Mischiano vino, birra e superalcolici: è allarme alcol tra gli under 18. Il 63% si ubriaca nel weekend
Il 63% degli under 18 italiani si ubriaca nel weekend. Con il binge drinking si mischiano vino, birra e superalcolici, spesso mandando giù bevande a basso costo, fino a sballarsi. Per i ragazzi la media è di 4 bicchieri e mezzo in una serata di movida, per le ragazze addirittura di 6.
Sono i dati eloquenti dalla recente ricerca ‘Il Pilota’, condotta dall’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di sanità.
Proprio per invertire questo preoccupante fenomeno, il Comune di Roma ha siglato un protocollo d’intesa con il Silb Confcommercio e la Confesercenti che prevede, tra l’altro, il divieto di vendita agli Under 16. Analogo giro di vite è stato adottato a Monza e Milano.
Secondo la ricerca, il 42% dei ragazzi e il 21% delle ragazze che bevono sino a ubriacarsi ha meno di 18 anni.
Sono più numerosi dei 19-24enni che si sbronzano (il 19% dei maschi e il 9% delle femmine) e dei meno giovani, quelli oltre i 25 anni (il 7,5 % dei maschi ed il 5,5% delle femmine).
A dimostrazione che con l’età si mette giudizio. In generale, quasi 9 giovani italiani su 10 in discoteca o nei locali non smettono di bere finché non sono sbronzi.
A causa del binge drinking aumentano fra i minorenni i policonsumatori: in una sola serata bevono birra, whisky, gin e tequila.
Si esagera con le bevande ad alta gradazione, senza disdegnare il vino, che torna di moda nello sballo del fine settimana. A preferirlo sono soprattutto le giovanissime, che lo abbinano ai superalcolici.
Nella movida dei teenager, che nella prima serata si riuniscono spesso all’aperto, affollando le piazze delle città, si diffonde la moda del ‘butellon’.
È la damigiana costituita dal vino e dalle bevande alcoliche e superalcoliche a più basso costo, che in Spagna domina le serate dei giovani da almeno cinque anni.
Si consuma collettivamente, secondo una ritualità che ha molte analogie con quelle dell’uso di droghe, sottolinea l’indagine.
A favorire la diffusione dell’alcol anche fra i minorenni, secondo l’analisi dell’Osservatorio nazionale, è proprio l’accresciuta disponibilità e accessibilità delle bevande, complici l’abbassamento dei prezzi in occasioni come gli ‘happy hour’, la pubblicità e le strategie di marketing.
Attraverso lo sport è possibile confrontarsi con se stessi, soffrire, gioire, perdere o vincere, ma soprattutto è importante imparare ad affrontare le sfide della vita nel rispetto dei propri limiti e degli avversari qualsiasi siano le differenze in campo.
L’importanza di svolgere l’attività sportiva per le persone disabili
L’importanza di svolgere l’attività sportiva per le persone disabili ha diversi significati: la possibilità di migliorare le proprie condizioni fisiche, intellettive o sensoriali.
La possibilità di partecipare ad un’attività organizzata e ben strutturata che garantisca ai disabili la reale percezione di appartenenza ad un gruppo nel quale rispecchiarsi e sentirsi parte integrante; la possibilità di compiere nuove esperienze attraverso le quali sia possibile confrontarsi e crescere insieme.
Il raggiungimento di risultati, che ricompensano di tutta la fatica fisica e psichica e di tutte le difficoltà affrontate; l’affermazione dello sport per le persone disabili non più ritenuto solo come qualcosa di terapeutico o di particolare data la condizione, ma con un completo riconoscimento dell’attività sportiva agonistica o amatoriale che sia; la capacità per il disabile di rispettare regole ed orari imparando a vivere situazioni sempre più strutturate.
Lo sport può essere considerato anche come una terapia
L’attività sportiva può essere considerata a tutti gli effetti anche come una vera e propria terapia all’interno dei diversi percorsi riabilitativi a prescindere dalla disabilità che sia fisica, intellettiva o sensoriale.
Lo sport inteso come “terapia” permette di:
Migliorare le capacità motorie o di movimento;
Arricchire le capacità sensoriali;
Migliorare il gesto fisico;
Aumentare i riflessi;
Incrementare la forza muscolare;
Accrescere la capacità respiratoria;
Migliorare gli scambi gassosi e l’ossigenazione del sangue;
Aumentare la resistenza alla fatica;
Favorire l’aggregazione ed i rapporti sociali;
Stimolare la persona ad affrontare le difficoltà;
Apprendere delle capacità attraverso una serie di esperienze;
Contribuire alla creazione e costruzione o ricostruzione della propria identità.
Ovviamente ogni attività sportiva deve essere condotto da operatori specializzati, i quali, sulla base di un’attenta conoscenza della situazione patologica presente, sviluppano un programma di recupero mirato per ogni persona.
Le discipline che possono essere utilizzate sono le più svariate
Le discipline che possono essere utilizzate sono le più svariate: corsa, nuoto, pallacanestro, pallavolo, calcio, tennis-tavolo, bocce, tiro con l’arco, arti marziali, hockey, ippica, scherma, ecc. Per ognuna di queste discipline sportive è possibile individuare una serie di esercizi preparatori o di base che consentano di realizzare gli scopi precedentemente elencati e di ottenere quindi un miglioramento generale delle condizioni cliniche della persona disabile.
