Mese: Settembre 2022

La SCIENZA del disarmo delle ARMI A CANNA LUNGA

In questo articolo spiegheremo come difenderci dalle armi da fuoco a canna lunga.

Sicuramente in tutto il mondo sono morti molti poliziotti nel tentativo di disarmare una persona da un’arma

Che fosse un’arma bianca, o una a canna corta, ma ben più difficile è il disarmo di un’arma a canna lunga, ed ancor di più se ad impugnarla è una persona imbottita di droga o riempita di alcool.

Ricordo che durante un corso di aggiornamento con gli S.W.A.T, ci fu raccontato un episodio di violenza domestica dove il marito voleva uccidere la moglie e probabilmente se stesso (ed il poliziotto che gli parlava).

Quando in un attimo di distrazione il poliziotto effettuò il disarmo dell’uomo, ubriaco, attuando la tecnica “a remo in avanti”.

La tecnica a remo in avanti era un disarmo che al poliziotto era stato insegnato dal suo sergente addetto all’istruzione, durante il periodo di addestramento per il Vietnam, quando i veterani insegnavano ogni tipo di combattimento a corta distanza, quelli da manuale e non.

È molto difficile trovare chi e dove insegnino il disarmo della carabina o del fucile

Ma grazie ad un sergente veterano della guerra in Vietnam con due ginocchia Dupon in plastica, la tecnica di disarmo venne insegnata e tutt’ora attuata.

Chiaramente la curiosità per il disarmo di quest’arma mi spinse a studiare scientificamente le tecniche, studiando anche le possibili posizioni di confronto, cercando di risolverle.

Le armi che analizzai furono la carabina, il fucile, la semi-automatica e l’automatica, questo spinse ad affrontare il problema del confronto, studiando psicologicamente i fattori scatenanti di una determinata situazione e le tattiche fisiche attuabili, arrivando alle seguenti considerazioni:

I problemi fisici

  • Valutazione del nemico;
  • Distanza;
  • Posizione.

Metodo con Valutazione del nemico

  • Bisogna valutare la qualità cui porta l’arma e la quantità del nemico;
  • Quale stazza, mentalità, stato fisico ed abilità ha la persona che impugna l’arma.

Distanza 1: Contatto

Quando il foro d’uscita della canna è a contatto con il nostro corpo, tutti quelli che impugnano un’arma, che siano allenati o meno, toccano spesso con la canna l’aggredito, può darsi che il soggetto abbia fretta e ci spinga con l’arma, potrebbe essere furioso e toccarci con la canna a mò di intimidazione.

Potrebbe essere sicuro di sé, benché sembri una strategia sbagliata, succede con una certa regolarità.

Distanza 2: Attacco

Quando il soggetto tiene l’arma ad una distanza nella quale abbiamo l’opportunità di saltargli addosso per sottrargliela.

Distanza 3: Lontananza

Quando ci puntano il fucile contro da una distanza in cui non è possibile saltare addosso all’aggressore, fino, letteralmente, ad una distanza da franco tiratore, in questa situazione l’unica cosa che possiamo fare è utilizzare la psicologia per cercare di salvarci.

Posizione

Il nemico presenterà il suo fucile in quattro posizioni basilari, con tre variazioni in ognuna di esse:

  • Posizione 1- Davanti a noi;
  • Posizione 2- Ad uno dei lati (destro o sinistro);
  • Posizione 3 – Dietro di noi;
  • Variazione A- Al di sopra di noi;
  • Variazione B- Alla nostra altezza;
  • Variazione C- Sotto di noi.

Metodo con cui porta l’arma

Come tiene l’arma, la impugna solo con le mani? O peggio, la tiene assicurata ad un cinturino? Sicuramente terrà l’arma in tre modi basilari:

  • Con le mani;
  • Con il cinturino;
  • Con un qualsiasi arnese di sicurezza.

Con le mani

I criminali normalmente usano armi “civili“ come fucili da caccia ed altre, spesso rubate, e le portano in modo da poterle estrarre rapidamente.

Il cinturino

Per anni si è studiato sulla storia militare, analizzando fotografie sia di truppe internazionali sofisticate ed altamente allenate, che di ribelli senza addestramento, dalle migliaia di fotografie di personale militare armato, esaminate le loro armi, all’incirca metà mostravano di usare il cinturino dell’arma, mentre l’altra metà non faceva caso ad esso e lo lasciava penzolante dall’arma.

Per focalizzare di più la questione, molte di queste fotografie erano di guardie di prigionieri e scorte, un’arma con il cinturino legato ad una parte del corpo evidenzia un ostacolo per il disarmo, il personale militare usa i cinturini.

L’idea basilare del cinturino è poter portare l’arma sia in posizione di riposo che di attacco, poi si scoprì che poteva servire a migliorare la mira, è legato alla canna per poter strisciare a terra in silenzio ed in modo sicuro e permette le seguenti posizioni dell’arma:

  • Di traverso sul petto;
  • Sotto l’ascella;
  • Sulla schiena;
  • Di traverso sull’ascella e sulla spalla a mò di clip.

Molte vittime sono scappate mentre venivano scortate per essere interrogate, mentre mangiavano, mentre erano in bagno o in camera da letto.

Molti hanno sorpreso una guardia stanca o poco allenata, altri hanno sperato che la guardia rimanesse sola.

Molti sapevano che sarebbero morti tramite esecuzione e hanno deciso di morire lottando, ma hanno vinto e si sono salvati, perciò dobbiamo sempre osservare dov’è in nemico, che aspetto ha, come porta l’arma ed identificare come può usarla, prima di risolvere fisicamente la peggiore di tutte le situazioni.

Soluzioni basilari per la sopravvivenza

Non importa in che posizione sia l’arma, né se la canna ci sta toccando o si trova a distanza di attacco, l’equazione per la sopravvivenza è:

  • La minaccia se la canna è a contatto;
  • Deviare la canna;
  • Controllare l’arma deviata e colpire collo o la testa per stordire l’avversario e non far più focalizzare la sua attenzione sull’arma;
  • Colpire le braccia che sorreggono l’arma;
  • Strappare l’arma continuando a colpire l’avversario.

Affrontare un’arma sciolta, senza cinturino:

Il miglior modo per ottenere questo disarmo è colpire le braccia che sorreggo l’arma per portargliela via.

Affrontare un’arma legata al cinturino

Questo esige la presa dell’arma e tirare con forza per portare al suolo il nemico, bisogna colpire più volte, quanto è necessario, per ottenere un disarmo dovete sganciare il cinturino o liberare la clip che unisce l’uomo all’arma, per sganciare il cinturino, per prima cosa dovete aver ridotto significatamene il nemico abbastanza per manovrare il suo corpo in sicurezza per procedere.

Liberare la clip di un’arma richiede una notevole riduzione della possibile reazione dell’avversario, solo allora si può accedere al sistema per liberarla, sganciandola o tagliando il cinturino, perciò si ha bisogno di un coltello o utilizzare un’eventuale pugnale dell’avversario.


È necessario ricordare che se si tira l’arma, aiuterete l’aggressore ad attivare il sistema d’ingranaggio

Molti esperti suggeriscono di spingere l’arma per ritardare tale azione, analizzando diversi assassini e sparatorie, nei quali i combattenti hanno lottato con armi a canna lunga, la causa generalmente del decesso di uno dei due era dovuto ad un colpo partito mentre si cercava di effettuare il disarmo.

Molti istruttori, non bene allenati, danno troppa enfasi a come forzare il fucile per applicare una leva, senza soffermarsi a spiegare che prima si deve colpire l’avversario, è naturale pensare che un essere umano afferri con forza la propria preziosa arma, specialmente con il gomito o l’avambraccio, a meno che non lo si colpisca, risulterà molto difficile spostargli l’arma per facilitare le chiavi al braccio o al polso.

Ho visto molti istruttori insegnare ai loro allievi a spostargli la canna con il palmo della mano verso l’alto, spingendo con il palmo della mano permettiamo al nemico di alzare la canna e mirare direttamente verso di noi, se spingiamo verso il basso, si riesce ad evitare tutto questo, altri istruttori preferiscono passare ad una serie di nodi da marinaio con il cinturino per legare l’avversario.

Per favore, quando si tratta di armi valutiamo bene ciò che facciamo e pensiamo alla sicurezza su ciò che stiamo facendo e non facciamo rischiare la pelle a chi stiamo insegnando!

Colpire il nemico con due mani con l’arma se necessario, una volta strappata l’arma, non confidate troppo sul fatto che funzioni, potrebbe essere scarica, potrebbe essere una replica, potrebbe essere rimasta danneggiata nella lotta e, con la grande varietà di armi a canna lunga che esiste, potreste non riuscire a farla funzionare.

Inoltre, il fuoco può richiamare l’attenzione su quello che stiamo facendo ed attirare l’attenzione dei suoi compagni.

Potreste essere obbligati ad improvvisare un qualche modo per legare il nemico, una volta sicuri perquisitelo alla ricerca di altre possibili armi che possa detenere addosso.

Note


Morio Higahonna, il Gran maestro ed eterno allievo

Il 5 settembre 2007, il Maestro Anichi Miyagi concesse a Morio Higaonna il 10° dan di Karate, con il beneplacito di Shuichi Arakaki.

Morio nacque a Naha il giorno 25 Dicembre del 1938

Cominciò a praticare il Karate a 13 anni con suo padre, un poliziotto okinawense praticante di Shoin Ryu,.

Un paio di anni più tardi si allena sotto la guida di un allievo del Maestro Chojun Miyagi, il quale però lo incoraggia a praticare il Goju Ryu ed entra così nel Dojo del Maestro Anichi Miyagi, dove in realtà ad impartire le lezioni era proprio il Maestro Chojun.

Nonostante non fosse conosciuto come Maestro, la tecnica di Anichi era molto pura rispetto a quella di Chojun Miyagi.

