor, alla dignità civile, cosa gravissima agli occhi di un romano

Federica Guidi, archeologa

I giochi erano seguitissimi, ma disdicevoli, persino un lanista, a dispetto dei lauti stipendi, veniva escluso dalle cariche pubbliche, per il combattente ucciso c’erano di norma le fosse comuni, dove finivano anche ballerine e prostitute, eppure il fascino di questa figura restava indiscutibile, nel l secolo d.C. la febbre dell’arena spinse a combattere senatori, aristocratici, donne e persino alcuni imperatori.

Ma torniamo ai luoghi dell’addestramento, i ludi di proprietà imperiale o privati, a Roma il più celebre era il Ludus magnus, i cui resti sono ancora visibili non lontano dal Colosseo.

Grandi o piccole, queste strutture si somigliavano tutte: pianta quadrata o rettangolare, cubicoli per alloggi, magazzini per le armi, a volte prigioni (per gli “ospiti “ che non erano lì per scelta) e soprattutto un’ampia corte per le esercitazioni, a volte dotata di una piccola arena in cui l’ editor che finanziava i giochi poteva “testare“ in anteprima i suoi campioni.

Nel ludus si entrava come novicii, cioè principianti, e l’occhio esperto del lanista individuava subito in base alla conformazione fisica la specialità in cui inquadrare la nuova recluta, e così un uomo magro e scattante sarebbe potuto diventare un buon reziario, mentre uno massiccio e robusto andava bene per categorie armate più pesantemente, come l’oplomaco o il mirmillone.

L’ars gladiatoria seguiva regole precise che prevedevano scontri fra coppie bilanciate in base all’armamento, il combattimento avveniva ad digitum (cioè come ritengono in molti, finché uno dei contendenti alzava il dito in segno di resa), quasi mai all’ultimo sangue (sine missione).

Inoltre il lanista opponeva sempre gladiatori di pari esperienza, così il combattimento durava più a lungo. Se nessuno dei due prevaleva sull’altro, l’arbitro poteva sospendere l’incontro, far bere i duellanti e farli ricominciare.

Se uno dei due veniva ferito e cadeva a terra e chiedeva la resa alzando un dito

A quel punto l’editor decideva il destino dello sconfitto. Poteva farlo da solo o chiedere il parere del pubblico che gridava iugula (sgozza) o missum (lascialo andare)

Il pubblico e l’ editor rispondevano a loro volta con il dito alla richiesta di grazia, nei testi latini il gesto per ordinare la morte è indicato come il pollice o pollicem vertere, ma il significato è motivo di dibattito ancora oggi.

Pollicem premere voleva invece dire “sia risparmiato“, molti studiosi ritengono che la grazia venisse espressa con il pollice chiuso nel pugno, a mimare il gesto della spada che viene rinfoderata e la condanna con il pollice all’insù, l’idea che fosse rivolto all’ingiù si diffuse nell’ Ottocento, nei dipinti che rievocavano i duelli nel Colosseo.

Anche l’esercito romano fece ricorso ai gladiatori, giovani ben addestrati utili a sostenere le file dei militari

Nel 105 a.C. per esempio il console Publio Rutilio chiamò dei Maestri d’armi da Capua per insegnare ai propri soldati l’arte della scherma, mentre Vitellio nel 69 d.C. riunì una schiera di gladiatori per far fronte alle legioni del rivale Vespasiano, del resto anche il suo predecessore Otone aveva arruolato nell’esercito romano addirittura duemila gladiatori, come ricorda Tacito nelle sue Historiae .

Stessa cosa fece Marco Aurelio sul finire del ll secolo, rinforzando con alcuni gladiatori le file dell’esercito decimato dalle guerre contro le tribù germaniche.

Non mancarono casi opposti, soldati che confidando nelle doti guerresche apprese in battaglia, cercavano gloria e denaro nelle arene

Quest’ultima a pratica si diffuse talmente tanto che fu necessario emanare una legge, nel 357 d.C., che proibiva ai lanisti di stipulare contratti con i soldati per non indebolire i ranghi delle legioni.

Ai diversi tipi di gladiatori corrispondevano tecniche specifiche e per ciascuna di esse c’era un doctor, da non confondere con il medicus (che ovviamente in caserma non mancava) , il doctor era il Maestro d’ armi, spesso un ex gladiatore a riposo, insieme ad altri personaggi minori, per esempio gli unctores, i massaggiatori, ma anche contabili e guardie di sicurezza per impedire fughe o suicidi tra i gladiatori “forzati“.

Questo variegato team di atleti e personale costituiva la familia gladiatoria in cui il novicius faceva il suo ingresso

Dell’addestramento in sé si sa poco, tra gli strumenti quotidiani c’era la rudis, un gladio di legno concesso simbolicamente a fine carriera, diventava anche una sorta di salvacondotto per cessare l’attività. Con la rudis ci si allenava a coppie, ma spesso anche contro fantocci legati al palo, da cui il titolo di primus palus concesso al gladiatore più abile della scuola.

Terminata la preparazione di base l’aspirante diventava un tiro (recluta, da cui il termine tirocinio), ma era solo dopo il primo combattimento che meritava la qualifica di veteranus, a quel punto riceveva una speciale tessera gladiatoria in osso o avorio.

Era la carta d’identità su cui annotare un evocativo nome di battaglia ed eventuali vittorie. In generale i gladiatori si coprivano solo con un perizoma e una cintura secondo una tradizione che rimandava alla nudità di eroi e atleti greci.

Tra i miti da sfatare, quelli di una vita solitaria e sempre grama. Parecchi gladiatori avevano mogli e figli fuori dalla caserma e i pasti forniti dal lanista erano sostanziosi.

Tutto, anche la dieta, ruotava infatti attorno al combattimento nell’arena.

Feroce sì, ma raramente all’ultimo sangue, a dispetto degli iugula-gozza! urlati dalla folla, i combattimenti finivano spesso con una richiesta di resa

Questo anche perché il pubblico, in genere, aveva già avuto la sua razione di sangue poiché i combattimenti dei gladiatori avvenivano nel pomeriggio, dopo le varie battute di caccia e le condanne a morte.

Certo, come per i calciatori di oggi, per un campione che diventava ricco e famoso, c’erano migliaia di anonimi che morivano dimenticati e senza diritti, ma, proprio come le star del pallone, chi aveva fortuna o era particolarmente abile, poteva contare non solo sul riscatto (gli schiavi che facevano guadagnare bene il loro lanista, potevano comprarsi la libertà) ma persino un invidiabile ascendente sulle donne.

Gli esempi in tal senso non mancano, nelle satire di Giovenale (l secolo d.C.) si parla di un tale Sergiolus (Sergino) brutto e coperto di cicatrici, ma gladiatore, che fece perdere la testa alle matrone, che abbandonarono i mariti per fuggire con lui.

Proprio le leggende sul vigore sessuale dei dannati dell’arena alimentarono un ulteriore business: un indotto dei giochi gladiatori, il sangue e il sudore dei combattenti erano infatti venduti a peso d’oro come afrodisiaci.

Le statuette falliche dei gladiatori erano, tra i diversi gadget legati ai giochi, quelli forse più ricercati e meglio pagati.

La vita però era solitamente breve

Magari se si era fortunati e la carriera era gloriosa, in tutto, non si viveva più di 30 anni. Tanto durava la vita media di un gladiatore che in carriera poteva combattere da 5 a 34 volte, anche se molti non facevano in tempo a superare i primi incontri.

Le condizioni di vita non erano certo facili, specie se i combattenti non conquistavano grande fama. In un anno ogni gladiatore poteva scendere da due a quattro volte nell’arena, ma viveva in una condizione di stress continuo, accompagnato dalla paura di una morte disonorevole.

A volte l’angoscia era tale che sceglievano addirittura di togliersi la vita

In una delle sue lettere Seneca racconta la vicenda di Germano, avrebbe dovuto combattere contro gli animali in una venatio, ma prima di entrare nell’anfiteatro si recò nella latrina eludendo la sorveglianza, e prese il bastone con la spugna usato per pulirsi e se lo conficcò nella gola, morendo soffocato.

Note


[STORIA ANTICA] Spartaco il ribelle

La storia del gladiatore che tra il 73 e il 71 a. C. guidò una rivolta di schiavi, mise a ferro e fuoco il Sud Italia e diede filo da torcere ai romani.

Per alcuni fu il primo guerriero marziale della storia, lo stesso Marx, in una lettera al “compagno Engels“ nel 1861 lo definì “un genuino rappresentante del proletariato antico“.

Eppure quel Che Guevara in anticipo sui tempi non aveva mai sentito parlare né di socialismo, né di plusvalore, né tanto meno del barbuto filosofo tedesco, alla cui nascita mancavano ben 19 secoli.

E se qualcuno gli avesse nominato la lotta di classe, lui avrebbe pensato ad una battaglia navale, perché in latino classis vuol dire anche flotta.

Si chiamava Spartaco, era gladiatore, nato forse nel 109 a.C. In Tracia (l’attuale Turchia europea)

Morì a 38 anni dopo combattendo in Basilicata contro Marco Licinio Crasso, futuro triunviro, che faccia avesse non si sa, ma molti lo immaginano coi capelli biondi e la fossetta sul mento di Kirk Douglas, che nel 1960 lo interpretò in un film “Sparacus“.

Oltre a quel film, nell’ultimo secolo la Spartaco Story ha ispirato saggi, romanzi, opere d’arte, partiti e persino squadre sportive.

Il nome Spartak dilaga negli stadi d’Europa da Mosca a Busto Arsizio, con massima densità nei paesi dell’Est.


Ma chi era il vero Spartaco?