Per rendere l’attività sportiva una vera e propria terapia è necessario garantire delle strutture idonee dotate di attrezzature e materiali dove poter svolgere gli allenamenti.
Comunque sia, che lo sport venga compiuto per migliorarsi, per stare con gli altri, per svolgere della ginnastica, per seguire un proprio bisogno di competitività, l’importante è quello di considerarlo un ottimo e valido strumento per sconfiggere pregiudizi, stereotipi e superare barriere che l’ignoranza crea ed amplifica, permettendo ad ognuno di noi di superare i propri limiti e di migliorare le proprie condizioni fisiche, psichiche e sensoriali.
In questa scheda vengono sinteticamente evidenziate le differenze tra l’attività autonoma e quella d’impresa nella sua duplice versione, individuale e societaria.
Il lavoro autonomo: Il lavoratore autonomo, così come descritto nel Codice Civile, è colui che compie, dietro corrispettivo, un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente.
Le forme di società in cui svolgere un’attività autonoma sono:
Esercizio di arti e professioni,
Collaborazione coordinata e continuativa,
Prestazione occasionale.
Si considera artista o professionista chi svolge un’arte o una professione non come dipendente, ma comunque con carattere di abitualità.
Distinguiamo ancora tra professioni protette, per l’esercizio delle quali è richiesta l’iscrizione preventiva in albi, ordini, elenchi (si pensi all’avvocato, all’architetto, al commercialista…), subordinata di norma al superamento di un esame di stato, e professioni libere per le quali non è richiesta alcuna iscrizione (artisti, consulenti, ecc.).
Dal punto di vista fiscale e previdenziale occorre sapere:
Aprire partita IVA;
Iscriversi all’INPS, o ad altre casse specifiche per le professioni protette,
Versarvi i contributi previdenziali;
Tenere una regolare contabilità
Dichiarare i redditi percepiti.
La seconda forma del lavoro autonomo è rappresentata dalla collaborazione coordinata e continuativa, un’attività lavorativa prestata senza vincolo di subordinazione, ma comunque in modo continuativo.
A differenza del lavoro dipendente in questo caso non si viene assunti dal datore di lavoro, ma si presta la propria opera secondo quanto concordato con il committente. Attualmente questa forma è sostituita dal Contratto a progetto.
Dal punto di vista fiscale e previdenziale:
Non è necessaria l’apertura della partita IVA;
Viene trattenuta direttamente dal committente una ritenuta d’acconto ai fini IRPEF pari al 20% dei compensi;
È necessaria l’iscrizione all’INPS e il versamento ai fini previdenziali (attualmente, l’aliquota per chi non è già iscritto all’INPS o ad altre casse è del 12%, di cui 1/3 a carico del lavoratore e 2/3 a carico del datore di lavoro);
Deve essere presentata la dichiarazione dei redditi.
Prestazione occasionale
Se invece la prestazione di lavoro è un fatto occasionale, non ripetitivo (es. la distribuzione occasionale di volantini pubblicitari) allora si effettua una prestazione occasionale.
Questa situazione non richiede l’apertura della partita IVA.
È assoggettata alla ritenuta d’acconto del 20%, non richiede iscrizioni o versamenti previdenziali, ma esiste comunque l’obbligo di dichiarazione dei redditi.
L’art. 2082 del Codice Civile definisce imprenditore è colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi.
Perché si possa parlare di impresa l’imprenditore deve operare sul mercato
Perché si possa parlare di impresa deve, innanzitutto, esserci un’attività economica, ovvero l’imprenditore deve operare sul mercato (ad esempio è imprenditore agricolo chi coltiva il terreno e vende i prodotti che ottiene al mercato, mentre non lo è chi produce solamente per il suo consumo).
Poi necessario che l’attività sia svolta in maniera professionale, cioè in modo abituale o periodico (come, ad esempio, il lavoro di un negoziante, ma anche del gestore uno stabilimento balneare).
Ultimo requisito è l’organizzazione, ovvero la gestione coordinata delle risorse umane, tecniche e finanziarie da parte dell’imprenditore. Esistono diverse forme giuridiche di impresa previste dal codice civile.
Distinguiamo la forma dell’impresa individuale dalle altre forme di società
Distinguiamo innanzitutto la forma dell’impresa individuale (in cui l’imprenditore è uno solo), dalle forme societarie (in cui più persone si uniscono per esercitare insieme l’attività di impresa).
L’impresa individuale fa capo ad una sola persona, che è l’unica responsabile della sua gestione (ad esempio un idraulico, un elettricista, una parrucchiera).
Per lo svolgimento dell’attività l’impresa individuale può avvalersi di dipendenti e/o collaboratori.
Se il titolare gestisce l’attività con la collaborazione dei propri familiari (coadiuvanti) può dar vita ad una impresa familiare.
In questo caso al titolare spetta almeno il 51% dell’utile, mentre il coadiuvante ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e alla divisione degli utili in rapporto al lavoro prestato.
Dal punto di vista fiscale e previdenziale occorre:
Richiedere eventuali licenze o autorizzazioni amministrative, sanitarie, ecc.;
Aprire una posizione IVA;
Iscriversi al Registro delle Imprese presso la Camera di Commercio;
Iscriversi all’INPS ed eventualmente all’INAIL.