Kina Sensei normalmente diceva che i movimenti di mano di Anichi erano molto simili a quelli di Chojun Miyagi e che le sue espressioni e il suo modo di parlare erano esattamente uguali,

Lui era molto preciso nei suoi movimenti, per questo motivo il suo Karate era molto puro in relazione a quello che aveva imparato da Chojun.

Li Morio Higaonna perfezionò la sua tecnica e strinse il legame ancor di più con Anichi Miyagi.


Racconta Morio:

Arrivavo al Dojo verso le 07:00 ed entravo come tutti dal retro.

Normalmente arrivavo per primo e dopo aver salutato la moglie di Chojun Miyagi, mi mettevo a lavorare  mi cambiavo i vestiti e mi mettevo a pulire il Dojo.

Scopavo e lo inumidivo leggermente, per evitare scivoloni durante l’allenamento, quindi tiravo fuori gli attrezzi per l’allenamento che conservavamo dentro riempivo le anfore d’acqua.

Nel giardino del dojo di Chojun, la moglie si incaricava di riscuotere le quote, ma non passò molto tempo che la quota di Morio venne eliminata, come premio dei suoi sforzi, della sua costanza e dei suoi progressi.

Mia madre pagava la mia quota mensile nel Dojo, ma dopo alcuni mesi Myazato Sensei, vedendomi allenare con serietà e duramente, non volle che pagassi più.

Quando portai il denaro a mia madre, lei mi rimandò di nuovo a pagare, ma Myazato non accettò, decisi allora di partecipare di più all’attività del Dojo, insegnando ai nuovi, pulendo ecc…

A volte, Anichi Sensei veniva a casa mia di domenica, affinché se potevo, andassi con lui a casa di Chojun Miyagi, per riparare il makiwara, pulire o qualunque altra cosa fosse necessaria.

Anichi dedicava tutto il tempo libero al dojo del Sensei Chojun Sensei.

“Quando finivamo, la moglie di Chojun normalmente ci dava una tazza di tee e qualche pasticcino, e quando ce ne andavamo ci dava delle borse di arance affinché le portassimo a casa nostra“


Chojun Miyagi muore nel 1953. Sono anni molto difficili per Higaonna Sensei

Chojun Miyagi muore nel 1953, sono anni molto difficili per Higaonna Sensei, perchè deve lavorare su vari fronti, senza trascurare la sua pratica personale.

Nel 1959 Anichi ha bisogno di denaro per mantenere la sua famiglia e si arruola nella marina mercantile.

Assunto da una compagnia petrolifera, Morio perde per il momento il suo quotidiano insegnamento e ad esempio,egli stesso racconta:

Quando Anichi entrò nella Marina Mercantile, logicamente lasciai il Dojo, non mi sentivo più a mio agio, inoltre me ne andai a Tokyo per studiare all’università ed insegnare il Karate, poiché lì c’era uno dei miei compagni, che sostituii nelle lezioni quando lui se ne andò via. Fu un periodo in cui mi allenavo ed insegnavo tutto il giorno, fu un bel periodo!

L’arrivo a Tokyo

Nel 1960 Morio si trasferisce a Tokyo per entrare all’università, recandosi ad Okinawa un paio di volte all’anno come minimo, il che gli permise di non staccarsi dal Karate della piccola isola.

Molto presto inizia ad impartire lezioni di Karate a Takushoku che era un’università con un importante club di Karate Shotokan.

In effetti, a causa di un tremendo scontro in cui uno dei suoi membri si era visto coinvolto, l’università aveva proibito il Karate.

Ciò diede l’opportunità a Morio di iniziare nuove lezioni di Karate, questa volta di Goju Ryu

Poco dopo essersi stabilito nella sua nuova dimora, ed ebbe un gran successo.

Il 30 dicembre 1960 si fecero i primi esami multi-stile di passaggio di Dan ad Okinawa.

I principali istruttori furono promossi 5° Dan, ma M° Morio era contrario ai gradi, pensava che non portassero altro che problemi.

Dopo la laurea in economia Morio inizia ad impartire lezioni di Karate in altre università della capitale del Giappone, e la sua fama crebbe ancor di più.

Questa sua fama gli creò non pochi nemici nell’ambito del Karate

Uno con cui ebbe a che fare per diversi anni fu Eichi Miyazat.

Morio gli chiese anche la collaborazione per mettere fine alle diatribe, ma Eichi rifiutò accusando Morio di tentare di cambiare la storia del Goju Ryu attraverso un suo libro.

La partenza da Tokyo negli Stati Uniti per motivi economici

Giudicando impossibile vivere di solo Karate, Morio si trasferì negli Stati Uniti. Non ci resistette per molto, e tornò ad Okinawa per poter continuare ad apprendere il Karate.

Considerandosi non un Maestro, ma un allievo pronto ad imparare tutto ciò che altri Maestri potessero insegnarli, ancora insegna ed impara.

Il suo Kata preferito è Seishan, continua ad insegnare in un Dojo tipico Okinawense, piccolo, di legno, con un’entrata diretta dalla strada, senza ornamenti, ma solo ricordi.

Note


Masahiro Nakamoto, il primo X Dan di Kobudo di Okinawa

Masashiro Nakamoto è uno dei principali Maestri del Kobudo di Okinawa attuale 10° Dan.

Dirige il Budokan, un pittoresco chalet nel cuore di Shuri dedicato alle Arti Marziali con Dojo, patio, terrazza ecc… perfino un intimo museo di armi che Nakamoto Sensei si impegna a mantenere quasi in segreto.

Masahiro Nakamoto nasce il 15 gennaio 1938 nel cuore di Shuri, nello stesso luogo familiare nel quale oggi ha il suo Dojo Bunbukan, Nakamoto Sensei è un appassionato di Arti Marziali racconta:

Mi sono interessato alle storie dei bushi di Shuri fin dalla mia infanzia, vivendo e crescendo nell’antica capitale delle Ryu Kyu, ho dedicato più di mezzo secolo a studiare, indagare ed intervistare persone legate ai Maestri del Karate di Shurie del Kobudo, i bushi di Shuri hanno indagato sul Karate e sul Kobujutsu tra le mura del castello di Shuri , in quello che fu chiamato Bugeiza

Masahiro Nakamoto è discendente della prima figura di importanza vitale nel Karate e nel Kobudo di Okinawa, niente meno che Satunuke Sakugawa

Il suo albero genealogico è qualcosa di cui va orgoglioso, non tutti possono disporre del loro albero con i dettagli di cui dispone lui ma, nel suo caso, a causa dell’importanza dei suoi predecessori, il governo Okinawese lo possiede.

Masahiro Seicho da piccolissimo avrebbe conosciuto e ricevuto istruzione dal già anziano Kanga Sakugawa, il cui nome originale era Kanga Teruya.


Chi era Kanga Sakugawa

Costui nacque nel 1786. Il padre di Kanga morì a causa di un pestaggio e, nella sua agonia, fece promettere al figlio di non diventare mai una vittima

Per cui questi iniziò a studiare Arti Marziali con istruttori famosi, come il famoso cinese Kushanku.

Si dice che Sakugawa con o senza intenzioni spinse Kushanku, che quindi lo umiliò pubblicamente, anche se poi decise di insegnare a Sakugawa.

È stato Takahara che prima di morire chiese a Sakugawa di prendere il nome della sua Arte Marziale e così, a partire da allora Satunuke si fece chiamare To De Sakugawa.

Lavorò come scorta nel castello di Shuri e andò spesso in Cina con denaro delle tasse nonostante fosse spesso attaccato da pirati e banditi e dovesse applicare “la lotta notturna“ che gli aveva insegnato Kushanku, basata su percezioni, inganni e provocazioni acustiche…

Durante i più di 600 anni di commercio con la Cina, divenne necessario imparare non solo il Karate ma anche tecniche con armi per poter proteggere in modo adeguato dai pirati le vite e le barche cariche di tesori quando si attraversavano gli oceani. Il gran merito del sistema di Shuri è che il Karate e il Kobujutsu sono stati sviluppati insieme attraverso le esperienze marziali dei nostri antenati e, ancora oggi, sono trasmesse come una tradizione

All’avanzata età di 78 anni, Sakugawa indicò colui che sarebbe stato il pezzo chiave dello sviluppo dell’Arte Marziale a Okinawa:

Sokon Matsumura, che allora aveva 14 anni.

Kanga Sakugawa morì nel 1867

La sua tomba fu un regalo del suo Signore e fu posta nel bosco di Kochi

Come è tradizione, le ossa dei dei defunti a Okinawa si lavano una volta all’anno nei tre anni successivi alla morte in quello che viene denominato il giorno di Tanabata.

Nel luglio del 1976, la tomba dovette essere trasferita vicino a Shikina Enn, più tardi precisamente il 3 luglio 1993, la tomba fu aperta per la sua cura e ispezione in presenza di diversi familiari e discendenti.

Tra essi c’era Masahiro Nakamoto

La tomba era stata oggetto di furto da parte di tombaroli alla ricerca dei gioielli che a volte accompagnano i resti dei defunti.

Fortunatamente i resti di Sakugawa erano ancora li anche se le sue ossa erano state sparse sul coperchio dell’urna del terzo figlio di Kanga, morto prima.


L’11 novembre 1962 Nakamoto iniziò la sua carriera

L’11 novembre 1962 Nakamoto iniziò la sua carriera sotto la direzione del famoso Maestro di Kobudo Shinken Taira, imparando così da uno dei principali Maestri che l’isola abbia dato nella sua storia.

Otto anni dopo Nakamoto ricevette la licenza di istruttore di Kobudo.

Nel gennaio del 1971 Nakamoto aprì il suo Dojo

L’anno seguente e alla ricerca di maggiore istruzione, si recò da diversi Maestri che lo istruiscono sui sai, sul bo, allenandosi ad usarli con entrambe le mani.

Il primo febbraio 1973 Nakamoto iniziò ad imparare anche sotto la guida di Sensei Nakama, il quale era buono e gentile. Era tale la sua modestia che quasi nessuno sapeva che era un Maestro di Karate.