Per ricostruire la sua storia ci si basa essenzialmente su sei autori antichi, due greci (Appiano e Plutarco) e quattro di lingua latina (Sallustio,Eutropio,Floro e Orosio), che però in comune hanno ben poco.

Infatti Sallustio era un senatore della Sabina (fra Lazio e Abruzzo), supporter di Giulio Cesare, Eutropio, nato a Bordeaux, un pagano vissuto quando il paganesimo era già alla frutta (lV secolo), Orosio, un aggressivo polemista cristiano portoghese, fedelissimo di sant’Agostino.

Appiano faceva invece l’avvocato ad Alessandria d’Egitto, mentre Plutarco era un raffinato intellettuale di Atene, animalista ante litteram, e Floro un magrebino che in casa parlava il dialetto berbero.

Eppure benché lontani per epoca, patria e cultura, almeno gli autori latini un dato comune ce l’hanno: di Spartaco parlano male tutti.

Eutropio gli imputa “molte calamità“ , Floro ne dà un giudizio sprezzante (da soldato a disertore, poi predone) e dice che “distrusse con orrendi eccidi“ varie città.

Il testo di Sallustio è monco, ma basta per tacciare gli spartachisti di “ira barbarica“, infine Orosio definisce “infame“ la rivolta, accusa i ribelli, di una loro prigioniera violentata e morta suicida.

Ma è tutto vero?

Almeno Orosio va preso con le pinze.

Ciò sia perché scrisse 500 anni dopo i fatti, quindi basandosi su fonti di quarta mano, sia perché i suoi erano testi a tesi. Volevano dimostrare quanto male avesse prodotto il passato di Roma rispetto al benefico presente cristianizzato.

Ma da guardare con sospetto non è solo Orosio

Osserva un biografo moderno di Spartaco, Aldo Schiavone, docente all’Istituto Italiano di scienze umane di Firenze: come per altre grandi figure che hanno combattuto contro Roma (il cartaginese Annibale o il gallo Vercingetorige) tutto ciò che si sa di Spartaco lo dobbiamo a quel che hanno ricordato di lui i suoi mortali nemici.

Le immagini della tradizione antica sono un riflesso di quelle fissate negli occhi dei vincitori.

Eppure se dagli autori latini si passa ai greci, almeno una voce fuori dal coro c’è

Infatti Plutarco pur confermando le violenze dei ribelli, attribuisce la colpa di tutto allo stato disumano in cui vivevano gli schiavi.

“Rinchiusi a forza per la lotta gladiatoria, non per aver commesso gravi colpe ma per l’ingiustizia del loro padrone“, dallo stesso Plutarco ci giunge l’unico ritratto positivo di Spartaco, uomo “dotato non solo di grande coraggio e forza fisica, ma anche per intelligenza e dolcezza superiori alla sua condizione“

Predone o dolce eroe dunque?

Ripartiamo dai fatti, tutto iniziò quando in Italia era da poco finita l’epopea dei Gracchi ed in Africa fumavano ancora le rovine di Cartagine, distrutta da meno di 35 anni.

Fu allora che in un villaggio dei Rodopi (i Monti delle rose, oggi tra Bulgaria e Turchia), abitato dalla tribù trace dei Maidi, venne al mondo il futuro gladiatore.

All’epoca i Maidi non erano ancora sudditi di Roma, che però aveva già incluso nei suoi domini la vicina Macedonia.

Qualche tempo dopo (87 a.C.), quando Spartaco era ventenne o poco più, la Tracia diventò, come metà dei Balcani, un teatro di manovra delle legioni romane, dirette ad est per combattere il Re dei Parti, Mitriade.

In quell’ambiente di frontiera il giovane Spartaco fece ciò che poi fecero molti indiani d’America durante le guerre coloniali anglo-francesi: si arruolò nell’esercito che pagava meglio.

Quando come e per quanto tempo il futuro ribelle abbia offerto i suoi servigi agli invasori, non si sa, ma la notizia è certa

Eutropio, sinteticamente ma chiaramente, dice che Spartaco “aveva combattuto un tempo con i romani“ e il magrebino Floro conferma.

Per via indiretta si può dedurre il resto.

Per esempio che Spartaco militò quasi sicuramente nella Vl legione, detta Macedonica dalla zona dove operava, o che il suo primo capo fu Silla, futuro dittatore di Roma, fino all’83 Kapò militare dei balcani.

Ma la carriera di mercenario non durò, presto Spartaco disertò e diventò “il predone“

Perché? Schiavone avanza un’ipotesi suggestiva anche se basata solo su indizi logici: Spartaco avrebbe disertato nel 77, quando il successore di Silla, tale Appio Claudio Pulcro attaccò i Maidi.

A quel punto Spartaco si sarebbe riunito ai suoi nella resistenza “diventò un ribelle e per i romani un bandito“ commenta Schiavone, in realtà era un guerriero, una sorta di partigiano.

Ma anche la carriera di partigiano durò poco

Non oltre il 75 l’ ex legionario fu catturato con sua moglie (una sacerdotessa di Dionisio) e ridotto in schiavitù.

La Tracia, prosegue Schiavone, era in quegli anni con le Gallie, uno dei bacini di approvvigionamento per il sistema schiavistico romano.

Spartaco finì a Roma e lì fu comprato da un lanista (impresario-allenatore) di Capua, Lentulo Baziato.

All’epoca Capua aveva un attivissimo anfiteatro, con annessa un’atroce scuola-prigione gladiatoria, dove uomini atletici e sfortunati si riciclavano in tori da corrida, ad uso di una torma sadica di spettatori urlanti.

Gli allievi della scuola venivano abituati all’idea che l’unico metodo per sopravvivere era scannare qualcun altro.

Un incubo insomma. In quell’inferno spartaco rimase un anno scarso

Arrivato nel 74 a.C., nel 73 a.C. era già evaso, lo fece con altri compagni di sventura (minimo 30 secondo Floro, minimo 78 secondo Plutarco).

Iniziò così quella che Roma chiamò poi “Terza guerra servile“ (le prime due scoppiarono in Sicilia nel 135 e nel 104 a.C.) e gli spartachisti moderni “guerra proletaria“ .

Che gli evasi fossero proletari veri, cioè uomini che non avevano “nulla da perdere se non le loro catene“, però nei loro bagagli, invece di falci e martelli, c’erano spiedi e coltelli.

Erano armi rudimentali, più da cuochi che da guerriglieri, infatti Plutarco riferisce che erano state prese in una cucina.

Vagando nelle campagne gli evasi incrociarono alcuni carri carichi di spade e forconi da gladiatore destinati, curiosa coincidenza, all’Anfiteatro di Capua.

Dopo l’ovvio assalto ai carri, i 78 (o meno) si equipaggiarono a dovere e, a marce forzate, andarono ad arroccarsi tra le vigne del Vesuvio, prima “terra liberata“ della rivolta.

Là scelsero tre capi: due galli (Crisso ed Enomao) e il trace Spartaco

All’inizio il Senato non si rese conto della portata di quei fatti, prima lasciò il compito di ristabilire l’ordine pubblico alle deboli truppe locali, che ebbero subito la peggio, poi inviò da Roma quattro coorti (circa 2.500 uomini) al comando di un ingenuo pretore, Claudio Gabro.

Egli si limitò a bloccare i sentieri della montagna, pensando che i ribelli si sarebbero arresi per fame e sete.

Grave errore, una notte i gladiatori intrecciarono delle funi usando tralci di vite, quindi si calarono da una parete, presero gli assedianti alle spalle e li decimarono.

Le prime vittorie permisero a Spartaco e soci di prendere tre piccioni con una fava, si sottrassero all’assedio, si rifornirono di armi migliori prese ai militari battuti, ed infine si fecero pubblicità calamitando nuove reclute.

Così quando da Roma arrivò un nuovo pretore, Publio Varinio, non si trovò poche decine di sbandati bensì un esercito, secondo Floro, di 10 mila uomini.

Seguirono mesi di guerriglia di logoramento

Prima gli spartachisti annientarono in un agguato una colonna nemica comandata da un luogotenente di Varinio, tale Furio, poi piombarono in una villa tra Ercolano e Pompei, dove un altro luogotenente (Cossinio) stava tranquillamente facendo il bagno e lo uccisero.

Ucciso Cossinio, venne il turno di Varinio, sconfitto presso Nola (Napoli). A pochi mesi dall’evasione, Spartaco era padrone di fatto della Campania e di mezzo Meridione.

Ma quanto si era rivelato abile nella tattica militare, tanto fu inconcludente nella strategia, dando inizio ad un percorso contraddittorio su e giù per l’Italia che si concluse in Calabria, da dove tentò di passare in Sicilia con l’aiuto di alcuni pirati che però lo bidonarono.

Che cosa si proponeva l’ex gladiatore con quella lunga marcia?

La spiegazione di Plutarco è che Spartaco intendeva varcare le Alpi e poi dare il rompete le righe in modo che tutti tornassero alle rispettive patrie.

Fu però ostacolato dagli altri leader della rivolta, che preferivano saccheggiare le opulente città del Sud.

Non tanto Enomao, morto in una delle prime battaglie, quanto Crisso, che ad un certo punto si separò da Spartaco e si diresse in Puglia.

Dei contrasti che minavano la solidità dell’armata ribelle, Roma non sapeva nulla, e quando Spartaco attraversò due volte l’Italia Centrale.

Dopo i pretori del 73, i Senato mandò i consoli del 72, Lucio Gellio e Cornelio Lentulo.

L’unico che ottenne un parziale successo fu Gellio, che al Gargano uccise il dissidente Crisso, ma poi entrambe i consoli furono sconfitti e costretti alla fuga.