Se, invece, due o più persone si accordano per gestire insieme un’attività economica, formano una società la cui costituzione deve avvenire per atto pubblico (ovvero davanti a notaio).
La costituzione di una società offre agli imprenditori il vantaggio di poter unire le forze
La costituzione di una società offre agli imprenditori il vantaggio di poter unire le forze (soprattutto economiche) per la realizzazione dell’attività nonché un minor rischio personale. Le società si dividono in società di persone e società di capitali.
In particolare la prima, in cui la figura dei soci è più importante del capitale da essi conferito, non hanno personalità giuridica, non sono, cioè soggetti giuridici distinti dalle persone dei soci i quali hanno, di norma, una responsabilità illimitata e solidale di fronte a eventuali problemi della società.
Le società di persone sono:
La società semplice (la tipologia più diffusa in agricoltura)
La società in nome collettivo (dove, semplificando, tutti i soci esercitano l’attività imprenditoriale)
La società in accomandita semplice (in cui alcuni soci esercitano l’attività altri sono apportatori di capitale).
È la società di capitali e non il singolo socio a essere titolare dei diritti e degli obblighi dello svolgimento dell’attività d’impresa.
Le società di capitali hanno personalità giuridica ed è quindi, la società e non il singolo socio, a essere titolare dei diritti e degli obblighi che nascono dallo svolgimento dell’attività d’impresa.
Le società di capitali sono:
La società a responsabilità limitata (la forma più piccola di società di capitali, dove i soci esercitano l’attività ma l’amministrazione può essere affidata anche a non soci);
La società per azioni (forma giuridica idonea per le imprese che presentano un tasso di rischio ed un volume di investimenti piuttosto elevati).
Un cenno a parte è necessario per le società cooperative che sono società che esercitano attività d’impresa perseguendo uno scopo mutualistico.
Tale scopo si traduce, in concreto, nel fornire beni e servizi o occasioni di lavoro direttamente ai soci a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero sul mercato.
Questo tipo di società infine richiede un numero minimo di soci pari a 9 (ad eccezione della piccola società cooperativa il cui numero di soci può variare da un minimo di 3 ad un massimo di 8).
Dal latino Sardinia, terra, isola dei Sardi (Sardi-orum). Nome con cui i romani chiamavano la Sardegna e nome della provincia romana di Sardegna, costituita nel 227 a.C.
I Greci chiamavano la Sardegna Sardò
I greci chiamavano la Sardegna Sardò, connettendola a Sardo, figlio di Eracle che secondo il mito sarebbe giunto nell’isola a capo di colonizzatori libici.
La Sardegna era chiamata dai greci anche Ichnussa, dal greco ichnos (orma di piede umano), per la sua caratteristica forma (da cui anche Sandaliotis, da sandalion, sandalo).
Il radicale s(a)rd- , che identifica l’ethnos dei sardi, appartiene al sustrato linguistico mediterraneo preindeuropeo. Si ritiene che i sardi della protostoria indicassero la loro terra e se stessi con nomi derivati da questa base.
La più antica sicura attestazione scritta dell’etnico (Srdn) è contenuta nella fenicia “Stele di Nora” risalente alla fine del IX sec. a.C .
Un altro importante documento risale al VI secolo a.C.
Si tratta di un trattato di amicizia stipulato dagli abitanti della potente città magno-greca di Sibari e dal popolo dei Serdàioi, i Sardi secondo alcune accreditate ipotesi, il cui testo fu inciso su una tavola di bronzo che fu deposta nel famoso santuario panellenico di Zeus ad Olimpia.
Diversi studiosi avanzano l’ipotesi che i Sardi siano da riconoscere anche nei Serdan-, uno dei “Popoli del Mare” menzionati nei documenti egiziani tra il XVI e il XIII secolo a.C. Ciò lascerebbe immaginare una civiltà nuragica eccezionalmente avanzata ed intraprendente a livello mediterraneo, aspetti che però l’archeologia non sembra avere ancora adeguatamente documentato.
Lo scudo con croce rossa accantonata da quattro mori bendati è il simbolo del popolo sardo
Studiosi di tutti i tempi si sono mossi in un intrico di leggenda e realtà storica, tra Sardegna e Spagna.
Tutti hanno cercato di ricostruire origini e significati, ma lo stemma dei quattro mori rimane ancora oggi sostanzialmente un mistero.
La tradizione iberica lo considerava la bandiera della Sardegna una creazione di Re Pietro I d’Aragona
Il fine fu la celebrazione della vittoria di Alcoraz (1096).
La vittoria sarebbe stata ottenuta anche grazie all’intervento di San Giorgio (campo bianco e croce rossa) e che avrebbe lasciato sul campo le quattro teste recise dei re arabi sconfitti.
Sulla tradizione iberica si innestò la tradizione sarda.
Questa, contro ogni evidenza storica, legava lo stemma al leggendario gonfalone dato da papa Benedetto II ai Pisani in aiuto dei Sardi.
I pisani furono mandati contro i crudeli saraceni di Museto che in quegli anni minacciavano di conquistare Sardegna e Italia (1017).