Nel 1983 Nakamoto fondò la Società Do Conservazione del Kobudo Tradizionale do Okinawa, per preservare quanto più possibile tutto il bagaglio culturale che il Kobudo rappresenta.

Nakamoto conosce molto bene i dettagli che accompagnano tutto ciò che si riferisce alle armi di Okinawa.

Il 27 ottobre 1984 Nakamoto Sensei organizzò la prima dimostrazione di arti marziali tra Cina e Okinawa come scambio culturale.

Nel 1985, patrocinato dal governo della Cina, studiò in quel paese arti marziali e pittura, un’altra delle sue passioni.

Nel marzo del 1986 si laureò alla scuola Yobu della Cina

Dopo la guerra, Sakumoto è stato il primo ad essere invitato dal Governo cinese per imparare sotto la sua guida i segreti dei Maestri di Fujian, non si era verificata una deferenza tale da quando lo fecero con Go Shiken, professore della Corte Reale.

Da allora la sua relazione con la Cina si mantiene e i suoi viaggi si ripetono, così le sue dimostrazioni di scambio.

Il 1° ottobre 1998 ottenne il 9° Dan grazie all’organizzazione di Karatedo Rengo Kai della prefettura di Okinawa.

L’11 luglio 1999 Nakamoto aprì il suo museo in una delle stanze del Bunbukan

Lì mostra cartelli esplicativi dello sviluppo del Kobudo e “nasconde“ nei suoi armadi numerose e varie armi, molte delle quali sconosciute in Occidente.

Senza dubbio una delle armi è il Bo l’arma per eccellenza dei contadini di Okinawa, dietro un semplice bastone c’è molta materia di studio,

Okinawa ha un clima subtropicale molto specifico, una temperatura di 22 gradi ed una climatologia peculiare essendo bagnata da tutte le parti dall’oceano. Ci sono anche molti tifoni, tanto che è chiamata la Ginza dei tifoni, quando si fabbrica il Bo si è sempre data molta importanza al legno utilizzato, che di solito è uno di questi alberi, palma, la quercia rossa giapponese o altri alberi sempreverdi, la palma apporta una gran flessibilità, ma rompendosi  colpendo, il suo punto di rottura rimarrebbe con un bordo affilato come se fosse una lancia,la quercia rossa è rugosa a grana fine. I legni migliori per il Bo si ottengono a Okinawa in autunno, il legno dell’autunno è massiccio e secca molto bene. Il 10 giugno 2006 è nominato 10° Dan dalla Federazione di Kobudo della prefettura di Okinawa, Nakamoto Sensei insegna abitualmente a marines americani a Camp Hansen, patrocinato dal Ministero Giapponese degli Affari Esteri, questo è il modo migliore con il quale gli stranieri di Okinawa si adattano alle differenze culturali e imparare le sue abitudini, il suo stile, le sue caratteristiche

Note


Miyamoto Musashi, il migliore spadaccino giapponese della storia

La vita di Musashi viene spesso confusa con le leggende che sono nate su di lui nei secoli dopo la sua morte. Questo perché i documenti relativi alla sua biografia sono frammentati e molti sono andati perduti.

In Giappone, fra gli storici che hanno cercato di far luce sulle vicende che lo riguardano, ci sono grandi estimatori e molti detrattori.

Comunque non è un personaggio che lascia indifferenti per i suoi biografi è “relativamente“ semplice ripercorrere la sua vita fino al duello con Kojiro.

Mentre è più difficile trovare fonti certe su quel che fece dopo.

Si trovano invece sufficienti notizie sulla sua vecchiaia

Di certo si sa che era un pittore, e qualche sua opera è rimasta.

Ha lasciato tre opere scritte, anche se tutti parlano solo del libro dei cinque anelli, che di sicuro è il più famoso ed è arrivato a noi grazie ai suoi allievi.

Si pensa erroneamente che non avesse studenti.

Invece proprio il libro dei cinque anelli è dedicato ad un suo allievo.

Inoltre alla sua morte aveva almeno tremila studenti che studiavano se non sotto di lui, sotto la guida dei suoi allievi diretti. Ancora oggi in Giappone ci sono molte scuole che derivano dalla sua.

Altra leggenda afferma che sia stato educato dal monaco Takuan ma non è stato così, anzi i due non sono mai entrati in contatto.

Sul duello più famoso che vinse contro Kojiro, risono gli scontri più feroci tra gli storici, qualcuno insinua che a vincere sia stato Kojiro, detto Ganriu.

Infatti l’isola dove venne tenuto il duello oggi si chiama Ganriujima, ma in molti trovano strano che venga dato il nome del perdente al luogo dell’incontro.

Per altri questo particolare è insignificante, visto che ci sono altre tracce che danno Musashi vincitore. Qualcun altro invece afferma che la vittoria di Musashi è certa, ma non fu onorevole e per questo l’isola ricorda il perdente.

Questo perché c’è un testo scritto da un testimone dell’incontro, dove si racconta che Kojiro non morì ma rimase svenuto.

Quando si riprese venne ucciso da alcuni allievi di Musashi, o da alcuni uomini appartenenti alla famiglia rivale di quella che “sponsorizzava” Koijro.

Infatti questo duello era stato organizzato da due famiglie che si contendevano il potere nella zona

Musashi era il campione di una e Kojiro dell’altra, comunque Musashi dopo questo duello si ritirerà dalla vita di Ronin in cerca di sfide e non cercherà più scontri singoli, se li farà saranno altri a sfidarlo.

Probabilmente il duello rappresentò comunque una svolta nella sua vita, volente o meno.

Se come sembra, ci furono fini politici dietro lo scontro, Musashi forse capì che il singolo non può nulla nelle trame ordite dai potenti nella società.

Forse questo gli fece diminuire l’interesse per lo scontro singolo ed aumentare quello per lo scontro di massa e lo studio della strategia applicata alle battaglie tra eserciti.

Le più forti critiche verso di lui nacquero perché uccise un esponente della scuola Yoshioka in un duello e questi era solo un adolescente di tredici anni.

Va però detto che l’esponente della Yoshioka in quell’occasione non era solo, ma scortato da molte decine di samurai, e ricordato anche Musashi stesso vinse un duello a tredici anni.

Comunque Musashi aveva già ucciso, in due precedenti duelli, i due fratelli maggiori del piccolo Yoshioka.

Il terzo scontro fu deciso dagli allievi della Yoshioka che cercavano per fini personali di salvare l’onore della scuola.

Certamente a contribuire a notizie fuorvianti su Musashi è stato il romanzo di Eiji Yoshikawa.

Bellissimo ritratto di un’epoca e anche del personaggio di Musashi, anche se con chiare invenzioni biografiche, dettate probabilmente da esigenze di narrativa.

Si sa che non si sposò, ma adottò tre figli.

Uno si suicidò alla morte del suo signore, secondo le regole del tempo.

Il terzo lo adottò in tarda età, Musashi non riuscì a diventare maestro di spada per lo shogun.

Venne scelto un altro samurai al suo posto, trovò comunque un signore a cui dare i propri servigi.

In vecchiaia diede diverse dimostrazioni della sua abilità

Non uccideva più gli avversari, li fronteggiava sempre con un Boken.

Solo in una occasione uccise un uomo, ma questo morì sbattendo la testa dopo che Musashi lo spinse con il corpo contro un muro dopo aver evitato un fendente.

Si dice che fosse mancino e abile nel lancio dei coltelli.

In età matura partecipò per il suo signore a delle battaglie, che lo videro vincitore, per lui la strategia che si mette in pratica per un singolo individuo si può utilizzare anche per molti.

Del libro dei cinque anelli l’originale fu perduto, Musashi stesso chiese a due allievi di bruciarlo.Uno lo trascrisse e l’altro lo im

Fu istruito all’uso delle armi dal padre Munisai Musashi

Nato nel villaggio Miyamoto nella provincia di Harima, fu istruito all’uso delle armi dal padre Munisai, che era uno spadaccino riconosciuto dallo shogun.

Mentre al suo sviluppo spirituale contribuì anche il monaco Zen Takuan Soho, a 13 anni ebbe il suo primo duello mortale.

A 16 anni partecipò e si batté nella Battaglia di Sekigahara (1600) per la fazione sconfitta, la Coalizione Toyotomi.

Sopravvissuto al massacro, Musashi cominciò un vagabondaggio per il Giappone alla ricerca di avventure e di affermazione personale.

Vagò fino ai 29 anni battendosi per sessanta volte ottenendo sempre la vittoria.

Tutto questo anche quando si trovò a combattere contro più avversari contemporaneamente o contro maestri di arti marziali, come i Samurai della famiglia Yoshioka, famosi per la loro scuola di spada a Kyoto, li batté tutti indistintamente.


L’epico duello contro Ganryū

Forse il suo duello più celebre fu quello combattuto contro Kojiro Sasaki, detto Ganryū.

Avvenne nel 1612 sull’isola di Funa-jima, il duello ebbe così tanta rinomanza che ora quest’isola porta il nome di Ganryu-jima.

Alcune voci dicono che Kojiro fosse sordo e che Musashi approfittò di questo per colpirlo mortalmente con un bokken ricavato dal remo di una barca che l’aveva portato a Funa-jima, quindi molto più lungo del consueto.

Un’altra versione di questo duello è che Kojiro usava come arma una canna di bambu.

Musashi di conseguenza affilò il remo della barca usata per raggiungere l’isola e appena Kojiro mise mano alla sua canna Musashi gli spaccò la testa con il remo, con un unico micidiale colpo, questo viene riportato sul “il libro dei cinque anelli“.


Si ritiene vero che Musashi non abbia perso mai un incontro

I dati biografici sono incerti, ma tradizionalmente si ritiene vero che Musashi non abbia perso mai un incontro, nonostante contrapponesse spesso un bokken alla Satana dell’avversario (si tenga sempre in mente che il bushido, codice d’onore dei Samurai, imponeva allo sconfitto in un duello di suicidarsi).