Solo nel 71 a.C. il vento cambiò

Ad invertirne la direzione fu Marco Licinio Crasso, l’erede politico di Silla.

Patrizio durissimo e ricchissimo, cui il Senato affidò ben otto legioni, costui esordì accusando di viltà i veterani che avevano già affrontato Spartaco e con metodi proto-nazisti ne fece uccidere 50, scelti con il metodo della decimazione.

Poi, quando fu sicuro che i soldati temevano più lui che il nemico, puntò contro i ribelli.

Il contatto avvenne presso Reggio, dove Spartaco vivacchiava scornato dopo il fallito trasbordo in Sicilia, in realtà contatto è una parola grossa, perché sulle prime Crasso sigillò i ribelli in un lembo di costa, scavando loro intorno un fossato profondo 15 piedi (4,5 metri) e lungo 300 stadi (circa 55 chilometri).

Accanto al fosso costruì un alto muro, tipo quello che oggi corre tra Israele e i territori palestinesi.

Per Spartaco chiuso tra muro e mare pareva finita, eppure in un sussulto di vitalità l’ex gladiatore riuscì ancora una volta a rompere l’assedio in una buissima notte di tormente e a riparare con i suoi in Lucania.

Ma era il canto del cigno. Scoperta la sortita, Crasso attaccò i ribelli

Prima di buttarsi nella mischia Spartaco uccise il suo cavallo, proclamando pare “Se perdo non servirà più, se vinco ne avrò altri “.

Si avverò la prima ipotesi, l’ex schiavo morì combattendo e il suo corpo fu fatto a brandelli e non fu mai trovato.

Con lui, narra Appiano, caddero sul campo 60 mila, peggio andò ad altri 6 mila, presi vivi e poi crocifissi sulla strada a nord di Capua, dove tutto era iniziato e Roma visse felice e contenta.


In conclusione

Anche se è diventato un simbolo per le laicissime sinistre de 900, Spartaco non era affatto un ateo materialista.

Anzi a quanto si può capire, era profondamente influenzato da certi culti misterici di origine orientale, che a quei tempi avevano permeato tutto il mondo ellenistico, compresa la Tracia, la terra da dove Spartaco proveniva.

Solo in questo quadro si capisce l’importanza che Spartaco stesso attribuì a un sogno fatto poco dopo il trasferimento in catene a Roma.

Mentre dormiva il futuro gladiatore vide un serpente che gli si avvicinava e risaliva lungo il suo corpo fino ad avvolgergli completamente il volto.

Destatosi di soprassalto, riferì tutto alla moglie che era stata catturata assieme a lui, e lei, esperta di culti dionisiaci (ovvero riti a forte componente sessuale, durante i quali sacerdoti e fedeli cadevano in una sorta di trance orgiastica)

Diede questo responso: il sogno annunciava una vita di “enorme potenza“, che però avrebbe avuto una fine tragica.

Note


Le Janas: etimologia, descrizione e folklore

Quando si parla delle fantastiche fate sarde, il termine che più spesso ritorna per indicarle è quello di Janas.

Pur essendo il nome più noto per definirle, sarebbe un errore pensare che si tratti dell’unico. Esse infatti sono conosciute con una numerosa varietà di termini. Quest’ultima caratteristica a dire il vero è propria di molti altri personaggi fantastici isolani e rispecchia i particolarismi locali e la fervida immaginazione di vive la terra sarda.

Il nome Janas: le varianti più diffuse

Fra le varianti più condivise quella che vede Jana mutarsi in Bajana o Ajana presso Lodine, mentre a Mores, Bonorva, Rebeccu, Ozieri, Pattada, Buddusò, queste sono note come Fadas.

Diverso discorso è da farsi per il nuorese, dove le fate isolane sono ricordate come Birghines o Virghines.

È comunemente accettato che Jana, Bajana, Ajana, siano varianti di un medesimo nome, mentre si suppone che Fadas, Virghines e Janas rappresentino tre tipologie fantastiche differenti.

Le differenze sostanziali intercorrono specialmente fra le Fadas e Janas. Non solo la terminologia che indica le une e le altre è in sostanziale contrasto, ma anche i tratti che le caratterizzano e le abitazioni che la tradizione ha assegnato loro le indicano come figure con pochi punti d’accordo.

Descrizione, aspetto e folklore

Le Fadas vengono spesso descritte come donne di statura normale che non necessariamente abitano le domus de janas, che nel Logudoro sono conosciute con il nome di Furrighesos o Coronas. Ulteriormente sono identificate col nome Forreddos nella Barbagia-Mandrolisai.

Le Fadas vivono spesso mescolate alla gente comune e con queste si confondono per una sostanziale somiglianza.

Le Janas vengono invece descritte come creature dalle dimensioni insolitamente ridotte e intese comunemente come abitatrici delle domus de janas, sepolture prenuragiche alle quali diedero tradizionalmente il nome.

È interessante notare inoltre come fra le Bajane, Bazane e Virghines esista un certo legame, dato che in lingua logudorese le ragazze nubili venivano appunto indicate con il nome di Bajana o Bazana. Queste giovani donne infatti, in quanto non sposate, dovevano ricoprire lo status di vergini, virghines o birghines appunto.

Jana: etimologia della parola

Nell’antico toscano Jana era una strega, traduzione valida anche per il termine Janara napoletano e per il francese antico Gene.

Davvero affascinanti e suggestive anche le conclusioni cui giunse Max Leopold Wagner in merito all’etimologia della parola Jana. Il termine infatti sarebbe la semplice degradazione del nome Diana, antica divinità romana, che secondo gli studi condotti in merito, avrebbe in Sardegna e in tutto il Mediterraneo usurpato l’antico ruolo della Dea Madre.

Il passaggio da Diana a Jana è facilmente riscontrabile nel territorio della Romania, dove Diana si sarebbe mutata in zina, mentre nelle Asturie sarebbe diventata xana e ja in Portogallo. Nell’antico provenzale invece il termine jana sopravvisse, e con questo si era soliti indicare una creatura assimilabile all’incubo.

Creata la connessione tra Diana e Jana, sarà impossibile non mettere in luce alcune somiglianze di notevole importanza. Nello specifico la divinità greca prima e romana poi era non solo icona di verginità, ma addirittura protettrice delle stesse, e vergini appunto dovevano essere le sacerdotesse che a lei si votavano; Birghines o Virghines per dirla in dialetto isolano.

Le Janas e il cristianesimo

Il cristianesimo demozizzò pesantemente questa figura mitica, trasformandola con un lavoro lungo secoli in una creatura femminile spaventevole e demoniaca, quale spesso è intesa appunto la Jana.

Con il termine Jana in alcuni paesi del Logudoro ci si riferisce anche alla Mantis religiosa, e nell’oristanese si intende non solo la fata, ma anche un piccolo insetto bianco non meglio specificato.

Jana ‘e mele nel dialetto nuorese è la donnola, bestiola particolarmente dannosa, piccola e dal corpo agile, esattamente come si potrebbero immaginare le abitatrici delle domus. In Ogliastra mala jana o margiana è il termine pericolosamente vicino a margiani, ovvero la volpe; ancora una volta piccola, agile e imprendibile.

Nomi propri con i quali ci si riferisce tradizionalmente alle piccole fate isolane sono quelli di Chiriga, Cirriaca.

Tutt’oggi Jana è il destino, la sorte, in località di Tempio. Ed in conclusione è da segnalare che non di rado con il termine ajana si intende la Bruja, malefica strega che complica la vita degli uomini.

Note

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[STORIA BUGIARDA] Medioevo, Lady Godiva e le piramidi

Continua la rubrica di Paolo Algisi dedicata ai luoghi comuni della storia più duri a morire

Le piramidi le costruirono gli schiavi



Questo è uno dei luoghi comuni sull’Antico Egitto più duri a morire.

Frotte di schiavi che sotto i colpi di frusta spingono i pesanti blocchi di pietra delle piramidi.

Invece le tombe dei faraoni furono edificate da operai salariati

La conferma viene dagli scavi archeologici nella piana di Ciza, che hanno portato alla luce le tombe dei manovali che 4.500 anni fa parteciparono alla costruzione delle piramidi di Cheope e Cefren.

Erano egizi e non schiavi (che in Egitto erano soltanto prigionieri di guerra stranieri)

I grandi progetti di interesse nazionale erano affidati alla popolazione locale

È appurato che i grandi progetti di interesse nazionale quali piramidi ma anche dighe, erano affidati alla popolazione locale, tenuta ad un periodo di lavoro obbligatorio in occasione delle piene del Nilo, quando i campi non erano coltivabili.

Lavorare per l’ultima dimora del faraone garantiva un ottimo vitto. Le famiglie più ricche inviavano ogni giorno 21 vitelli e 23 montoni ai cantieri, in cambio di sgravi fiscali.

Poteva però capitare che vettovaglie o salari arrivassero in ritardo. Allora gli operai secondo l’espressione egizia si “coricavano”, ovvero scioperavano

Secondo testimonianze, accadde varie volte.

Una delle più importanti descrizioni è in un papiro conservato al Museo Egizio di Torino, che riporta le proteste avvenute nel 29° anno di regno di Ramses III (intorno al 1180 a.C.).

Si tratta di un’epoca successiva alla costruzione delle piramidi, durante la quale, però, gli operai addetti alle tombe monumentali (per esempio nella valle dei Re) avevano a disposizione villaggi dove vivere comodamente, con tanto di scuole.

Come nacque allora la credenza?

La colpa fu degli storici greci, non riuscendo ad immaginare la costruzione di questi edifici senza l’impiego di masse di schiavi, ma anche della Bibbia, dove si dice che la schiavitù era diffusa in Egitto.