In realtà, la più antica attestazione dell’emblema della Sardegna risale al 1281 ed è costituita da un sigillo della cancelleria reale di Pietro il Grande d’Aragona
Ma fu soltanto nella seconda metà del XIV secolo che i quattro mori apparvero per la prima volta legati alla Sardegna.
Questo fu come simbolizzandone il Regno all’interno della confederazione della Corona d’Aragona (Stemmario di Gerle).
Importato dunque dai re aragonesi, il simbolo comparve nella Sardegna spagnola su opere a stampa, monete e sui gonfaloni dei corpi speciali dei Tercios de Cerdeña, istituiti da Carlo V per la difesa dell’isola e distintisi a Tunisi (1535) e Lepanto (1571) nelle operazioni contro i Turchi.
L’iconografia del simbolo fu quanto mai confusa e le teste dei mori furono rappresentate in vario modo: volte a destra e a sinistra o affrontate, scoperte, coronate, cinte da una benda sulla fronte
Risale alla metà del Settecento l’iconografia destinata a perdurare, con le teste volte a sinistra e le bende calate sugli occhi.
Delle ragioni di quest’ultima innovazione, se dettate dal caso oppure più maliziosamente alludenti agli atteggiamenti (illiberali) del governo piemontese verso la popolazione isolana, non sapremo mai.
Lo stemma comparve nell’arma composita della dinastia piemontese su atti, monetazione di zecca sarda e bandiere dei miliziani
Successivamente ornò gli stendardi delle brigate combattenti sarde, tra queste la “Sassari”, divenuta leggendaria per le imprese eroiche sul fronte austriaco della Grande Guerra.
Nel 1952 lo scudo dei quattro mori diventava stemma ufficiale ed ornava il gonfalone della Regione Autonoma della Sardegna (DPR del 5 Luglio 1952).
Oggi i sardi hanno la loro bandiera.
I quattro mori però, memori dell’antico affronto piemontese, hanno voltato la testa e aperto gli occhi, non più fasciati dalla benda che torna a cingere la fronte.
Con questa ricerca tratteremo il modo in cui la cultura alimentare sarda si è legata col tempo all’antichissimo al folklore locale. Andremo a vedere come con certi rituali, spesso legati a suggestioni e credenze locali, le persone tentavano semplicemente di alleviare la vita di ogni giorno.
Non solo Pane: Folklore nella cultura alimentare sarda
Da sempre l’umanità ha individuato negli alimenti, o nei derivati animali e vegetali, tanto gli elementi utili a garantire la sopravvivenza in senso stretto, quanto gli aspetti delle valenze magico/rituali in funzione terapeutica o scaramantica.
Queste ultime a volte sconfinano in quella che è comunemente definita superstizione, a volte invece, alla luce delle nuove scoperte scientifiche, si dimostrano realmente in grado di sconfiggere determinate malattie o di prevenirne l’insorgere.
Numerosi ricercatori hanno affrontato questo argomento con taglio diverso secondo la loro specializzazione.
Così abbiamo avuto, di volta in volta, spiegazioni di tipo sociologico, antropologico, psichiatrico e religioso ecc…
Non è mia intenzione tentare ulteriori analisi particolareggiate, per le quali rimando agli autori dei testi specifici della bibliografia essenziale citata
Semplicemente vorrei mostrare alcuni di questi aspetti legati agli alimenti, e rilevare come, nonostante la pressione delle culture egemoniche, che da sempre hanno tentato di sopprimerle, siano arrivate pressoché intatte fino ai giorni nostri e che solo oggi, stiano realmente svanendo nell’oblio a causa della massificazione dei costumi e della scomparsa della cultura orale tradizionale, che in alcuni casi era la sola deputata a tramandarle.
Storie di tradizione orale
Alcuni di questi riti magico/terapeutici sono già stati registrati, altri sono a tuttora assenti nei vari testi di d’etnologia.
Si riesce a venire a conoscenza solo dopo ore, o addirittura giorni, di paziente conversazione con le persone anziane.
Queste, infatti, tendono a riportare fatti per lo più già noti, o comunque che si sono conservati anche nella memoria più recente, chiudendo così il discorso con l’interlocutore.
Ma se si presenta loro la dovuta attenzione, anche quando si parla magari d’altro, improvvisamente salta fuori qualcosa di nuovo.
Qualcosa che magari era stato rimosso da una sorta di censura etica, o forse solo dimenticato.
Del resto, tutte le occasioni importanti, nell’arco dell’anno o della vita umana, sono sancite da tradizioni particolari, volte, come ho già detto, a tutelare un’esistenza che si prospetta precaria e in balia di eventi sconosciuti e ingovernabili.
Rituali esoterici per alleviare la vita
Ecco allora le storie di spiriti, di anime in pena che causano sofferenze, se non si rabboniscono in qualche modo.
Non si tratta di veri e propri riti di tipo apotropaico, bensì di azioni volte a migliorare le condizioni dei vivi, e con loro anche dei defunti, che spesso si aggirano ancora nel mondo nell’attesa della pace eterna, e che potrebbero essere addirittura parenti delle persone che “vanno a visitare”.
Queste si preoccupano quindi di rendere più lieve la loro attesa, con preghiere o azioni materiali volte a soddisfare le supposte necessarie.