Pare inoltre che fosse di modi molto scortesi

Egli non era mai puntuale agli appuntamenti ed aveva scarsissima igiene personale, si dice infatti che fosse impossibile lavarlo finché portava la spada al fianco, cosa che faceva persino nel sonno.

Il ritiro e la morte

A 50 anni si ritirò per dedicarsi allo studio, alla letteratura e ad altre discipline risultando un maestro in molte di esse. Si cimentò con maestria nella pittura e nella calligrafia.

Nella forgiatura delle Tsuba, le guardie delle spade che risultavano opere d’arte in sé, diede il proprio nome a un modello divenuto poi tradizionale.

La leggenda vuole che al suo funerale un fortissimo tuono scosse tutti i presenti. Il commento dei più fu “È lo spirito di Musashi che lascia il corpo“.

Note

Bibliografia


Goffredo di Buglione: Il crociato perfetto?

Goffredo di Buglione è entrato nel mito come “il liberatore” (a suon di massacri) di Gerusalemme, ma il suo mito postumo è assai lontano dalla realtà

Egli è passato alla storia come “il capitano/ che il gran sepolcro liberò di Cristo “, il quale “ molto operò col senno e con la mano /molto soffrì nel doloroso acquisto“

Ma Torquato Tasso che scrisse questi versi nel Cinquecento, era più poeta che storico e quindi si concesse alcune licenze, appunto, poetiche.

Fra queste cosiddette licenze le principali da segnalare sono:

  • La prima: Goffredo di Buglione non era capitano ma Duca;
  • La seconda: a conquistare Gerusalemme non fu soltanto né principalmente lui;
  • La terza: l’acquisto fu sì doloroso, ma per i vinti, che vennero trucidati senza distinzione di sesso né di età.

Chi fu dunque, al di là delle leggende, il (presunto) super condottiero della prima crociata?

Iniziamo col dire che in realtà si chiamava Godefroy e che Buglione è una traduzione casereccia di Bouillon, cittadina del Lussemburgo (non lo stato attuale, bensì l’omonima provincia Belga) dove la famiglia del “capitano“ aveva un castello.

Lui però non nacque lì, ma quasi di sicuro a Baisy-Thy, frazioncina di Genappe, che è anch’essa in Belgio, ma nella regione del Bramante, più incerta del luogo di nascita e la data, per convenzione, si parla del 1060 circa.

Ma perché se era nato altrove, Godefroy è chiamato di Buglione?

Per rispondere occorre fare un passo indietro e dire due parole sulla famiglia materna del futuro crociato, che aveva un albero genealogico strapieno di Goffredi (il nostro era il quinto), un grande feudo in Lorena (Francia) e una salda devozione per l’impero, allora impegnato in quel duro braccio di ferro con il papato che va sotto il nome di “lotta per le investiture“, però suo zio Goffredo lV detto il gobbo aveva sposato Matilde di Canossa, supporter del papa.

Quel matrimonio politicamente spurio era finito malissimo

Prima lei aveva lasciato lui, poi lui aveva fatto oggetto lei di un cocciuto stalking, infine narra un antico cronista, Landolfo Seniore da Milano-lei aveva fatto uccidere lui “mentre stava seduto al cesso, infilandogli una spada nell’ano“

Ammazzato in quel modo atroce, il povero zio Goffredo fu trattato male anche da morto, perché l’imperatore Enrico lV, dimenticò dei servigi da lui ricevuti e, col pretesto che il defunto non aveva eredi, ne aveva confiscato il feudo.

Che Goffredo lV non avesse figli era vero

Matilde gli aveva dato solo una bambina, morta in tenerissima età, però lo sfortunato nobiluomo lorenese aveva indicato come suo successore un nipote minorenne, il nostro Godefroy.

Finì che l’imperatore, pur confermando le confische in Lorena, tacitò il giovane erede assegnandogli il titolo di conte (poi duca) e certe terre periferiche del feudo dello zio, tra cui appunto il Lussemburgo belga, Bouillon compresa, obbediente, Godefroy si stabilì lassù e diventò così “di Buglione“

Se le date convenzionali sono giuste, quando zio Goffredo morì (1076) il suo omonimo nipote aveva solo 16 anni e ne aveva 35 quando papa Urbano ll indisse la prima crociata

Era una chiamata alle armi rivolta a tutto il mondo cristiano, ma soprattutto ai francesi, che il pontefice blandiva ed incitava attribuendo loro “insigne gloria nelle armi, grandezza d’animo, agilità di membra“, Godefroy rispose subito all’appello, forse per ardore religioso, forse per opportunismo, forse per vendetta.

L’ipotesi più probabile comunque è la seconda, infatti la lotta per le investiture era ancora in atto, il papa era in netto vantaggio e la dinastia dei Goffredi, già militante nel fronte avverso, doveva rifarsi una verginità agli occhi del probabile futuro vincitore.

Più curiosa è però l’ipotesi numero tre, quella della vendetta

Ad accreditarla è il De liberatione civitatum Orientis, un libretto scritto da un crociato ligure, Caffaro da Caschifellone, il quale narra che Goffredo andò una prima volta a Gerusalemme coperto non con una corazza militare ma con un saio da pellegrino.

In data incerta fra il 1083 e il 1085, si imbarcò a Genova con tale Roberto, conte di Fiandra, su una nave Pomella, fece tappa in Egitto, poi sbarcò in Palestina e salì a piedi a Gerusalemme.

Tutto filò liscio fino all’ingresso del Santo Sepolcro, dove il custode (musulmano) gli chiese il “bisante“ (la tassa d’ingresso che tutti i cristiani pagavano) .

Ma Goffredo non aveva spiccioli “Perché il suo tesoriere che portava il denaro, si era allontanato“

L’intoppo degenerò in alterco, poi in contatto fisico: “Mentre Goffredo richiamava il tesoriere, uno dei guardiani della porta gli sferrò un gran pugno sul collo, il Duca incassò con pazienza l’insulto, ma pregò Dio che prima di morire gli concedesse di vendicare l’offesa con la spada”.

L’aneddoto è vero?

Sull’attendibilità di Caffaro si nutrono molti dubbi, certo è che una volta indetta la crociata il duca di Buillon si mise al lavoro di buona lena.

Diede in pegno al vescovo di Liegi il suo castello, vendette alcune tenute di quello di Verdun, taglieggiò i sudditi ebrei, coinvolse nella colletta altri nobili, poi con il ricavato arruolò un esercito robusto: 12 mila uomini secondo le stime più prudenti, 10 mila cavalieri e 70 mila fanti secondo le più generose.

Non era l’unica armata in partenza per Gerusalemme, ma la più numerosa sì.

I crociati di Godefroy partirono nell’agosto 109

Il loro capo aveva il physique du role, ”Un grande cavaliere dai capelli lunghi e dalla barba bionda“ lo descrive, sulla scorta di fonti musulmane, lo storico franco-libanese Amin Maalouf, autore del best-seller Le crociate viste dagli arabi .

Ma in realtà Goffredo era capo fino ad un certo punto

Al comando dell’armata c’era un un triumvirato formato da lui e dai suoi fratelli Eustachio e Baldovino.

Eustachio era una figura scialba, defilata che aspettava solo di tornare a casa, come un soldato a fine naja, gli altri,invece, si facevano notare, ma per motivi diversi.

I due fratelli presentavano un contrasto forte, ha scritto uno dei più famosi storici delle Crociate, l’inglese Steven Runciman

Baldovino era ancor più alto di Gofferdo, era scuro quanto l’altro era biondo, ma di carnagione molto chiara. Goffredo era gentile nei modi, Baldovino arrogante e freddo, Goffredo era di gusti semplici, Baldovino pur potendo sopportare privazioni, amava il lusso, Goffredo era casto, Baldovino indulgeva ai piaceri del sesso

Steven Runciman, A History of the Crusades: Volume 1, The First Crusade and the Foundation of the Kingdom of Jerusalem (Cambridge University Press 1951)

La colonna dei tre fratelli seguì per un tratto il Danubio, puntando poi su Costantinopoli

Quasi tutti i crociai raggiunsero la Terrasanta via Italia, con imbarco a Brindisi. Invece la colonna dei tre fratelli seguì per un tratto il Danubio, puntando poi su Costantinopoli.

La  scelta creò qualche problema con ungheresi e bizantini.

Cristianissimi entrambi, Colomanno, re d’Ungheria, per concedere il transito pose condizioni-capestro: “chiese che gli fosse dato in ostaggio Baldovino, fratello del capo con la moglie e la famiglia“ narra Alberto di Aquisgrana, un prelato coevo, autore di una Historia hierosolymitanae expeditionis.

Goffredo non fece una piega

Consegnò il fratello (recalcitrante) e attraversò l’Ungheria senza incidenti, gli andò peggio più avanti, nella Tracia Bizantina, dove in assenza di ostaggi il controllo della truppa sfuggì di mano ai capi della spedizione:

tutta quella terra” racconta il solito Alberto “fu data in preda ai pellegrini e ai soldati in arrivo, che per otto giorni vi fecero tappa e saccheggiarono tutta la regione“

Con questo prologo, ben si capisce che poi i rapporti tra Goffredo e l’imperatore bizantino Alessio non furono mai più cordiali.

Una volta arrivati a Costantinopoli, i crociati furono costretti ad accamparsi fuori città e Alessio intimò a Goffredo di giurargli fedeltà.

Il duca rifiutò, l’imperatore reagì tagliando i rifornimenti ai crociati

In breve tutto precipitò, il duca rifiutò, l’imperatore reagì tagliando i rifornimenti ai crociati e, mentre il prode Godefroy non sapeva più che pesci pigliare, suo fratello Baldovino risolse il problema a modo suo, facendo provviste a suon di rapine nei sobborghi della capitale.

Il braccio di ferro costò diversi morti e durò circa dal Natale 1096 alla Pasqua 1097, infine Goffredo cedette e si sottomise.