I cani San Bernardo portavano i barilotti col Brandy



Che i San Bernardo soccorrano le vittime delle valanghe con un goccetto d’alcol è un’invenzione dell’Ottocento.

l’immagine del cane con il barilotto del brandy al collo è nata infatti dalla fantasia del pittore naturalista inglese, tale Edwin Landseer.

Nel 1831 Landseer dipinse il quadro “Mastini delle Alpi che rianimano un viaggiatore in difficoltà”, nella tela uno dei due cani di San Bernardo (dal nome dell’allevamento sul passo svizzero del San Bernardo) porta al collo un barilotto da brandy.

Quell’iconografia fece il giro del mondo

In realtà questi animali, in origine con il nome di mastini delle Alpi o cani di Barry e impiegati come animali da trasporto, non hanno mai portato con sé alcol (che comunque non va mai dato in questi casi).

Le catacombe erano un luogo di culto



È una falsa credenza, così come quella che ritiene che fossero rifugio dei primi cristiani durante le persecuzioni, diventando le prime chiese.

In realtà erano le sepolture

Normali necropoli a colombario come quelle usate anche dai pagani.

Quelle dei cristiani di Roma erano per lo più lungo la Via Appia e con lo sviluppo delle comunità divennero più grandi e complesse, raggiungendo la profondità fino a 30 metri nel tufo.

Gli unici riti però che vi si celebravano erano quelli di sepoltura.

Nel medioevo si bruciavano le streghe



I dati raccolti dagli storici parlano chiaro, la caccia alle streghe, ossia la persecuzione delle donne sospettate di compiere sortilegi e di intrattenere rapporti con il diavolo, iniziò solo alla fine del Medioevo.

Intorno al 1430 e raggiunse il culmine nel 500-600, in pieno rinascimento, durante i conflitti di religione fra cattolici e protestanti.

Fu allora che vennero processate per stregoneria circa tre milioni di persone (80% donne) di cui circa 40 mila furono condannate a morte

Durante i “Secoli bui“, invece, l’inquisizione fu implacabile soprattutto contro gli eretici, che spesso finivano al rogo se non abiuravano.

Le persecuzioni avvenivano senza mostrare particolare interesse per le accuse di stregoneria e alcuni papi medioevali cercarono persino di difendere le donne accusate di provocare tempeste e malattie.

Dal tardo Quattrocento le cosiddette “streghe“, ossia donne a cui venivano attribuite capacità soprannaturali, finirono nel mirino

Dal momento che questi poteri spettavano solo a Dio, chi sapeva metterli in atto, sosteneva la chiesa, non poteva che averli appresi dal Diavolo.

L’accusa di alleanza con Satana fece a quel punto assimilare le streghe agli eretici (tra i quali gli aderenti alla Riforma di Lutero).

Del resto, il Malleus maleficanum (martello dei malefici), il testo scritto nel 1486 da due domenicani tedeschi e che divenne il manuale di riferimento per gli inquisitori, si apriva con la frase: «Sostenere che le streghe esistono è cattolico, negarlo è un’eresia»

Ad accanirsi contro le donne, però, non fu solo l’Inquisizione

I tribunali protestanti diedero un grande contributo alla carneficina.

A finire sul rogo erano donne accusate di malefici a base di intrugli magici (le herbarie), depositarie di antichi saperi erboristici e sciamanici e di adorare il demonio nel “sabba“.

Una diceria, questa, nata forse da riti pagani travisati dagli inviati del Papa.

La caccia continuò anche dopo il rinascimento, tra il Seicento ed il Settecento.

L’ultimo rogo di una strega avvenne in Baviera (Germania) nel 1756, in pieno Illuminismo.

Nell’anno mille dopo Cristo si aspettava la fine del mondo



Che la gente alla fine dell’anno mille fosse terrorizzata per l’imminente fine del mondo annunciata dall’Apocalisse è un mito nato tra il 500 e l’800.

È la celebre profezia “Mille e non più Mille“, attribuita a Gesù, è un’interpretazione tarda delle enigmatiche parole dell’Apocalisse, “Dopo Mille anni Satana sarà disciolto“.

Le fonti coeve non fanno menzione di alcuna psicosi tra il popolo (che peraltro seguiva diversi calendari).

I garibaldini vestivano sempre la camicia rossa



La “divisa” fu adottata nel 1843 da Garibaldi a Montevideo, in Uruguay, per la sua legione Italiana.

Ma quando i volontari garibaldini furono inquadrati nell’esercito piemontese, nel 1848, indossarono ben altra mise: tunica scura, pantaloni grigi con banda verde, cappello con tre piume su un lato.

Solo 150 dei garibaldini sbarcati a Marsala nel 1860 portavano la camicia rossa, gli altri erano vestiti come capitava.

Nei combattimenti gladiatori pollice verso significava morte



Le fonti latine riportano espressioni come: verso pollice o pollicem vertere (o convertere) per indicare la richiesta di morte, da parte del pubblico, di un gladiatore sconfitto.

Pollicem premere significava invece risparmiarlo, benché le stesse fonti non siano chiare circa i gesti corrispondenti.

La maggior parte degli studiosi ritiene che nel primo caso il pollice fosse all’insù, mentre nel secondo fosse chiuso nel pugno.

La nostra idea di pollice verso, perpetuata dai Kolossal cinematografici, risalirebbe al 1872, quando il pittore francese Jean-Lèon Gèròme dipinse il pubblico del Colosseo che chiede la morte di un gladiatore con il pollice rivolto all’ingiù.

I guerrieri vichinghi portavano corna sui loro elmi



È vero che Vichinghi usavano copricapi con le corna, ma non in battaglia.

Li indossavano per cerimonie e feste e in corni di animali bevevano idromele.

Ad usare corna sugli elmi erano invece i guerrieri celti

L’equivoco nacque nel seicento, quando alcuni pittori cominciarono a dipingere Germani in assetto da battaglia con elmi decorati con corna animali.

L’iconografia fu ripresa dagli artisti del Romanticismo finché, negli anni Venti dell’Ottocento, il pittore svedese Gustaf Malmstrom decorò anche gli elmi dei vichinghi con le corna.

Il successo degli elmi “cornuti“ fu decretato poi dal ciclo operistico di Richard Wagner ”l’anello del Nibelungo” in cui le valchirie, divinità guerriere della mitologia nordica, portavano corna di vacca attaccate agli elmi.

Da qui attinsero i libri per ragazzi, fumetti e film.

La svastica fu inventata dai nazisti



Il simbolo della croce uncinata (in sancrito svastika) risale alla preistoria, come simbolo del ciclo della vita e delle stagioni si trova su manufatti greci, della civiltà indo-iranica come pure di quella germanica.

Nell’antica Cina, invece, simboleggiava i punti cardinali

Nel buddismo divenne un talismano, mentre nel giainismo (una religione indiana) quattro bracci corrispondono al mondo dell’uomo, a quello degli Dei, a quello animale e a quello degli inferi.

Prima del nazismo, in Germania la adottarono i movimenti che si rifacevano all’ideologia nazionalista germanica

Hitler la riprese nel 1920 come effigie del partito nazionalsocialista e poi, con l’aggiunta dell’aquila imperiale ne fece il simbolo del Terzo Reich.

I crociati imponevano alle loro mogli la cintura di castità



A dimostrare che si tratta di due falsità storiche, sono una serie di analisi su diverse cinture di castità tradizionalmente attribuite all’XI – XIII secolo, si sono rivelate di epoca successiva.

Cavalieri medioevali che partivano per la lunga avventura delle crociate con in tasca la chiave della cintura di castità delle proprie mogli, di cui blindavano letteralmente l’illibatezza, oppure nobildonne che indossavano spontaneamente “cintole di Venere“ per evitare stupri e nascite di figli illegittimi.

Persino il British Museum di Londra che dal 1846 esponeva un “originale”, lo ritirò negli anni 90 dalle sue bacheche in quanto falso

La maggior parte di queste “cinture di castità” fu infatti realizzata nell’ottocento, quando si consolidò questa diceria sul Medioevo.

Molte sono in realtà apribili e riportano frasi oscene, lasciando pensare che si usassero per giochi erotici.

La crocifissione fu inventata dai romani

Le prime notizie di condanne al “palo” risalgono ai Sumeri (2000 a. C. circa).

I Greci nel V secolo a.C. Avevano l’ apotynpanismos (una condanna al palo con frantumazione delle ossa) e a Roma la pena si affermò solo intorno al 200 a.C.

La Gioconda fu trafugata da Napoleone

Napoleone trafugò molti capolavori italiani, ma non il quadro di Leonardo, che fu portato in Francia da Leonardo stesso, quando nel 1516 si trasferì alla corte di re Francesco I.

Nel Far West ci si sfidava a duello

L’immagine dei due pistoleri che si fronteggiano davanti al saloon è un mito cinematografico.

Le sparatorie nella frontiera americana erano molte, ma esiste un solo caso documentato di duello: il 21 luglio 1865 a Springfield (Missouri) il pistolero Bill Hickok uccise il rivale in amore Davis Tutt.

I campi di concentramento furono un’idea dei nazisti

Campi in cui rinchiudere civili su base etnica furono ideati dagli inglesi durante la Seconda guerra anglo-boera (1899-1902) in Sudafrica, e non dai nazisti

I britannici diedero fuoco ai raccolti e ai villaggi boeri (coloni di origine olandese), deportando vecchi, donne e fanciulli in campi dove morirono oltre 40 mila persone.

I britannici, a loro volta, secondo alcuni storici si sarebbero ispirati agli spagnoli, che avevano rinchiuso in campi gli indigeni di Cuba

Con la prima guerra mondiale in Francia si costruirono campi in cui furono rinchiuse migliaia di persone “colpevoli” di essere tedesche o austriache e negli anni 30 Stalin avviò in URSS deportazione di massa.