A questo punto, anche il pianto, apparentemente senza motivo, di un bambino piccolo, che tra le braccia dei genitori non trova conforto, e nel lettino ancora meno, può essere causato da qualcosa di soprannaturale.
Ai genitori, ormai stremati, era consigliato, solitamente da un’anziana della famiglia, di mettere un pezzo di pane sotto il cuscino del piccolo, questi sotto la spinta della disperazione eseguivano, il bambino, dopo un po’, tornava tranquillo (non è dato sapere dopo quanto tempo) e con lui anche i genitori.
Le anime che lo infastidivano, trovato il pane, si erano messe a mangiare lasciandolo finalmente tranquillo.
Che le anime se ne andassero in giro giorno e notte cercando di mangiare non è una novità (basti pensare all’antico Egitto), ma in Gallura, ancora ai primi del novecento (e in alcune zone, anche oggi) la Notte dei Santi, si allestiva un vero e proprio banchetto ad uso e consumo delle stesse.
Una tovaglia bianca, apparecchiatura festiva, pane, vino e cibo, erano poggiati sul tavolo della cucina, la porta che si affacciava verso l’esterno era lasciata aperta e la famiglia andava a letto.
Le anime avrebbero avuto di che soddisfare la fame. Al mattino il tavolo era ripulito.
Nessuno aveva visto niente, solo a qualcuno era parso di sentire dei rumori provenienti dal locale in cui era esposto il cibo, ma del resto, chi mai si sarebbe sognato di andare a controllare?
Ovviamente poi, il fatto che il cibo fosse scomparso, dava ragione a chi quest’usanza continuava a perpetuarla
Solo qualcuno iniziava ad insinuare che forse non di anime si trattasse, ma di mendicanti o bontemponi…Inutile dire che la teoria era destinata a cadere inascoltata, o addirittura tacciata di eresia (ovviamente al contrario).
Anche la notte del 1° agosto si procedeva in modo simile
In quest’occasione si preparava un cunchinu di chjusoni (un bel piatto di gnocchi) conditi con formaggio e pomodoro fresco e, questa volta, si metteva sul davanzale.
Anche in questo caso, alle prime ore del giorno, il piatto era ripulito e le anime imbonite, con gran soddisfazione degli abitanti della casa che da questo fatto traevano auspici favorevoli per tutta la famiglia.
Di questa consuetudine rimane traccia nell’abitudine, ancora viva in alcune zone della Gallura, di preparare il 1° agosto, questa pietanza. Non sappiamo però se solo per i vivi, oppure anche per i trapassati.
Tradizioni al giorno d’oggi ormai perse
Un giustificato pudore impedisce di ammettere, oggi, una tale abitudine, anche per non essere esposti al ludibrio dei più “colti”.
Un’altra forma scaramantica, questa volta un po’ più complessa, anche perché gli informatori non sanno dare spiegazioni in merito, è quella di lu casju parafocu (il formaggio che ferma il fuoco).
In questo caso, il Giorno dell’Ascensione, l’allevatore/agricoltore prelevava una forma di cacio dalla scorta annuale, e, dopo averci inciso sopra, con un coltello, una croce, la conservava in un angolo della casa fino al termine della stagione estiva.
Questa forma possedeva la virtù di proteggere tutto il territorio, di proprietà dell’esecutore, dai temutissimi fuochi estivi.
Anche se, come già detto gli informatori non sanno spiegare questa usanza, da quanto dicono, pur non dichiarandolo apertamente, si può desumere che rappresentasse una sorta di tutela contro il male estremo per antonomasia.
Oltre a queste forme scaramantiche, altri espedienti costituiscono una via di mezzo tra queste e la medicina popolare.
Vi è, infatti, una fusione tra elementi magico – rituali ed altri che potrebbero avere, se opportunamente studiati, un riscontro spiegabile scientificamente.
Prendiamo ad esempio l’Ociu Casgju, preparato il giorno dell’Ascensione
Prendiamo ad esempio l’Ociu Casgju (olio del formaggio) che era preparato il Giorno dell’Ascensione.
In quella data si “segnavano” capretti e agnelli e si marchiavano i manzi. Mentre gli uomini attendevano a queste incombenze le donne preparavano il pranzo.
In questa occasione era d’uopo cucinare la mazza frissa, una salsa di condimento per gli gnocchi ottenuta con la panna di latte.
Durante la cottura, la panna rilasciava l’olio in essa contenuto, questo era raccolto in un vasetto e conservato per tutto l’anno come unguento medicinale, specificamente per lu mali di la ula e lu custuppatu (mal di gola e bronchi impegnati).
Spalmato sul torace e poi ricoperto cu la calta biaitta di la pasta (la carta straccia azzurra della pasta sfusa) o cu la bambacia (ovatta) era considerato infallibile.
In altre zone quest’olio veniva preparato il 3 febbraio.
In questo caso ci troviamo di fronte ad una corrispondenza perfetta tra il rito popolare e quello religioso,
Perché in questa data la Chiesa Cattolica celebra S.Biagio vescovo e martire (III-IV sec.)
A lui sono riconosciute qualità di taumaturgo, protettore degli animali, Santo dei fidanzati e… guaritore del mal di gola.