Poi a Costantinopoli giunsero altri crociati, imbarcati a Brindisi e lo scenario mutò radicalmente

Il vero capo della spedizione divenne Boemondo d’Altavilla, duca normanno-pugliese, che evitò inutili prove di forza con Alessio.

Anzi, gli promise che tutte le terre conquistate ai musulmani sarebbero state consegnate all’Impero.

Seguì il passaggio del Bosforo (26 aprile 1097) e la lenta calata verso sud-est attraverso l’Anatolia, dove finalmente i crociati smisero di far guerra ad altri cristiani e si scontrarono con i loro nemici naturali, i turchi.

La figuraccia politica che Goffredo aveva fatto a Costantinopoli non fu riscattata sul piano militare

Alla prima operazione di rilievo, l’ assedio di Nicea , il “Duca di Buglione“ si limitò a presidiare un tratto di mura, senza partecipare ai violenti scontri con un’armata turca giunta in aiuto agli assediati.

Il peso della battaglia gravò tutto su altri due comandanti, Roberto di Fiandra e Raimondo di Tolosa.

In quei giorni Goffredo sostenne da solo un duello con un nemico anomalo: Un orso

A narrare l’aneddoto è sempre Alberto di Aquisgrana.

L’orso assalì un pellegrino addetto alle salmerie, ma il duca “afferrata subito la spada e spronato con forza il cavallo” accorse in aiuto al poveretto, mise in fuga l’orribile fiera e la inseguì nei boschi.

Vistosi braccato, l’orso si fermò, abbatté il cavallo del duca, e poi, eretto sulle gambe posteriori, prese a unghiate il nostro eroe.

Benché ferito e atterrato, “dispiacendogli l’idea di morire di morte vile per opera di un animale sanguinario“ reagì e trafisse l’orso nel fianco destro.

Orsi a parte, le prime vere due battaglie che Goffredo sostenne furono nel 1098 ad Antiochia (oggi Antakya, nel sud della Turchia)

Una fu in attacco per prendere la città, l’altra in difesa, per respingere un contropiede nemico.

In entrambe i casi il primattore fu però il pugliese Boemondo, che secondo Caffaro di Caschifellone “Uccise tutti i turchi assassini e li mandò così a patire le pene dell’inferno insieme a Maometto“.

Stavolta anche Goffredo combatteva sul camp, ma come (relativo) comprimario, dirigeva tre schiere di fanti su sette.

Solo il 7 giugno 1099 il Duca di Buglione arrivò in vista di Gerusalemme

Meta prefissata della spedizione da lui fortemente voluta e meno saldamente guidata.

Schierò i suoi uomini all’angolo nord-ovest della città, mentre gli altri comandanti occupavano i lati nord, sud e ovest. Il lato est rimase libero per carenza di truppe.

Un primo assalto alla città scattò il 12 giugno, preceduto da un pellegrinaggio al Gestsemani, l’Orto degli ulivi dove per i Vangeli era iniziata la passione di Gesù.

Ma nonostante le preghiere nell’Orto, l’attacco si risolse in un flop.

A salvare la situazione furono un’eclissi di Luna, l’apparizione di un morto e l’arrivo nel porto di Giaffa di due navi genovesi.

L’eclissi fu interpretata come un segnale premonitore della prossima fine della mezzaluna musulmana, il morto si chiamava Ademaro di Monteil, era un vescovo francese bellicoso e carismatico, che aveva guidato un contingente crociato fino ad Antiochia, dove poi era morto di tifo.

Ebbene il 6 luglio un prete, tale Pietro Desiderio, disse di aver visto il fantasma di Aldemaro, che incitava ad un nuovo attacco.

La notizia risollevò il morale delle truppe, ma un effetto ancor più positivo ebbe l’arrivo delle navi genovesi, che furono subito smontate e trasferite a pezzi sotto le mura di Gerusalemme.

Il legname ricavato servì per costruire due torri mobili (una per Raimondo, una per Goffredo), da usare nell’assalto finale, che iniziò la notte sul 14 luglio con un finto attacco diversivo nel settore nord-ovest ( quello di Goffredo), e due attacchi veri altrove.

L’obiettivo principale era riempire il fossato per consentire alle torre mobili di accostarsi alle mura

L’operazione riuscì per prima lasera del 14, alla torre di Raimondo, che però finì bruciata.

Quella di Goffredo arrivò la mattina del 15 e quando i crociati cominciarono a scavalcare le mura, i primi a salire furono due cavalieri fiamminghi che i libri di storia hanno dimenticato: Litoldo e Giberto di Turnai.

Il duca di Bouillon fu tra i primi a seguirli, ma si fermò sugli spalti, lasciando che a guidare l’occupazione della città fosse un ardito nipote di Boemondo: Tancredi d’Altavilla, futuro principe di Galilea, all’epoca 27enne.

Seguirono giorni da incubo “la popolazione della Città Santa“ scrisse lo storico curdo Ibn al-Athir “fu passata a fil di spada e i franchi massacrarono i musulmani per una settimana“.

La liberazione diventò una Kermesse di macellai, che oscurò per ferocia altre barbarie precedenti

Quando non ci fu più nulla da predare e nessuno da ammazzare, i crociati si posero il problema di dare a Gerusalemme un re cristiano.

Ma i candidati non erano molti, Ademaro, vescovo carismatico, che avrebbe potuto governare in nome del papa, era morto.

Boemondo, vero capo della crociata, si era già sistemato come principe di Antiochia: idem per Baldovino, autoproclamatosi conte di Edessa: Eustachio aveva già pronti i bagagli per tornare a casa: Roberto di Fiandra pure.

Restarono in lizza solo due “papabili“, Raimondo di Tolosa e Goffredo

Il primo però rifiutò, così quel finto capo, grande organizzatore ma cattivo politico e mediocre soldato, divenne sovrano di Gerusalemme, anche se in un sussulto di decenza rifiutò il titolo di Re e scelse quello di difensore del Santo Sepolcro.

Governò un anno, poi si spense e il Regno di Gerusalemme passò a suo fratello Baldovino, come era scritto dal destino.

Note

Bibliografia

  • Le Crociate viste dagli Arabi (Les Croisades vues par les Arabes, 1983), trad. di Z. Moshiri Coppo, Torino, Società Editrice Internazionale, 1989, ISBN 978-88-050-5050-5
  • A History of the Crusades: Volume 1, The First Crusade and the Foundation of the Kingdom of Jerusalem (Cambridge University Press 1951)
  • Alberto di Aquisgrana, Historia Hierosolymitanæ Expeditionis, XII secolo
  • Ali Ibn al-Athir, al-Kāmil fī l-taʾrīkh (“La Storia Completa”, in arabo: الكامل في التاريخ ), 1231 d.C. circa

La DISCIPLINA marziale di BRUCE LEE basata sull’ATTACCO

Bruce Lee descrisse il JKD come un sistema di difesa offensiva

A differenza di molte arti marziali, il jeet kun do è centrato più sull’attacco che sulla difesa.

Mentre molte arti marziali si concentrano sul difendere un attacco con qualche tipo di blocco seguito da un colpo particolare, Bruce Lee credeva che, se ci si concentrava sul blocco, il colpo del difensore era troppo passivo e, per quanto rapido fosse, lo spazio di tempo tra il blocco e il colpo lasciava tempo all’attaccante per fare un’opposizione alla difesa dell’avversario.

Chiamò questo metodo “difesa passiva“, come vedremo poi, una delle cinque forme di attacco del JKD, l’attacco progressivo indiretto utilizza la difesa passiva dell’avversario, investigando su diverse arti marziali Bruce Lee incappò in alcuni principi della scherma occidentale.

Nella scherma occidentale, il metodo di difesa più efficace era il colpo fermato

Il praticante cerca l’attacco del suo avversario e lo intercetta con il suo stesso attacco, perché funzioni, dobbiamo controllare la distanza, in modo che l’avversario debba fare un passo in avanti per raggiungerci con la spada.

Questo offre il tempo al difensore per contrattaccare con il suo colpo, prima che l’attaccante trovi il momento per colpire, il passo avanti si chiama preparazione, lo “stop hit“ può essere eseguito quando l’attaccante sta facendo il passo avanti e si chiama “attacco in preparazione“ o quando sta eseguendo la stoccata con la sua spada, gesto che si chiama “attacco in slancio“ .

Bruce Lee si rese conto che se avesse messo la sua mano forte davanti e l’avesse utilizzata come uno schermitore usa la  spada, avrebbe ottenuto il metodo di difesa più efficace, come in uno “stop hit“ si intercetta l’attacco, Bruce Lee chiamò questa nuova arte “Jeet Kun Do“, che significa “la via del pugno intercettatore“.

Questa nuova arte si formò principalmente a partire dalla scherma occidentale, del pugilato occidentale e del Wing Chung Kung Fu, oltre allo stop hit, Bruce Lee aggiunse anche uno “stop Kick“ alla difesa basilare del JKD, che utilizza l’arma più lunga per il bersaglio più vicino, come metodo basilare d’attacco,l’arma più lunga è il calcio laterale e il bersaglio più vicino è il mento dell’avversario, mentre fa il passo avanti per attaccare, Bruce Lee scoprì che quando un avversario attacca, lascia un vuoto nel quale possiamo approfittare.

Utilizzando ancora una volta la teoria della scherma, trovò le cinque forme basilari per realizzare un attacco, non tutte le forme funzionano con tutti gli avversari e l’allievo deve imparare quali funzionano con ogni tipo di avversario.

La prima forma è l’attacco semplice diretto SDA (Single Direct Attack),

L’ SDA è esattamente ciò che suggerisce il suo nome, è un attacco semplice, con un’arma che arriva al bersaglio in linea retta, il pericolo di questo attacco sta nel fatto che, affinché funzioni, è necessario essere molto più rapidi dell’avversario o sorprenderlo in un momento di squilibrio.