Ma furono i nazionalisti turchi, nel 1915-16, a organizzare la prima campagna sistematica: oltre 800 mila armeni morirono in quei campi di concentramento (molti in Siria).

Una politica di genocidio a cui Hitler si ispirò

Ai nazisti resta il triste primato dei campi di sterminio, il cui scopo, oltre al lavoro forzato, era l’uccisione programmata nelle camere a gas di ebrei, zingari, omosessuali e ritardati mentali.

I feudatari godevano dello “Ius primae noctis”

Il “diritto della prima notte” è passato alla storia come il diritto del feudatario di trascorrere con le mogli dei suoi servi della gleba la prima notte di nozze.

In realtà si trattava di una tassa (in denaro non in natura) chiesta dal signore in cambio del suo assenso al matrimonio.

Il mito moderno relativo all’epoca Medioevale si sviluppò a partire dall’Illuminismo, che ebbe una propensione a denigrare il Medioevo.

Filippide  annunciò la vittoria di Maratona

A narrare l’impresa dell’araldo Filippide (o Fidippide) che dopo la vittoria greca sui Persiani a Maratona, sarebbe corso ad Atene per dare la notizia, morendo subito dopo, fu lo scrittore greco Luciano di Samosada, cinque secoli dopo la battaglia.

Lo storico Erodoto, contemporaneamente ai fatti benché non sempre attendibile, raccontando della battaglia riferì solo di un Filippide che corse a chiedere aiuto agli spartani.

I pellerossa toglievano lo scalpo ai bianchi

Al contrario, furono i coloni europei, a fine 600, a diffondere nel Nord America questa pratica, le cui tracce archeologiche sono limitate alla preistoria.

Le autorità coloniali offrivano fino a 100 sterline per lo scalpo di un giovane indiano (la metà per quello di una donna).

La vergine di Norimberga era uno strumento di tortura

Un armadio metallico a vaga forma di donna che, una volta chiuso, trafigge la vittima con affilatissime lame.

I resti del corpo dilaniato vengono gettati, a Norimberga (Germania), nel fiume che scorre sotto la sede del tribunale.

aAccadeva in pieno Medioevo, secondo il filosofo tedesco Johann Siebenkees.

A sentir lui lo strumento di morte sarebbe stato usato per la prima volta il 14 agosto 1515 per punire un falsario

Peccato che la “Vergine di Norimberga” fosse solo frutto della sua fantasia e che tutti gli esemplari che fanno bella mostra di sé nei musei delle torture medioevali risalgano all’ottocento.

I pirati nascondevano il loro tesoro sottoterra

Di mappe del tesoro, di isole sperdute e di forzieri pieni zeppi di gioielli nascosti sottoterra, sono ricche le storie sui pirati.

Ma nella realtà i bottini dei predoni che infestarono i mari tra il 600 e 700 (l’età d’oro della pirateria) venivano spesi tra una scorribanda e l’altra e di tesori se ne vedevano ben pochi.

C’è però un’eccezione che conferma la regola

Nel 1699 il capitano William Kidd, il famigerato pirata scozzese, sotterrò il frutto delle sue rapine a Gardiners Island, vicino a New York, allora colonia inglese.

Gli costò la carriera. I preziosi recuperati divennero una prova schiacciante nel processo per atti di pirateria istruito contro di lui.

Kidd fu condannato a morte e giustiziato nel 1701.

Gli spartani gettavano i neonati deformi

L’archeologia ha dimostrato che i resti trovati ai piedi del monte Taigeto, presso Sparta erano di adulti

Si trattava forse di condannati alla precipitazione, pena prevista per reati politici anche ad Atene nel V secolo a.C.

Vero è invece che i piccoli spartani (come altri bimbi greci) erano esposti sui monti per fortificarli.

Lady Godiva andava in giro a cavallo completamente nuda

La leggenda è nata in epoca medioevale

Lady Godiva, alla metà dell’XI secolo, era la moglie di Leofric, conte di Mercia e signore di Coventry, in Gran Bretagna.

L’uomo opprimeva i sudditi con tasse esorbitanti e la nobildonna tentò di convincerlo a ridurle.

Alla fine Leofric accettò ma solo a patto che la consorte percorresse nuda a cavallo le strade di Coventry.

Lei non si tirò indietro e lo fece coperta solo dai suoi lunghi capelli, le tasse sparirono tranne quella sui cavalli.

Tutto (o quasi) inventato

Secondo gli storici, la diceria sarebbe un’eco di riti diffusi in Gran Bretagna, come quello della fertilità che consisteva nell’accompagnare su un asino una ragazza nuda.

Sarebbe vero, invece, che a Coventry, nel periodo storico di Lady Godiva, fossero tassati solo i cavalli.

Note


[STORIA BUGIARDA] Babbo Natale, Hitler e Napoleone

Continua la rubrica di Paolo Algisi dedicata ai luoghi comuni della storia più duri a morire

NAPOLEONE FU DETTO “IL PICCOLO CAPORALE” PERCHÉ ERA BASSO”



Non era un gigante, ma non si poteva certo definire basso, secondo le fonti Napoleone era alto un metro e 69 centimetri, una statura di tutto rispetto negli anni in cui visse (1769- 1821) è nella media dei suoi tempi.

È noto infatti che l’ altezza delle popolazioni aumenta progressivamente da una generazione all’altra grazie alle migliori condizioni alimentari e igienico sanitarie, fino a raggiungere un livello stabile (com’è avvenuto per molti popoli occidentali, ma non per alcuni di quelli in via di sviluppo).

Perché allora Napoleone fu definito le petit caporal, cioè il piccolo caporale?

L’ipotesi degli storici è che si trattasse di un soprannome dovuto all’affetto e alla simpatia che i soldati nutrivano nei suoi confronti nonostante la giovane età e non alla statura.

CESARE MORENDO DISSE “TU QUOQUE, BRUTE, FILI MI“



Di sicuro non disse quelle parole, lo scrittore latino Svetonio (70-126) riferisce che morendo Cesare disse in greco “Kai su tectnon“ (anche tu figlio), perché quella era la lingua dell’elite romana.

Questa versione dei fatti però è messa in dubbio dallo stesso Svetonio, secondo il quale Cesare, in quel fatidico giorno delle idi di Marzo del 44 a.C.

Emise un solo gemito e non disse alcuna parola. La frase (tradotta in seguito in latino con l’aggiunta del nome Bruto) ebbe però fortuna, oltre allo sgomento di Cesare nel vedere Marco Giunio Bruto, suo pupillo, tra i congiurati, esprime il dramma universale del tradimento.

RASPUTIN FU EVIRATO



Il monaco russo Grigorij Efimovic Rasputin, eminenza grigia della zar Nicola II fu assassinato a San Pietroburgo il 19 dicembre 1916 in una congiura di nobili. Su moventi, mandanti e circostanze dell’omicidio non si è mai fatta del tutto chiarezza.

Probabilmente Rasputin venne avvelenato durante una cena ma non morì

Allora gli spararono al petto e alla schiena e fu gettato nella Mojka, uno dei canali della capitale. Il cadavere riemerse tre giorni dopo e l’autopsia dimostrò che il monaco fu gettato in acqua ancora vivo.

La tempra eccezionale, insieme alla statura e alla fama di donnaiolo, alimentarono dicerie sulla sua prestanza sessuale. Da qui nacque la leggenda dell’evirazione, sfregio simbolico al superdotato monaco, attribuita di volta in volta agli stessi assassini o a chi partecipò all’autopsia.

Nel 2004, al Museo dell’erotismo di San Pietroburgo, fu esposto uno smisurato “pene di Rasputin“, a detta del proprietario acquistato per 8 mila dollari in Francia, dove sarebbe giunto “al seguito“ di una dama di corte della zarina.

Inutile tentare riscontri autoptici o test del DNA, il cadavere di Rasputin fu dissepolto e bruciato durante la Rivoluzione Russa del 1917, mentre la documentazione dell’autopsia scomparve durante l’epoca staliniana.

BUFFALO BILL FU CHIAMATO COSÌ PERCHÉ UCCISE 5000 BUFALI IN 18 MESI



Diventò famoso per le sue imprese di caccia. William Frederik Cody uccise, secondo le fonti, 4280 animali in 18 mesi, quindi meno di 5000. E non erano neppure bufali: si trattava invece di bisonti, e la confusione nacque da un errore linguistico.

L’inglese buffalo infatti, si usava (e si usa ancora impropriamente) per indicare anche i bisonti.

I bufali d’altronde, animali tipicamente africani e asiatici, non esistono in America, dove Buffalo Bill fu assunto come cacciatore per procurare cibo agli operai che stavano costruendo le prime linee ferroviarie.

Fu allora che fu celebrato per l’impresa di caccia che gli diede il nome.

HITLER ERA TEDESCO



No, era austriaco, nacque a Braunau-am-inn, vicino a Linz, allora parte dell’impero austroungarico. Il 20 aprile 1889, a solo 24 anni, si spostò a Monaco di Baviera, fuggendo da Vienna, dove, rimasto orfano, si era trasferito.

Nell’agosto dell’anno dopo il Reich tedesco entrò nella Prima Guerra Mondiale, lui si arruolò come volontario nel 16° Battaglione di fanteria bavarese, iniziando poi la sua carriera politica.

Si dice che fosse vegetariano

Niente affatto. È vero invece che, a causa dello stato di salute precario e della sua ipocondria, intraprese numerose diete, nel corso delle quali si privò di alcol e carne, senza però divenire del tutto vegetariano.