Questo perché avrebbe guarito un bambino che stava per morire soffocato da una spina di pesce;
Ma mentre la chiesa festeggia in quel giorno “la candelora”e nella cerimonia sacra sul collo dei fedeli il celebrante poggia una candela benedetta che poi, portata a casa, verrà utilizzata tutto l’anno con questa funzione.
Il popolo utilizza le sostanze che ha a disposizione, e che, se vogliamo, sono anche affini (cera – grasso) con le stesse finalità.
C’è da sottolineare che il fatto di sottolineare che il fatto di strofinare il torace con un unguento, causando il riscaldamento della zona interessata, potrebbe, in effetti, portare ad un miglioramento delle condizioni dell’ammalato.
Se poi questo unguento è stato preparato il giorno dell’Ascensione, e quindi nel periodo in cui le piante sono quasi al culmine delle loro proprietà curative, si può ipotizzare che parte delle loro sostanze attive si siano trasferite nel latte e quindi nel nostro olio.
È chiaro che sono solo ipotesi senza fondamento certo, ma quanta di questa saggezza popolare non è stata prima irrisa e poi accolta?
Si pensi semplicemente all’uso delle erbe, da sempre patrimonio della tradizione popolare ed ora accettata e ricercata da tutti.
Diverso il discorso dell’Uovo del giorno del 25 marzo
Qui, o ci si crede, o non ci si crede. Gli “antichi” ci credevano! L’uovo deposto dalla gallina il 25 Marzo, vale a dire nove mesi prima della nascita di Gesù, quindi nel giorno ipotetico del Suo concepimento, veniva raccolto e conservato in un luogo inaccessibile fino a Natale.
Non si doveva toccarlo per nessun motivo, pena la riuscita del “prodigio”, se ci si atteneva a queste regole, il giorno di Natale l’uovo sarebbe stato ormai di cera
A questo punto diventava anch’esso medicinale e, passato sulla gola malata, la guariva, poggiato su un arto dolorante ne leniva il dolore ecc…Questi sono solo alcuni esempi della miriade di riti che l’uomo ha ricercato o creato per risolvere i problemi di ogni giorno.
Oggi ci fanno sorridere, e forse ci meravigliamo dell’ingenuità dei nostri nonni, disposti a credere a simili panzane, ma…Stiamo bene attenti, perché, come si dice: “Quel che buttiamo via dalla finestra, rientra dalla porta”.
Quanti di noi, infatti, non si sono mai sentiti dire da qualcuno, non necessariamente più anziano: “Bevi il caffè stando seduto, altrimenti non diventerai mai ricco!”
E soprattutto, chi non si è seduto immediatamente, dopo una simile minaccia?
Quanti di noi, ancora, non si sono accodati alle schiere degli adepti della Notte di Halloween, muniti di zucca e sonagli, pronti ad andare in giro, all’insegna della nuova cultura egemone, per chiedere “dolcetto o scherzetto”? invece di: “Li molti e molti”, senza pensare che la festa di Halloween non è nient’altro che un rito simile a quelli che volutamente abbiamo seppellito, bollandoli come dabbenaggini da ignoranti.
Infine, visto che il filo conduttore del nostro discorso è la tradizione alimentare.
Come facciamo a sorridere dei nostri vecchi, che traevano auspicio da un piatto di gnocchi lasciato sul davanzale o dalle foglie d’olivo nummati (cui era dato il nome di un uomo e quello di una donna), gettate sul piano incandescente dei focolare se poi, puntualmente andiamo a guardare l’oroscopo del giorno.
E a Capodanno, per quanto già satolli, non rinunciamo a mangiare le lenticchie che, per il nuovo anno, saranno foriere di soldi?
E pensare che il Capodanno in Sardegna, una volta era in settembre …Una volta!…
La fame nel mondo raggiunge un nuovo record: Per la prima volta nella storia umana, oltre un miliardo di persone in tutto il mondo risultano sottonutrite.
Lo rende noto la Fao, che ha rivisto al rialzo le stime per il 2009 sul numero di persone che soffrono la fame, indicando la cifra di 1,02 miliardi.
Tale cifra supera di oltre 100 milioni il livello dell’anno scorso e rappresenta circa un sesto della popolazione mondiale.
Questo aumento della fame a livello mondiale – spiega la Fao – non è la conseguenza di raccolti insoddisfacenti, ma della crisi economica mondiale che ha ridotto i redditi e aumentato la disoccupazione.
E anche nelle nazioni sviluppate la denutrizione è divenuta un problema crescente, riguardando 15 milioni di persone.
La fame nel mondo ha mostrato un trend di lenta ma continua crescita nell’ultimo decennio
La fame nel mondo – sottolinea l’agenzia delle Nazioni Unite – ha mostrato un trend di lenta ma continua crescita nell’ultimo decennio.
Quest’anno il numero di persone vittime della fame è previsto crescere globalmente dell’11%, secondo le stime della Fao basate su analisi del Dipartimento per l’Agricoltura degli Stati Uniti.
Quasi l’intera popolazione sotto-nutrita vive nei Paesi in via di sviluppo ma una fetta di 15 milioni riguarda i Paesi sviluppati.
In Asia e nel Pacifico circa 642 milioni di persone soffrono di denutrizione cronica; nell’Africa Sub-Sahariana 265 milioni; in America Latina e nei Caraibi 53 milioni; nel Vicino Oriente e nel Nord Africa 42 milioni.