Bisogna ricordare che se facciamo un passo avanti per dare un pugno, l’avversario potrà contrattaccare facilmente con un stop kick sulla nostra gamba avanti, un’altra versione dell’SDA è l’attacco semplice angolare SAA (Single Angular Attack), la differenza sta nel fatto che, anziché essere diritto, si tratta di un angolo, la cosa che può rendere il nostro attacco più facile da intercettare, entrambi gli attacchi possono essere utilizzati come contrattacco.

La seconda delle cinque forme è l’attacco in combinazione ABC (Attack By Combination)

In questo attacco si combinano vari strumenti, per esempio, si può colpire con un pugno diretto e poi continuare con un altro pugno o calcio, di solito l’ABC inizia con un SDA e si applica la combinazione solo se è necessaria per finire l’avversario.

Si intercetta il ginocchio dell’avversario con un calcio laterale e si continua con un jab di dita agli occhi, di solito un ABC è la continuazione di un SDA che è stato schivato o a una tattica per continuare a colpire l’avversario fino a quando non cede.

L’ABC può essere fatto ad un ritmo regolare o interrotto, fermandosi tra i colpi (colpo-pausa-colpo-pausa), si può anche utilizzare un ritmo interrotto iniziando a colpire lentamente e poi velocemente, il ritmo interrotto è difficile da descrivere a parole e con fotografie statiche, permette all’attaccante di approfittare della tendenza naturale a difendersi da un attacco ad un ritmo stabile, colpendo tra le finte o i blocchi difensivi dell’avversario.

Il terzo metodo di attacco si chiama attacco progressivo indiretto, PIA (Progressive Indirect Attack)

Un attacco indiretto nella terminologia del JKD è quello in cui si minaccia di attaccare in una linea, ma si cambia in un’altra, la minaccia può essere fatta con un piccolo movimento di un’estremità del corpo.

Per esempio, si può abbassare il corpo e fare un piccolo movimento con il braccio frontale, come se si stesse facendo un Jab basso, ma poi colpire con un pugno posteriore alto da sopra la testa, si può anche ingannare con gli occhi, guardando in basso per poi colpire in alto.

La differenza tra una minaccia ed una finta è che per la finta si utilizza un’estremità che si muove verso il bersaglio, facendolo apparire come un bersaglio reale, il suo obiettivo è aprire una linea d’offesa, per esempio, si può iniziare con un calcio all’inguine con la gamba avanti e cambiare improvvisamente in un calcio alto circolare in testa dell’avversario.

Si chiama progressivo perché la finta non si ritira, ma prosegue con un’azione diversa e non attesa, un altro esempio, si finge un pugno diretto basso con la mano anteriore e il difensore abbassa il suo braccio per bloccare, si può cambiare in un pugno alto o in un gancio alto, senza portare il braccio in caricamento.

Il colpo “progredisce“ verso il bersaglio in un movimento continuo

Questo tipo di attacco funziona bene contro chi ha una difesa forte e può bloccare con uno SDA, non funzionerà con chi sa intercettare bene, perché finirà con il colpire qualcuno che fa una finta o una minaccia, è meglio contro chi è abituato a bloccare o è esperto con i calci.

Il quarto metodo di attacco è l’immobilizzazione delle mani HIA (Hand Immobilization Attack), questa immobilizzazione può essere utilizzata per eliminare la barriera di un attacco, per esempio, se qualcuno sta bloccando un attacco di pugno, si può immobilizzare quel braccio ed eliminare la barriera, lasciando libera la linea per poter colpire.

Si può anche evitare un contrattacco

Altro esempio, se si entra e si pesta un piede all’avversario, questi non potrà darci un calcio, la maggior parte della gente tenta di immobilizzare quando sta ricevendo un pugno, lui blocca, noi immobilizziamo quel braccio e colpiamo, lui blocca, noi immobilizziamo il braccio che blocca e, quando abbiamo afferrato le braccia di chi si difende, abbiamo la via libera per colpire. Crediamo che il modo migliore per immobilizzare sia bloccare il pugno di un attaccante quando lo sta portando al bersaglo, o quando lo sta ritirando.

Il quinto ed ultimo metodo di attacco del JKD è l’attacco da induzione ABD (Attack By Drawing), l’offesa da induzione è quello nel quale il difensore finge di lasciare spazio in modo che l’attaccante si avvicini, deve essere fatto in modo sottile e per niente ovvio, per esempio, il difensore lascia il suo braccio arretrato più in basso di quanto dovrebbe essere, l’attaccante può approfittare della linea che è rimasta aperta e tentare di colpire con un gancio alto.

Il difensore può allora contrattaccare con un pugno diretto, l’ABD può essere utilizzato per indurre un attacco preciso o una linea d’attacco, si può così lasciare spazio per un attacco di pugno o di calcio ed approfittare dello spazio che si crea in quell’attacco.

Quando cerchiamo di utilizzare uno qualsiasi dei cinque attacchi con un avversario, dobbiamo ricordare che sono completamente diversi e che potrebbero non funzionare con tutti gli avversari, quello che funziona bene con uno che blocca, o che è un esperto il calci, può non funzionare con uno che ferma i pugni e i calci.

Il miglior attacco in ogni momento dipenderà dalla propria esperienza e dalla capacità di “interpretare“ l’avversario

Bisogna ricordare che, quando attacchiamo, dobbiamo sempre lasciare uno spazio in modo che l’avversario ne approfitti e contrattacchi, ricordiamo inoltre che, quando si va a caccia di un orso, a volte siamo noi a cacciarlo e altre volte è l’orso a cacciare noi.

Note


Krav Maga: Discutiamone assieme

Durante il processo di creazione del Krav Maga, il fondatore Imi Lichtenfeld diceva sempre: “la parte della difesa personale del Krav Maga è adatta a tutti, ma per arrivare a essere un artista del Krav Maga è necessario qualcosa in più“.

Tra le altre cose abbiamo bisogno di provare noi stessi se siamo realmente capaci di fare tecniche diverse

Dobbiamo essere capaci di mettere il nostro avversario fuori combattimento nel modo più rapido ed efficace possibile e per questo abbiamo bisogno soprattutto di determinazione.

Quando il nemico porta qualsiasi tipo di arma, la nostra integrità fisica e la nostra vita saranno in pericolo finché il nostro avversario è in piedi o è capace di realizzare qualsiasi tipo di attacco,un solo movimento, un semplice calcio o pugno.

L’allenamento essenziale consiste nel rafforzare le diverse parti del corpo al massimo, cosa che è già molto,

Gli abitanti dell’isola di Okinawa, per esempio, hanno sviluppato la tecnica di pugno che Imi ha incluso nel programma di Krav Maga, consentitemi di fare un piccolo riepilogo di storia.

Quando i Giapponesi conquistarono l’isola di Okinawa, alcuni secoli fa, i soldati invasori indossavano armature di legno, composte da canne di bambù intrecciate tra loro, questa era la miglior difesa che la tecnologia di quell’epoca poteva offrire, in risposta a questo gli abitanti dell’isola si allenavano in segreto colpendo pietre e pezzi di legno per rafforzare le nocche dei pugni il più possibile.

Volevano essere in grado di penetrare l’armatura rompendola con un solo colpo e, normalmente, uccidevano il soldato con un solo pugno, quando Imi decise che fosse arrivato il momento di insegnare la tecnica, ha fatto le lezioni  appendendosi un pettorale di legno (all’altezza del petto), composto di tavole forti e dure, diceva di mettersi di fronte a lui ed iniziare a colpirlo ripetutamente con i pugni, così disse

“Rafforzerete le nocche dei pugni finché non sarete in grado di mettere KO il vostro avversario con un solo colpo. La vostra capacità di colpo crescerà lezione dopo lezione, sentirete che la vostra capacità di rompere cose, migliorerà e comprenderete il vero potenziale dei vostri colpi, saprete esattamente  quello di cui sarete capaci di fare e, sia voi sia i vostri futuri allievi raggiungerete un altissimo grado di fiducia in voi stessi “.

In una lotta reale, abbiamo solo un’opportunità di colpire ed è meglio essere capaci di mettere KO l’avversario con un unico colpo

Questa è una delle cose più importanti, in fin dei conti quasi tutti acquistiamo più autostima e, in una lotta reale, abbiamo solo un’opportunità di colpire ed è meglio essere capaci di mettere KO l’avversario con un unico colpo, ”e soprattutto ripeteva centinaia di volte, non dimenticate che il maestro deve dare e deve essere un esempio in tutto“

È molto facile colpire mattoni e pietre perché non restituiscono mai il colpo “, diceva sempre Imi, con un sorriso, “ma, se non lo facciamo non ci rafforzeremo, dobbiamo fare tutto con determinazione per superare i nostri avversari“.

“Quando impariamo a colpire una superficie dura con i nostri pugni , non solo li rendiamo più forti, spiegava Imi, ma creiamo un condizionamento nella nostra mente“.

Questo significava che, dopo alcune migliaia di colpi con le nocche a una tavola o a una superficie dura, questa azione si sarebbe trasformata in parte integrante dei nostri pensieri e che avremmo colpito sempre l’obiettivo istintivamente con le due ossa corrette,queste due nocche con le quali diamo i colpi di pugno, sono l’unico punto della mano che possiamo rafforzare, così come lavoriamo con i grandi muscoli della parte esterna della mano, con i quali facciamo il colpo di pugno a martello.

Imi ha insegnato come, usando i movimenti bio-meccanici appropriati e la posizione corretta, possiamo incrementare la potenza ed eliminare un nemico con un solo colpo

Anche se questi colpi non hanno la stessa forza dei pugni, Imi ha insegnato e spiegato come, usando i movimenti bio-meccanici appropriati e la posizione corretta, possiamo incrementare la potenza ed eliminare un nemico con un solo colpo, i nostri muscoli possono funzionare nella loro regolare intensità quotidiana, tuttavia, in un momento di pericolo, come allievi o artisti di Krav Maga dobbiamo sapere come farli funzionare in accordo con quei principi biomeccanici che ci permettono di raggiungere il nostro massimo potenziale.