Sembra sia stato il suo ministro della Propaganda a manipolare questa circostanza

l’obiettivo fu spingere l’opinione pubblica a considerare il Fuhrer più buono e farlo accettare meglio nell’alta società, in un’epoca in cui il vegetarianesimo era molto diffuso tra gli intellettuali e benestanti di mezza Europa.

NERONE SUONAVA LA LIRA MENTRE ROMA BRUCIAVA



Gli storici a questa leggenda non hanno mai dato credito, a diffonderla era stato, due secoli dopo il devastante incendio che nel 64 d.C. Aveva distrutto l’Urbe, lo storico Dione Cassio, inventandosi che Nerone era salito sul colle Palatino e aveva suonato la lira e cantato l’incendio di Troia. Diffamato.

Di Nerone si disse anche che fu addirittura il responsabile di quel rogo per far spazio alla Domus Aurea o, secondo altre versioni,per favorire il rinnovamento urbanistico della città.

Lo fecero soprattutto scrittori ostili alla sua politica, come Svetonio.

Tacito riferisce invece che Nerone, fuori città quando scoppiò l’incendio, accorse a Roma appena seppe la notizia, per coordinare i soccorsi e contenere i danni.

BABBO NATALE VESTE DI ROSSO DA SEMPRE



Prima degli anni 30 Babbo Natale era raffigurato più spesso come un elfo o uno gnomo vestito di verde o di blu.

C’era anche una versione marroncina disegnata nel 1862 dal vignettista Thomas Nast. Fu poiche la coca-cola nel 1931 consacrò la versione rossa di Babbo Natale, lanciato come testimonial della bevanda.

Lo fece grazie a un Santa Claus in bianco e rosso illustrato da Haddon Sundblom, disegnatore americano che si ispirò alla descrizione di Babbo Natale presente nel poema di Clement C. Moore.

Note


[STORIA BUGIARDA] D’Annunzio, Houdini e Dante Alighieri

Continua la rubrica di Paolo Algisi dedicata ai luoghi comuni della storia più duri a morire

DANTE DI PROFESSIONE ERA UN POETA



Dante dedicò gran parte della sua vita a scrivere,ma la sua vera professione era un’altra: Quella di medico.

Lo provano le regolari iscrizioni, a partire dal 1295, all’arte dei medici e degli speziali e il fatto che indossasse spesso un vestito lungo rosso, si trattava del “lucco”, che rendeva ragione di una professione di un certo rango.

La sua scelta ebbe uno scopo preciso, a Firenze una legge obbligava chiunque volesse ricoprire cariche pubbliche ad immatricolarsi in una delle principali associazioni di professionisti, e Dante, per poter esercitare la sua grande passione per la politica, scelse la professione medica.

Ma Dante fece mai il medico?

Pare di si, a giudicare dalle fonti storiche, è certo che tra il 1285 e il 1287 frequentò Taddeo Alderotti, docente all’università di Bologna, figura di punta nell’ambiente medico del tempo, ma la vera prova è la familiarità con i termini medici che il poeta dimostra di avere nel suo capolavoro la Divina Commedia, soprattutto nell’inferno, che è anche un viaggio nel mondo del dolore fisico e della malattia.

Ecco qualche esempio, nel XXIX canto, descrivendo la pena a cui sono sottoposti i falsari, riporta con minuzia i sintomi della scabbia, i dannati, pieni di macchie, (dal capo al piè di schianze macolati) e in preda ad un forte prurito (del pizzicor, che non ha più soccorso), si grattano l’un l’altro, ma forse la descrizione più cruda è quella, nel XXVIII canto, del corpo squarciato di Maometto, con tanto di interiora in bella vista tra le gambe pendean le minugia (le budella) , la coratra (gli organi intorno al cuore) pareva e l’tristo sacco (lo stomaco) che merda fa di quel che si trangugia.

NOME DI BATTESIMO DI MOZART ERA AMADEUS



Quando nacque a Salisburgo, in Austria, il 27 gennaio 1756, fu battezzato Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart, ma allora perché oggi lo chiamiamo Wolfgang Amadeus  Mozart, e lui stesso si firmava così.

In famiglia era chiamato Wolfgang, ma presto cominciò a usare il suo terzo nome latinizzato, il greco Theophilus divenne (per seguire una moda diffusa) il latino Amadeus e, dal 1777 , il francese Amadè. Tutti nomi con lo stesso significato, come nell’italiano Amedeo “amato da dio”.

L’AMORE FRA ABELARDO ED ELOISA FU PLATONICO



La storia di Abelardo (chierico e professore di teologia, nato in Bretagna nel 1079) ed Eloisa, diventata celebre per il focoso epistolario amoroso che i due si scambiarono, iniziò che lei aveva appena 17 anni.

Lui l’avvicinò diventandone il precettore, ma ben presto, come scrive lo stesso Abelardo furono “più i baci che le spiegazioni” Dalla loro relazione clandestina nacque persino un figlio, che fu chiamato Astrolabio, seguì un matrimonio riparatore celebrato in gran segreto (per non intralciare la carriera di lui), ma i parenti di lei mal digerirono la faccenda e fecero evirare Abelardo e rinchiudere Eloisa e il figlio in convento.                        

ALBERTO DA GIUSSANO PARTECIPÒ ALLA BATTAGLIA DI LEGNANO



Niente affatto, anche perché Alberto da Giussano pare non sia mai esistito, si tratta, per la maggior parte degli storici, di un personaggio leggendario che sarebbe vissuto nel XII secolo, citato in opere letterarie scritte nel Tardo Medioevo.

Il nome appare per la prima volta in una cronaca storica dedicata alla città di Milano ( XIV) secolo, scritta per compiacere in toni eroici Galeazzo Visconti .

Qui si parlò di Alberto da Giussano come del cavaliere che si distinse nella Battaglia di Legnano (29 maggio 1176).

Da allora il personaggio è rimasto nell’immaginario collettivo  anche perché la battaglia è stata celebrata nel medioevo come esempio di vittoria di popolo contro l’invasore straniero, (al punto che Goffredo Mameli parla di Legnano nel nostro inno) .

Dal 1982 Alberto da Giussano ha conosciuto un’altra inaspettata fortuna, apparve infatti nel simbolo della Lega Lombarda e, dal 1989, in quello della Lega Nord.

HOUDINI MORÌ DURANTE UN SUO NUMERO



La morte del celebre illusionista Harry Hudini, nel 1926, non fu dovuta ai pericoli a cui si sottoponeva durante i suoi numeri (sotto quello in cui si liberava da una vasca d’acqua sigillata).

Fu invece colpa di uno studente appassionato di arti marziali che lo sfidò ad una prova di forza, colpendolo con un pugno al ventre senza dargli però il tempo di preparare i muscoli addominali.

Il giorno dopo Houdini accusò forti dolori, ma andò lo stesso in scena, pochi giorni dopo a Detroit al calare del sipario stramazzò al suolo con la febbre a 40.

La diagnosi fu peritonite, il colpo all’addome aveva forse contribuito a perforare l’appendice già infiammata. Operato d’urgenza Houdini morì il 31 ottobre 1926, a 56 anni.

DOPO L’ABIURA GALILEO AGGIUNSE SOTTOVOCE “EPPUR SI MUOVE”



Nel 1633 Galileo fu condannato dal tribunale dell’Inquisizione perché sosteneva che la terra ruotasse attorno al sole (e non il contrario), in procinto di recarsi a Roma per il processo, lo scienziato scrisse una lunga lettera all’amico Elia Donati definendo il libro in cui spiegava le sue teorie (il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo) “esecrando e più pernitioso per Santa Chiesa che le scritture di Lutero e Calvino“ Era quindi del tutto consapevole della gravità della situazione e del pericolo a cui lo esponevano le sue scoperte.

La storia ci racconta che Galileo non fu condannato a morte perché accettò di abiurare, cioè di disconoscere le sue intuizioni scientifiche e ristabilire la verità voluta dalla Chiesa.

Risulta però difficile credere che (come vuole la tradizione) in un clima di tale ostilità (che pochi anni prima aveva condotto al rogo il filosofo Giordano Bruno) Galileo si azzardasse a soggiungere, seppur sottovoce, la frase  “Eppur si muove”, riferendosi alla Terra, e infatti non andò così, questa ricostruzione fu inventata nel 1757 dal giornalista Giuseppe Baretto, che scrisse un’antologia in difesa della scienziato.

Fu lui a dipingere galileo più audace e temerario di quanto non fosse stato in realtà.

D’ANNUNZIO SI FECE TOGLIERE DUE COSTOLE?



Quella secondo cui il “Vate” si fece asportare due ossa del torace per praticare l’autofellatio è una diceria diffusissima e non solo tra i banchi di scuola, eppure è decisamente fantasiosa.

Intanto, l’idea dell’asportazione delle costole possa consentire l’autofellatio è priva di fondamento dal punto di vista medico.

E poi nessuna biografia di Gabriele D’Annunzio riporta questo dettaglio, è però facile capire perché la diceria ebbe fortuna, era molto credibile per un personaggio noto per l’intensa attività erotica e per l’esaltazione letteraria del piacere sessuale.

EINSTEIN ANDAVA MALE A SCUOLA



Diversamente da una diffusa leggenda (molto tenace perché paradossale) che lo dipinge come un pessimo studente, soprattutto in matematica. Albert Einstein ebbe invece un rendimento scolastico sempre buono.

È vero però che, in giovane età, il futuro scienziato si sentiva a disagio sui banchi per l’autoritarismo imperante anche nelle scuole tedesche e che i suoi atteggiamenti irritarono più di un professore.

Note


[STORIA BUGIARDA] La Terra Piatta, la lampadina e l’Indipendenza americana

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LA RIVOLUZIONE FRANCESE SCOPPIÒ CON LA PRESA DELLA BASTIGLIA



Per gli storici la Rivoluzione francese, che considerano come una lunga sequenza di avvenimenti durata quasi 10 anni, iniziò con la convocazione degli stati generali il 5 maggio 1789.