La situazione di crisi economica di alcuni Paesi in via di sviluppo – nota la Fao – è anche aggravata dal fatto che i trasferimenti monetari (le rimesse) degli emigrati nei loro Paesi d’origine sono diminuiti sostanzialmente nel corso di quest’anno, causando una notevole riduzione delle riserve estere e dei redditi familiari.
La diminuzione delle rimesse, insieme al previsto declino degli aiuti ufficiali allo sviluppo, ridurrà ulteriormente la capacità dei Paesi di avere accesso al capitale necessario a sostenere la produzione e a creare reti di sicurezza e schemi di protezione sociale per i poveri.
Mentre i prezzi alimentari sui mercati internazionali sono diminuiti nel corso degli ultimi mesi, i prezzi interni nei Paesi in via di sviluppo sono scesi assai più lentamente e sono rimasti più alti in media del 24% alla fine del 2008 rispetto al 2006.
DIOUF, ADOPERARSI TUTTI CON URGENZA PER SRADICARLA
La Fao nota infine che i prezzi dei generi alimentari di base, sebbene siano diminuiti, restano ancora più alti del 24% rispetto al 2006, e del 33% rispetto al 2005.
“Questa silenziosa crisi alimentare costituisce un serio rischio per la pace e la sicurezza nel mondo. Abbiamo urgentemente bisogno di creare un largo consenso sul totale e rapido sradicamento della fame nel mondo, ed intraprendere le azioni necessarie ad ottenerlo”.
Lo afferma il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, commentando la stima dell’agenzia Onu di un livello record di oltre 1 mld di persone affamate nel 2009.
L’attuale situazione dell’insicurezza alimentare nel mondo non ci può lasciare indifferenti
“L’attuale situazione dell’insicurezza alimentare nel mondo non ci può lasciare indifferenti – aggiunge Diouf – Le nazioni povere devono essere dotate degli strumenti economici e politici necessari a stimolare la produzione e la produttività del loro settore agricolo”.
“Gli investimenti in agricoltura – conclude Diouf – devono aumentare, perché per la maggioranza dei Paesi poveri un settore agricolo in buone condizioni è essenziale per combattere i problemi della fame e della povertà, ed è un prerequisito indispensabile per la crescita economica generale”.
È nato nel Mediterraneo, e non in Africa, il più antico degli antenati dell’uomo: parola di Lluc, l’ominide vissuto 11,9 milioni di anni fa e scoperto in Spagna.
La rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, Pnas ha pubblicato ilsuo “ritratto”, dall’aspetto moderno rispetto a quello delle altre scimmie antropomorfe.
A studiare questo nuovo antenato dell’uomo, il cui nome scientifico è Anoiapithecus brevirostris, è il gruppo spagnolo dell’Istituto catalano di Paleontologia, in collaborazione con il gruppo italiano del dipartimento di Scienze della Terra dell’università di Firenze.
“Il ritrovamento fornisce elementi nuovi nella comprensione della storia delle origini della nostra famiglia, Hominidae, che oltre all’uomo include orango, scimpanzé e gorilla“, osserva Lorenzo Rook, del dipartimento di Scienze della Terra dell’università di Firenze, che ha partecipato alla ricerca coordinata dallo spagnolo Salvador Moyà-Solà.
La scoperta di Lluc è avvenuta in Catalogna, nella località l’Anoia (che ha ispirato il suo nome scientifico), presso Hostalets de Pierola.
È vissuto nel Miocene medio ma i suoi resti, pochi ma ben conservati, rivelano un aspetto moderno, con un prognatismo molto ridotto.
Sono arrivati fino a noi parte della faccia e della mandibola, ma per gli studiosi sono sufficienti a dimostrare che le scimmie kenyapithecine sono da considerare il “sister taxon” degli ominidi attuali, vale a dire “il gruppo arcaico più vicino agli ominidi, quello in cui gli antenati dell’uomo affondano le radici“, spiega Rook.
La scoperta, prosegue lo studioso, indica inoltre che “la regione mediterranea è stata l’area di origine della nostra famiglia“.
Dalla ricostruzione fatta sulla base dei resti, risulta che Lluc era un maschio
Il restauro e la preparazione dei resti, spiegano gli studiosi, “sono stati molto lunghi ed estremamente delicati a causa della fragilità del reperto, ma una volta che il fossile è stato pienamente disponibile per lo studio analitico, la sorpresa è stata enorme“.
Il fossile, spiegano, “ha un aspetto mai visto in nessun primate fossile miocenico” e il suo aspetto “é confrontabile tra gli ominidi solamente con il prognatismo del nostro genere, Homo“.
Tuttavia, aggiungono, la morfologia della faccia non indica che Anoiapithecus abbia relazioni di parentela diretta con Homo, ma potrebbe essere il risultato di una convergenza morfologica.
L’incertezza e le crisi dei mercati internazionali hanno portato un malessere generale sulle iniziative e sullo sviluppo delle microimprese, da sempre ruota trainante delle economia nazionale.
La burocrazia e l’ottusità delle istituzioni non incoraggia l’imprenditore o l’impresa consolidata ad effettuare ulteriori investimenti.
I “consumatori” che preferiscono privilegiare i risparmi alle spese, timorosi del futuro, la mancanza di dati precisi sulla congiuntura mondiale e dei settori veramente trainanti.