Tuttavia se, al momento di colpire, le parti del nostro corpo non fossero pronte, potremmo provocare un danno a noi stessi anziché al nostro avversario (o avversari), per questo è così importante preparare e rafforzare le parti del nostro corpo, Quando si arriva ad un certo livello si impara a difendersi dai coltelli, pistola, bastone e fucile, è allora che il rafforzamento corporale si testa.

Imi diceva sempre che il Krav Maga come arte marziale include conoscenze sia teoriche che pratiche

Ognuno può allenarsi e insegnare il Krav Maga come meglio crede, ma solo se si insegnano tutti i segreti e i piccoli dettagli di questa arte in modo pieno e completo si fornirà al praticante la forza reale e il potenziale che sono nascosti nella creazione originale da Imi.

Il rafforzamento del nostro corpo non termina con il rafforzamento aggressivo delle nostre ossa colpendo pietre e pezzi di legno e altri allenamenti eccezionali, dobbiamo preparare ogni muscolo del nostro corpo, alcune ossa forti devono fare affidamento su muscoli forti, per esempio, facendo flessioni sulla punta delle dita, rafforzeremo il palmo della mano e lo trasformeremo in un’arma mortale e non sarebbe un’esagerazione confrontare il colpo di una persona ben allenata con il colpo di un’ascia.

Sensei Rotem fa flessioni sulle punte delle dita, rafforzando le sue dita fino al punto di essere capace di penetrare nello stomaco di qualsiasi avversario con un semplice ma deciso colpo, neutralizzandolo immediatamente, il colpo con le dita diventa anche più letale quando va indirizzato al collo, un movimento che probabilmente finirà l’avversario.

Imi spiegava sempre “il Krav Maga è un’arte marziale senza nessun tipo di violenza, noi ci difendiamo solo, ma chi tenta di attaccarci ne pagherà le conseguenze”

Questo è lo spirito del Krav Maga, che lo ha trasformato nella più letale e popolare delle arti marziali, chi voglia familiarizzare con il cammino originale di Imi e comprendere l’eccezionale spirito di lotta e sopravvivenza del popolo israeliano, deve seguire il percorso completo del Krav Maga, Imi ha costruito il suo Krav Maga come se fosse una cipolla, uno strato sopra l’altro e dobbiamo togliere ogni strato, uno dopo l’altro fino a trovare il nucleo.

Saltare una fase non ci porterà da nessuna parte, perderci una tecnica ci renderà incapaci ad imparare tecniche più difficili in futuro, per questo si da molta importanza a continuare a insegnare le tecniche di rafforzamento, per essere capaci di colpire l’avversario e finirlo, questa è la nostra autostima, questa è la nostra capacità di sopravvivenza per strada, non c’è altro modo.

Oggi si parla di “punti mortali, punti vitali“, questo significa che ci sono punti nel corpo che, quando sono colpiti, provocano la morte di chi riceve il colpo, Imi non ha mai parlato di questo per quanto riguarda il Krav Maga ma, quando qualcuno glielo chiese, la sua reazione fu di guardare con compassione la persona che gli aveva fatto la domanda, probabilmente ancora non c’era la conoscenza che c’è oggi sui predetti punti, i tempi erano diversi come sono oggi diverse le modalità per rafforzare le parti del corpo che colpiscono, ma la sua concezione era quella quindi proseguo dicendo che Imi diceva che ci si deve allenare sempre fino ad arrivare al punto di essere capaci di neutralizzare il nostro avversario in modo immediato in una lotta per strada e per questo probabilmente pensava che fosse essenziale allenarsi colpendo pietre e legno.

Per la strada non troveremo un avversario stupido

Non ci aiuterà a cercare i punti che vogliamo colpire, anche il nostro nemico sa come lottare, per questo dobbiamo essere capaci per essere sicuri di poter battere l’avversario colpendolo in qualsiasi parte del corpo, Imi spiegava: il nostro avversario è migliore di noi , solo quando lo avremo sconfitto saremo migliore di lui Il principio di difesa personale che Imi ha incluso nel Krav Maga, si applica perfettamente nella serie di difese, qui impariamo a difenderci da complesse tecniche di attacco dei nostri avversari, che  combinano pugni e calci simultanei.

Possiamo usare anche la tecnica segreta che Imi ha chiamato “Lehikanes“, la determinazione di andare all’interno. Questa tecnica nasconde tutti i segreti e la forza del popolo israeliano e del Krav Maga.

Note


Storia delle Arti Marziali

Nan-in, un maestro giapponese dell’epoca Meji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.

Nan-in servì il te, colmò la tazza del suo ospite e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè dalla tazza, poi non riuscendo più a contenersi disse “È ricolma, non ne entra più!” 

Come questa tazza disse Nan-in, tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture, come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?

Chiunque si cimenti nella storia delle arti marziali, rimarrà deluso, poiché non esistono documenti e nemmeno date certe sulla loro nascita e sul loro sviluppo

Sicuramente quello che oggi intendiamo come “Arti Marziali“, deriva dall’Oriente e ha nulla o poco a che vedere con i Greci ed il loro combattimento chiamato Pancrazio, che finiva quasi sempre con la morte dello sconfitto. E nemmeno con i gladiatori Romani, dove il combattimento si trasformò in spettacolo.

Pur se tutti si addestravano in scuole speciali, le arti marziali propriamente dette derivano da un elemento comune e fondamentale, dalla tradizione religiosa e medica, cioè dall’uso calcolato della respirazione per acquistare forza, calma e potenza.

Inoltre lo storico si scontra con un aspetto fondamentale dell’Oriente, i maestri di un tempo (ma accade ancora oggi), non rivelavano facilmente il loro sapere e a pochi veniva concesso e tramandato (solo oralmente, dopo un giuramento di segretezza), solo alcune tecniche venivano trascritte su pergamene e consegnate direttamente dal maestro all’allievo.

Quindi non avendo fonti storiche precise, dobbiamo rifarci ai miti e alle leggende e sostenerle con date e avvenimenti storici realmente accaduti. Molti credono che le arti marziali risalgano al Vl secolo d.C. e che si siano sviluppate in Cina.

Ci si basa sulla leggenda di un monaco indiano chiamato BODHIDHARMA, giunto in Cina nel regno dei Wei, nei monti Song Shan, nel tempio di Shao Lin

Questo monaco insegnava un modo nuovo e diretto di approccio al Buddismo, diretto e con lunghe meditazioni (si narra che lui stesso fosse stato in meditazione per nove anni in una caverna).

Per sopportare le lunghe ore di meditazione, insegnò delle tecniche di respirazione e degli esercizi per sviluppare la forza e le capacità di autodifesa.

Da questi insegnamenti è nato il dhyana o “scuola meditativa del Buddismo“ chiamata in Cina Chan ed in Giappone Zen.

Ma la storia ci ha dimostrato che in India e in Cina le arti marziali erano già diffuse prima dell’arrivo del Bodhidharma.

Anche in Cina, come in tutto il mondo, si passò gradualmente da piccoli stati indipendenti ad un’unica nazione.

Logicamente piccoli centri con piccoli eserciti (anche se talvolta l’esito di una guerra era affidato ad un combattimento individuale), successivamente la prosperità portò alla costruzione e alla edificazione di città e centri abitati.

È difficile trovare dei libri che diano indicazioni precise sulle origini delle arti marziali

Vi sono infatti molti dubbi relativi alle fonti, poiché i documenti trovati sono molto incerti e poco chiari in quanto i monaci fondatori, tramandavano verbalmente il loro sapere.

Forse la testimonianza più antica sulle origini delle arti marziali risale al ritrovamento di due statuette babilonesi datate tra il 3000 e il 2000 a.C, che rappresentano la parata, cioè la posizione fondamentale nelle moderne arti marziali.

Altrettanto insicure sono le fonti che testimoniano in Mesopotamia la nascita delle arti marziali

Un luogo che con le sue ricchezze avrebbe avuto la possibilità di mantenere “professionisti “in molti campi, soprattutto i praticanti di arti marziali, in quanto necessitavano di tempo per gli allenamenti e lo studio. Il risultato di queste applicazioni avrebbe portato il praticante di arti marziali a seguire un mercante o un sovrano come guardia del corpo.

Il problema che mette in dubbio una probabile relazione commerciale tra i paesi dell’Asia sarebbe data dall’incredula possibilità dei commercianti di riuscire ad attraversare un continente così vasto.

Ci sono, al contrario delle fonti che testimonierebbero i primi commerci tra la civiltà dell’India settentrionale e la Mesopotamia, verso il 2500 a.C e che, verso il 1300 a.C., in un’area che si estendeva dalla Cina all’Europa, circolava un’ascia di bronzo.

Benché tra India e Mesopotamia si commerciasse già dal 2500 a.c., sembra che gli scambi tra India e Cina si possano far risalire solo al Vl secolo d.C.

Perché fu in quel periodo che i monaci che percorrevano  le vie della seta, iniziarono a fondare templi utilizzati come centri culturali.

L’arte che aveva le radici in Mesopotamia si diffuse in Oriente, dove la Cina e l’India raccolsero le nozioni primitive che trasformarono, fino a culminare in quelle che oggi sono le tecniche più sofisticate che fanno parte dell’arte marziale.

L’arte marziale è il risultato di quello che nel passato fu un uso calcolato della respirazione e di una serie di esercizi combinati, per cercare di sviluppare doti come la forza, la potenza, la calma, unite ad uno spiccato senso religioso.

Nelle scuole, che si identificavano principalmente nei monasteri, la pratica si svolgeva in assoluta segretezza

Perfino le stesse scuole venivano tenute nascoste alle autorità

Il sapere può essere comunicato, ma la sapienza no. Non può essere trovata, ma può essere vissuta

Le tecniche di combattimento non venivano trascritte, ma tramandate verbalmente soltanto a coloro che avevano giurato di mantenere il segreto ed è per questo motivo che si ha difficoltà a recuperare gli scritti.