Fu allora che il terzo stato (la borghesia) si pose alla testa della rivolta contro il sistema feudale (l’Anciem règime), quanto all’insurrezione violenta di luglio, non cominciò con l’assalto alla Bastiglia.

L’assalto alla Bastiglia del 14 luglio 1789 fu solo uno dei tanti episodi di una rivolta che in Francia era già dilagante (soprattutto a causa della carestia e delle tasse), la capitale stessa da un paio di giorni era preda delle sommosse.

Dal 12 luglio si era insediato un comitato permanente rivoluzionario che si contrapponeva al governatore reale, l’attacco alla fortezza-prigione della Bastiglia, poi, ebbe all’inizio uno scopo pratico: impossessarsi delle polveri e delle armi della guarnigione.

Fu condotto a partire dal mattino da circa 900 rivoltosi, mentre nella città erano già state alzate le barricate.

Dopo il fallimento di una trattativa con il comandante della guarnigione di 114 uomini, Bernard-Renè de Launay, scoppiò una breve battaglia.

Verso le 5 del pomeriggio gli assedianti entrarono dal ponte levatoio, liberando i sette detenuti, la fortezza (eretta nel 1832, ma mai strategica) era stata trasformata in prigione dal cardinale Richelieu nel seicento.

Avendo avuto tra i suoi (mai numerosi) ospiti anche personaggi come l’ illuminista Voltaire, la propaganda rivoluzionaria fece di quell’assalto l’evento scatenante della rivolta e il 14 luglio divenne festa nazionale francese.


L’INDIPENDENZA AMERICANA FU FIRMATA IL 4 LUGLIO 1776



E’ un’errore, l’Independence day, la festa nazionale degli Stati Uniti che commemora l’adozione della Dichiarazione d’Indipendenza delle 13 colonie dalla Gran Bretagna celebra il 4 luglio 1776, ma andrebbe spostato al 2 agosto.

Fu questo infatti il giorno in cui la maggior parte dei delegati delle colonie sottoscrisse lo storico documento, reso pubblico il 4 luglio.

In verità fu accertato però solamente nel 1884, quando lo storico Mellon Chamberlain consultò i verbali manoscritti conservati negli archivi del Congresso, ma ormai la festa era entrata nella tradizione americana e si preferì non modificare quella data.

LE SABINE FURONO RAPITE DAI ROMANI



Al tempo della fondazione di Roma (Vlll secolo a.C.) Romani e Sabini vivevano fianco a fianco, i primi sul colle del Palatino, i secondi su quelli del Campidoglio e del Quirinale.

Originari di Alba Longa (Lazio), i romani erano arrivati lì senza mogli e per assicurarsi una discendenza rapirono le donne dei sabini (attirati con l’inganno di una grande festa).

Questo almeno dice la leggenda di quello che tutti chiamano “il ratto delle sabine”, leggenda appunto,che i romani e i sabini si siano mischiati è vero, come prova l’origine sabina di alcune parole latine come “bos” bue, scrofa, popina, (osteria).

Che abbiano fatto ricorso a un rapimento invece no, i due popoli si fusero pacificamente, tanto che il co-reggente di Romolo fu, per cinque anni, il sabino Tito Tazio.

A LITTLE BIGHORN I SOLDATI DI CUSTER MORIRONO TUTTI



L’epica sconfitta del 25 giugno 1876 subita dal 7° Cavalleggeri del tenente colonnello George Custer spazzò via l’intero reggimento.

Così narra il mito della battaglia svoltasi nei pressi del fiume Little Bighorn (Montana) contro una coalizione indiana agli ordini di Cavallo Pazzo e Toro Seduto, la verità è che non tutti morirono in quella battaglia,del gruppo di Custer sopravvisse il trombettiere-portaordini di origini italiane John Martini, che aveva lasciato la colonna del colonnello e gli squadroni agli ordini di Marcus Reno e Frederick Benteen in gran parte la scamparono.

Il reggimento contava 31 ufficiali, 586 soldati, 33 scout indiani e 20 civili: morirono 268 uomini.

EDISON INVENTÒ LA LAMPADINA



Alla lampadina ad incandescenza si solito si associa il nome dell’inventore americano Thomas Alva Edison (1847-1931).

Il piemontese Alessandro Cruto il 5 marzo 1880 accese la sua prima lampadina

Ma c’è un altro papà, oggi dimenticato, il piemontese Alessandro Cruto (1847-1908). Il 5 marzo 1880, nel laboratorio di fisica dell’Università di Torino, Cruto accese la sua prima lampadina grazie alla messa a punto di un filamento di sua invenzione e ignoto ad Edison.

La lampadina risultò molto più efficiente di quella realizzata appena 5 mesi prima da Edison (500 ore di durata contro le 40 del collega americano)

Chi è Alessandro Cruto?

Nato nel Piossasco, non lontano da Torino, Cruto fu avviato agli studi tecnico-industriali e fin da giovane iniziò a cimentarsi come inventore.

Nel suo laboratorio mise a punto tra l’altro un sistema di graduazione per i termometri. Nel 1879 si convertì agli studi sull’elettricità, allora pionieristici.

Nello stesso anno Cruto aveva assistito a Torino alla presentazione dei prototipi di Edison, che il fisico e ingegnere Galileo Ferraris aveva introdotto come una mera curiosità, dati i loro limiti funzionali.

Il problema era il filamento, che diventando incandescente per il passaggio della corrente elettrica si consumava troppo in fretta.

Cruto trovò pochi mesi dopo la soluzione, usò all’interno del bulbo di vetro filamenti di carbonio purissimo, ottenendo non solo una maggior durata,ma anche una luce più chiara.

Altri Italiani lavorarono alla lampadina

Alti Italiani lavorarono alla lampadina (oltre a numerosi stranieri) come Ferdinando Brusotti (1839-1899), che nel 1877 aveva brevettato una lampadina elettrica ad incandescenza ed Arturo Malignani che aumentò la durata fino a 800 ore.

VESPASIANO INVENTÒ I GABINETTI PUBBLICI



Le toilette pubbliche sono chiaramente vespasiani solo dall’Ottocento, in ricordo dell’imperatore romano che regnò dal 69 al 79 d.C.e al quale si attribuisce una tassa sull’urina, che veniva raccolta in vasi di terracotta lungo le vie.

All’epoca i fullones (tintori e lavandai) riciclavano le urine, da cui ricavavano l’ammoniaca per le loro lavorazioni, senza pagare nulla.

Criticato dal figlio Tito per quella trovata fiscale, l’imperatore avrebbe commentato “pecunia non olet” (il denaro non puzza).

LEONARDO È IL PADRE DELLA BICICLETTA



Questa diffusa credenza deriva dal fatto che su una pagina del Codice Atlantico compare il disegno di una bicicletta con tanto di pedali e catena.

In realtà la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che il disegno non appartiene alla mano del Maestro, né a quella di un suo allievo (si disse per esempio che potesse essere opera di Gian Giacomo Caprotti, detto Salaì).

L’ipotesi più probabile è che sia stato aggiunto nell’800 o anche più tardi, quando la bicicletta era appena stata inventata

Il codice Atlantico, in effetti, nacque nel tardo 500 da un assemblaggio arbitrario da parte dello scultore Pompeo Leoni che aveva acquistato i codici originari da Francesco Melzi (allievo di Leonardo) e che li aveva riorganizzati, altri rimaneggiamenti si ebbero nei secoli successivi.

IL PRIMO A FARE IL GIRO DEL MONDO FU MAGELLANO



Il portoghese Ferdinando Magellano partì nel 1519 da Siviglia al comando di cinque velieri, con l’obiettivo di raggiungere le Molucche, nell’arcipelago indonesiano, allora note come le isole delle spezie.

Decise però che ci sarebbe arrivato navigando verso ovest invece che verso est circumnavigando l’Africa, come si usava allora.

Una volta superata la punta meridionale dell’America del Sud attraverso lo stretto che oggi porta il suo nome, riuscì a raggiungere le Filippine. Dimostrando la praticabilità della nuova rotta qui, il 27 aprile 1521, perse la vita durante uno scontro con gli indigeni.

Magellano dunque non completò la circumnavigazione del globo.

Fu il capitano basco Juan Sebastian Elcano

Fu il suo vice, il capitano basco Juan Sebastian Elcano, a prendere il comando della spedizione e a diventare il primo a compiere il giro del mondo, riportando in Spagna, nel 1522, i pochi sopravvissuti dell’equipaggio.

IL PRIMO A RAGGIUNGERE L’AMERICA FU COLOMBO



In realtà ci arrivò un vichingo, secoli prima, Leif Eriksson nel 992 sbarcò infatti in tre punti della costa canadese Helluland, Markland e Vinland (le attuali Baffin, Labrador e Terranova).

E prima di lui, nel 986, un altro vichingo, Bjarne Herjolfsson, aveva avvistato la costa americana, pur senza raggiungerla, negli anni 60 sono state trovate prove archeologiche di un insediamento vichingo databile al mille circa.

GALILEO INVENTÒ IL TELESCOPIO



Galileo Galilei (1564-1642) si limitò a perfezionarlo e fu il primo a puntarlo verso il cielo.

Fondando l’astronomia moderna, ma lo strumento fu inventato dal fabbricante di occhiali olandese Hans Lippershey, che nel 1608 chiese il brevetto per il “vetro prospettico olandese”.