Siamo in una situazione in cui la possibilità di trovare un posto di lavoro “fisso” sta diventando un miraggio, e la speranza di pianificare una vita diventa un sogno difficile da raggiungere.
Sembra una catastrofe, forse no
Esistono ancora dei settori dove la piccola impresa e l’autoimpiego possono creare profitto, basta buona volontà e iniziativa per creare dal niente un’attività autonoma e redditizia, ricordiamoci che la nostra Regione può ancora dare tanto, sia nei settori dell’artigianato e del turismo.
Bisogna fare uno sforzo e capire che “il rischio imprenditoriale” non è una malattia mortale è qualcosa che si può riuscire a gestire e trarre qualcosa di buono.
In questo periodo si parla tanto di crisi economica e molte persone la vedono con pessimismo e si spingono a fare delle previsioni addirittura catastrofiche.
Vedere la crisi con occhi diversi, intravedendo delle opportunità anche in una fase così delicata significa avere una visione ottimistica della vita.
L’ottimismo ci aiuta anche e soprattutto nei momenti difficili e fa scorgere opportunità laddove altri vedono solo nero.
Anche i mass media pigiano sull’acceleratore della crisi e, pur di fare audience, continuano a parlare dell’attuale fase economica come se tutto il mondo dovesse crollare, come se non ci fosse via d’uscita.
In questa fase si possono scorgere i veri ottimisti, persone che riescono a vedere il bicchiere mezzo pieno anche in situazioni di difficoltà estrema quando dominano il pessimismo e la paura, la crisi sembra più nera di quanto non lo sia nella realtà e si prevede il peggio.
Bisogna quindi guardare l’attuale fase economica con spirito ottimista, ma con razionalità, convincendoci che si può uscire da un periodo nero col pensiero positivo avendo però l’accortezza di passare all’azione: quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare…
Nel cervello c’è solo spazio per una delle due cose: ottimismo e pessimismo
Queste non possono coesistere: un pizzico di pessimismo è un ottima fonte di realismo, ma affondarci dentro vuol dire fare la fine del Kamikaze.In altre parole se si profetizza che tutto andrà male è probabile che il futuro ci darà ragione per il semplice fatto che saremo noi, in primis, a contribuire all’avverarsi della profezia.
Assumere un approccio più ottimista e positivo non può che far bene: il che non vuol dire illudersi ma cercare di affrontare I problemi con uno spirito più energico e propositivo.
E non si tratta solo di buoni propositi e belle parole, ma anche di pura neuropsicologia: è infatti un fatto scientifico che chi adotta un approccio positivo verso le cose si rivela più energico e riesce più facilmente ad uscire da una situazione problematica.
Insomma, se preferite piangetevi addosso e strizzate i fazzoletti, ma questo potrebbe solo peggiorare la situazione.
Per dirla come un saggio se hai male al piede non ti sarà di grande utilità darci sopra dei colpi di clava.
L’onestà è nel cervello e chi ne è dotato non ha bisogno di trattenersi dall’imbrogliare ma si comporta in modo naturalmente onesto, senza sforzi.
Lo dimostra uno studio di Joshua Greene e Joseph Paxton della Harvard University di Boston, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.
Grazie a questo studio, quindi, gli esperti hanno messo a punto un ‘test dell’onesta”, per capire chi è onesto di indole e chi, invece, se ha l’occasione tende ad imbrogliare.
Riportato sul magazine scientifico New Scientist, lo studio potrebbe avere risvolti pratici discutibili: una volta validato, un test simile potrebbe essere usato, per esempio, per ‘controllare’ gli impiegati e la loro onestà sul luogo di lavoro.
Il test dell’onestà si basa su un gioco semplice, il lancio di una moneta
I partecipanti devono scommettere sull’esito (testa o croce) del lancio; nella prima parte del test, prima del lancio, i volontari devono scrivere su un foglio cosa prevedono esca.
Nella seconda parte, invece, devono dire, a lancio avvenuto, se avevano previsto giusto (e quindi sta a loro dire se hanno vinto o meno la scommessa).
È ovvio che questa dichiarazione sta alla loro onestà personale, perché potrebbero imbrogliare e dire di aver ‘azzeccato’ l’esito del lancio e quindi vinto la scommessa.
Eppure, in molti casi i volontari sembrano rispondere con onestà senza approfittare dell’opportunità di imbroglio; mentre altri tra loro (lo si capisce con la statistica di successo della previsione) imbrogliano di certo, dicendo di aver previsto bene l’esito del lancio.
Durante queste dichiarazioni i neurologi hanno monitorato aree del loro cervello, come la corteccia prefrontale, legate alle decisioni e al controllo dei comportamenti, usando la risonanza magnetica funzionale.
Così hanno visto che nel cervello degli onesti non si accendono queste aree prima di dichiarare che hanno vinto o perso la scommessa; viceversa esse si accendono nel cervello degli imbroglioni.
Secondo i neurologi, ciò significa che l’onestà è un comportamento di default che non richiede autocontrollo da parte del cervello, come a dire che per gli onesti non vale il detto “l’occasione fa l’uomo ladro”. I disonesti, invece, devono pensare al fatto se sfruttare o meno l’occasione di imbrogliare.
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