FLEMING SCOPRÌ LA PENICILLINA



Nel 1928, osservando al microscopio una coltura contaminata da una muffa, Alexander Fleming (1881-1955) medico e biologo scozzese, si accorse che la crescita dei batteri si era fermata, ne dedusse che la muffa conteneva una sostanza antibatterica (la penicillina).

Già nel 1895 il medico napoletano Vincenzo Tiberio aveva notato gli effetti del fungo Penicillium

Questo gli valse il premio Nobel, ma già nel 1895 il medico napoletano Vincenzo Tiberio aveva notato gli effetti del fungo Penicillium sulle infezioni, pubblicando anche uno studio. Altrettanto ignorato fu il francese Ernest Duchesne, che si accorse del fenomeno nel 1897.

NEL MEDIOEVO SI CREDEVA CHE LA TERRA FOSSE PIATTA



La teoria della sfericità della Terra, avanzata da vari filosofi dell’antica Grecia, fu dimostrato intorno al 240 a.C. da Eratostene di Cirene, che calcolò con precisione il raggio terrestre.

Quella nozione arrivò intatta al mondo medioevale, come provano diversi trattati, e il falso mito che fino all’epoca dei grandi navigatori (XV secolo) si credesse alla Terra piatta si affermò solo nell’Ottocento.

Note


[STORIA BUGIARDA] I Magi, gli Apostoli e i “300” spartani

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LE GUERRE PUNICHE FURONO TRE



Sui libri di scuola si legge che fra Roma e Cartagine il duello per la supremazia nel Mediterraneo si esaurì in tre guerre, dette puniche dal latino Poeni, nome con cui i romani chiamarono i Cartaginesi. Solo che non furono tre ma quattro.

Dopo un primo scontro, avvenuto per il controllo della Sicilia (264-241 a.C.) ci fu infatti una quasi dimenticata guerra-lampo, che ebbe come teatro i mari tra Sardegna e Corsica.

Nel 241 a.C. Cartagine era padrona della Sardegna e Corsica

Ma si trovò a fronteggiare le rivolte dei suoi mercenari in Africa, fomentate dai Romani. Roma, approfittandone, nel 238 a.C. inviò alcune sue legioni ad invadere Sardegna e Corsica.

I Cartaginesi furono colti di sorpresa e cedettero quasi subito, perdendo il controllo delle isole, che nel 227 a.C. divennero province romane.

I riottosi isolani ottennero l’aiuto segreto di Cartagine, ma con la Seconda Guerra Punica (che quindi in realtà fu la terza) combattuta fra il 218 e il 202 a.C., fu sancito il controllo romano, che portò alla distruzione di Cartagine al termine dell’ultima (quarta e non terza) guerra del 149-146 a. C.

GLI EROI DELLE TERMOPILI ERANO 300



Secondo la tradizione, tra il 19 e il 21 agosto del 480 a.C. al passo delle Termopili (Grecia Orientale) 300 spartani fermarono (o, a onor del vero, rallentarono solamente) l’avanzata dei Persiani invasori.

In realtà i soldati greci inviati alle Termopili furono fra i 5 e i 7 mila

È vero che, stando alle fonti del tempo, gli uomini del re spartano Leonida (la cui guardia contava 304 uomini oltre al sovrano e ai comandanti) rimasero isolati dal resto delle truppe alleate.

Ma, sempre secondo le fonti antiche, con loro c’erano anche 700 guerrieri della città di Tespie e 400 di Tebe (già conquistata dai Persiani).

I COMANDAMENTI DI MOSÉ SONO 10



Nella Bibbia le Tavole della legge ricevute da Mosè sul monte Sinai non hanno numerazione e non sono affatto un “decalogo“ (espressione peraltro introdotta nei testi soltanto nel lll secolo d.C.)

Si tratta infatti di numerosi e vari precetti, di cui quelli che sono poi diventati i 10 comandamenti sono i primi.

Non solo, esistono discordanze tra ebraismo e cristianesimo: per gli ebrei, per esempio, il primo comandamento è “Io sono il Signore Dio tuo“ (per i cristiani è “Non avrai altro Dio all’infuori di me“) e il nono e il decimo sono accorpati (mentre i cristiani distinguono tra “Non desiderare la donna d’altri“ e “Non desiderare la roba d’altri“)

GLI APOSTOLI ERANO 12



In totale furono 20, oltre ai canonici 12, il più noto è San Paolo, il cui titolo apostolico è confermato da varie fonti cristiane, Paolo definisce a sua volta apostoli: Timoteo e Silvano, Apollo, Andronico e Giuia.

Negli Atti, poi Barnaba è chiamato apostolo e, dopo il tradimento di Giuda, all’inizio degli stessi Atti, Pietro propone di sostituire Giuda con Giuseppe oppure con Mattia, prevalse quest’ultimo, per sorteggio promosso ad apostolo.

GLI ANTICHI RE DI ROMA FURONO 7



In realtà ce ne fu un ottavo, Tito Tazio, nato a Cures (oggi Fara in Sabina, 37 km a sud di Rieti), regnò per cinque anni e probabilmente in co-reggenza con il primo dei sette (Romolo).

Eppure fu un personaggio tutt’altro che secondario

Si tramanda che fu lui a urbanizzare il Colle per eccellenza, cioè il Quirinale, già residenza dei papi e oggi del presidente della Repubblica, perché quindi nessuno lo ricorda?

Quasi certamente non compare nelle liste tradizionali perché ricevette la corona solo in seguito al cosiddetto “ratto delle Sabine“ Per questo avrebbe soltanto affiancato il fondatore dell’Urbe.

LE REPUBBLICHE MARINARE ERANO 4



La semplificazione storica è stata rafforzata persino dalla marina italiana, che nello stemma dal 1941 ha, al centro del tricolore, i simboli delle “4 Repubbliche marinare“ Venezia, Genova, Amalfi e Pisa.

L’ equivoco ebbe origine nella storiografia dell’Ottocento che, in pieno fervore risorgimentale,esaltò queste quattro città (effettivamente molto potenti) come esempi italiani di indipendenza. Per gli storici di oggi, invece, furono repubbliche marinare molti altri comuni e signorie cittadine dedite al commercio marittimo, rette da governi repubblicani o da oligarchie, spesso di banchieri.

Tra i requisiti:

  • Possedere una propria valuta;
  • Avere proprie leggi marittime;
  • Possedere una flotta commerciale;
  • Possedere fondaci (magazzini) e rappresentanti diplomatici all’estero (ed esteri in patria).

Corrispondono in tutto o in parte alla descrizione Ancona, in competizione con la Repubblica di Venezia per i traffici nell’Adriatico, e la laziale Gaeta, in corsa per il controllo del Tirreno.

Va indicata inoltre La pugliese Trani, dove nel 1063 furono redatti gli Ordinamenta maris, tra i più antichi codici marinari.

Anche la piccola Noli, in Liguria, Ragusa (oggi in Croazia, ma nel medioevo Italiana), Sorrento e Capua.

I MAGI ERANO RE ED ERANO TRE



L’episodio dei Magi che giunsero da Gesù appena nato richiamati da una stella è raccontato in uno solo dei Vangeli canonici, quello di Matteo. Tuttavia la tradizione differisce molto da quello che è effettivamente raccontato dall’evangelista.

Da nessuna parte, infatti, Matteo scrisse che si trattava di re

I Magi o Maghi erano probabilmente sacerdoti del profeta Zoroastro, che interpretavano i sogni e studiavano gli astri e Matteo non scrisse neppure quanti fossero.

L’evangelista dice genericamente che «alcuni Magi giunsero da Oriente» e fu solo nel Vl secolo che si stabilì che fossero tre.

Nei secoli successivi furono loro assegnati anche dei nomi, che nella tradizione occidentale sono Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Ma ad esempio per la Chiesa etiope si chiamano Hor, Basanater e Karsudan.

I COLLI ROMANI ERANO 7         



Palatino, Aventino, Celio, Campidoglio, Viminale e Quirinale

Sarebbero questi i nomi tradizionali dei colli all’interno delle mura serviane (fatte erigere da Servio Tullio nel Vl secolo a.C.) su cui sarebbe nata la potenza di Roma.

Ma rileggendo le fonti del tempo i conti cambiano, di sette colli, pur senza nominarli, parlano scrittori come Cicerone, Virgilio, Orazio, Marziale, Properzio e Stazio, ma c’è chi mette il Gianicolo al posto del Campidoglio. Complicando la faccenda, testi successivi, del lV secolo d. C. escludono Aventino e Viminale, ma conteggiano Gianicolo e Vaticano.

Sommandoli tutti si deduce che i romani distinguevano una ventina di alture,da dove spuntarono allora i sette colli? Forse dalla cerimonia del Septimontium, nome che deriverebbe però da saepti, cioè recintati, e non dal numero sette.

I trecento “Giovani e forti“ della Spedizione di Sapri erano appunto 300



Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti! […]

Luigi Mercantini, La spigolatrice di Sapri (1858)

Sono i versi della poesia risorgimentale di Luigi Mercantini, La Spigolatrice di Sapri, sull’impresa di Carlo Pisacane.

Ma ecco i fatti: Il 25 Giugno 1857 il rivoluzionario napoletano diede vita a una fallimentare impresa che avrebbe dovuto scatenare l’insurrezione del Meridione e finì invece in un massacro.

Pisacane (che inizialmente puntava alla Sicilia) sbarcò sull’isola di Ponza dopo aver dirottato un piroscafo.

Con lui c’erano 24 compagni, coi quali Pisacane assaltò il carcere dell’isola e liberò 333 detenuti, aggregandoli quasi tutti alla spedizione. Sbarcò poi sulla costa di Vibonati (Sa), quindi la poesia (scritta alla fine del 1857) approssimò sia il numero che il luogo (Vibonati è più a nord di Sapri).

Note