Se mi accorgo che qualcuno mi guarda con odio, non reagisco. Mi limito a fissarlo negli occhi, avendo cura di non trasmettergli alcuna sensazione d’ira o di pericolo ed il combattimento ancor prima di cominciare è già finito. Il nemico da battere è dentro di noi. Le arti marziali non significano violenza, ma conoscenza di sé stessi e degli altri

In Oriente si presuppone che la differenziazione di questa disciplina avvenne in un periodo compreso tra il V secolo a.C. e il lll secolo d.C.

In questo periodo non si deve fare distinzione tra le arti marziali e la guerra, dato che entrambi hanno a che fare con il combattere.

Prima del 500 a.C. l’attuale Repubblica Popolare Cinese era suddivisa in tante piccole nazioni, dove gli eserciti si trovavano a combattere individualmente, mettendo in pratica ciò che costituisce l’attuale arte marziale.

Gradualmente questi piccoli stati furono annessi a quelli più potenti e il risultato fu uno sviluppo del commercio.

Si crearono nuovi eserciti sempre più addestrati e preparati e anche le armi risultavano più potenti grazie all’utilizzo di acciaio sempre più raffinato e resistente.

Dal 300 a.C. le arti militari si trasformarono in arti marziali grazie allo sviluppo del commercio

Mercanti che dovevano attraversare le campagne colme di fuorilegge, erano obbligati ad assumere “guardie del corpo“ che proteggessero la loro merce, probabilme

Importante è la nascita de Buddismo nel 560 a.C. per opera del principe Gautama Siddharta Buddha in India che ha influenzato in modo radicale le scuole di India, Cina e Giappone.

In India nella seconda metà del l millennio a.C. il grado di specializzazione militare era inferiore rispetto a quello raggiunto in Cina

Il motivo va ricercato nel fatto che qui i combattenti venivano assoldati tra gli aristocratici istruiti e colti che limitavano la pratica dell’arte marziale ad un semplice addestramento generale.

Torniamo alla leggenda del monaco BODHIDARMA

Nel corso del suo pellegrinaggio pare avesse introdotto nel tempio di Sahaolin un metodo basato sull’addestramento relativo alla convinzione che corpo e mente non sono due entità separate ed in contrapposizione tra di loro.

Da questo particolare insegnamento nacque il chan cinese e lo zen giapponese

Se la leggenda corrispondesse alla verità, la figura di BODHIDARMA, avrebbe una doppia importanza in quanto fondatore della lotta Sahaolin e del Buddismo Chan.

Il tempio di Sahaolin fu costruito nel V secolo d.C., dal 528 fu destinato all’alloggiamento delle truppe e bruciò nel 535.

L’arte marziale militare si diffuse grazie all’espansione di religioni quali il taoismo e il buddismo in Cina e lo zen in Giappone.

Si affiancò così alle tecniche di combattimento il concetto di sviluppo spirituale e della salute fisica.

Tra le arti marziali di Cina e India esisteva una relazione molto stretta

Gli stili militari tra Cina e India erano completamente diversi.

Ma tra le arti marziali dei due paesi esisteva una relazione molto stretta.

Per esempio la sequenza dei movimenti di una particolare arte Marziale Indiana, il Kalaripayat, era molto simile a quella del Kung fu praticato ad Hong Kong.

Ci sono alcune fonti che testimonierebbero la nascita delle arti marziali prima ancora dell’arrivo del Grande Maestro.

Secondo Hua Duo, un medico vissuto durante il periodo dei Tre Regni, la tecnica si basava sui movimenti di cinque animali: la tigre, l’orso, la scimmia, la cicogna e il cervo.

La sequenza di questi movimenti sta alla base dell’arte marziale cinese che si pratica attualmente ed è per questo motivo che esistono molte controversie sulla precisa nascita delle arti marziali.

Parallelamente a questo periodo nell’India meridionale si presume tramandassero giá i metodi per colpire i punti vitali dell’avversario (cioè quelli che necessitavano di un solo colpo per abbatterlo).

Ne sono testimonianza i Sastra, gli antichi testi indiani.

Il problema relativo agli scambi culturali tra questi due paesi può essere spiegato se si pensa che a quell’epoca esistevano categorie quali mercanti e monaci diplomatici e la strada che divideva l’India dalla Cina era lunga e pericolosa.

Per questo motivo i mercanti assumevano guardie del corpo ben addestrate che avevano la possibilità di incontrare nuove culture ed evolversi.

Questo successe ancora prima della nascita del BUDDHA. Verso la metà del Vl secolo a.C. quando il Buddismo iniziò a rafforzarsi, i monaci indiani iniziarono a viaggiare.

La prima comunità buddista insediatasi in Cina risale al 65 d.C.

Da questo momento iniziò un’invasione della cultura Indiana in quella Cinese  alla ricerca dei luoghi santi.

È impossibile stabilire con precisione se le arti marziali siano nate prima in Cina o in India

È sicuro che entrambe presentano una stretta relazione con le arti marziali attuali.

Inoltre, le dottrine del Buddismo, Confucianesimo e Taoismo sono alla base delle tradizioni delle arti marziali che hanno coinvolto tutta l’Asia. Dal lll secolo d.C.

Le arti marziali hanno subito un arricchimento sia dal punto di vista tecnico che filosofico a fianco della religione Buddista.

Sono tante le arti marziali che possiamo distinguere oggi. Tale diversificazione è stata determinata dal coinvolgimento di paesi come la Corea, il Giappone ed il sud-est Asiatico.

Il Giappone è il paese che più di tutti ha subito l’influenza della cultura Cinese

Si può affermare che il Giappone è il paese che più di tutti ha subito l’influenza della cultura Cinese.

Attualmente vanta il maggior numero di praticanti in rapporto alla popolazione e la maggior varietà di discipline.

L’Occidente benché avesse avuto fin dal 1400 dei rapporti con l’Oriente, non si avvicinò alla pratica della arti marziali.

Questo perché i Maestri erano molto gelosi delle loro conoscenze e, inoltre, non vedevano positivamente la presenza di questi  “stranieri“

Fu solo nel 1900 che il judo e altre arti marziali vennero importati in Occidente.

L’interesse crebbe sino al 1945 in corrispondenza della seconda guerra mondiale. Molti soldati occidentali che si trovavano in Giappone infatti studiarono le arti marziali che poi insegnarono e diffusero.

Minor successo ebbero, invece, le discipline cinesi anche per la segretezza predetta.

Note


Taiji Kase: Il X dan Maestro karate Shotokan

Taiji Kase è stato un Karateka e maestro di Karate giapponese

Fu uno dei maestri più preparati e più conosciuti nell’ambito del Karate, considerato come uno dei combattenti migliori ed esecutori di Kata grazie alla sua abilità tecnica, alla sua esplosiva velocità e alla sua potenza.

Nel 2000 gli fu conferito il grado di 10° Dan, a conferma del suo immenso valore

Inizia la pratica delle arti marziali a soli sei anni, il maestro Kase tuttavia, non inizia con la pratica del Karate, ma con lo judo, è all’età di quindici anni che inizia a praticare il Karate alla scuola Shotokan di Tokio.

È stato allievo diretto dei Maestri Gichin e Yoshitaka Funakoshi fa la sua comparsa sulla scena Europea nel 1965, inviato con altri giovani Maestri nel continente dalla Japan Karate Association e da quel momento, se si escludono i brevi periodi del soggiorno Belga, è sempre vissuto a Parigi.

In Europa viene subito apprezzato per le qualità sia umane che prettamente tecniche.

Ciò che sorprendeva in lui era l’atteggiamento pacato e la disponibilità che dimostrava in ogni occasione con i suoi allievi, sia che si trattasse di campioni di alto grado o semplici cinture nere.


Nasce il 9 febbraio 1929 a Chiba, in Giappone, e inizia la pratica delle arti marziali a soli sei anni. Il maestro Kase tuttavia, non inizia con la pratica del Karate, ma con lo Jūdō.

È all’età di quindici anni che inizia a praticare il Karate alla scuola Shotokan di Tokyo. È stato allievo diretto dei maestri Gichin e Yoshitaka Funakoshi.

Il maestro Kase fa la sua comparsa sulla scena europea nel 1965.

Fu inviato con altri giovani maestri nel continente dalla Japan Karate Association. Da quel momento, se si escludono i brevi periodi del soggiorno belga, è sempre vissuto a Parigi.

In Europa viene subito apprezzato per le qualità sia umane che prettamente tecniche

Ciò che sorprendeva in lui era l’atteggiamento pacato e la disponibilità che dimostrava in ogni occasione con i suoi allievi. Sia che si trattasse di campioni di alto grado o “semplici” cinture nere.

La caratteristica principale del suo insegnamento è quella di separare completamente la pratica sportiva dal Karate-dō.

Il Karate-dō è una via, un percorso di formazione e crescita che il maestro Kase intendeva insegnare secondo i precetti del suo maestro e fondatore del Karate Gichin Funakoshi. Era l’incarnazione dello spirito del Karate-dō al quale ha dedicato tutta la sua vita e tutto sé stesso.

Nel 1989 fonda la W.K.S.A. (World Karate Shotokan Academy) oggi S.R.K.H.I.A. (Shotokan Ryu Kase Ha Instructor Academy), l’Accademia che si propone di unire praticanti di diversi paesi che seguendo il suo programma di insegnamento si impegnano a diffondere la vera essenza del Karate-dō Shotokan.

Era di casa anche in Italia, invitato spesso dal maestro Hiroshi Shirai per condurre al suo fianco stage e seminari.

Tutti gli appassionati ricordano le dimostrazioni dei grandi maestri giapponesi al Palalido di Milano, nelle quali il Maestro Taiji Kase era sempre fra le più acclamate punte di diamante.

Durante la permanenza in Francia, ha scritto vari libri sulle arti marziali, tra i quali 5 Heian:

  • Katas, Karaté, Shotokan (1974);
  • 18 kata supérieurs: Karate-dô Shôtôkan Ryû (1982);
  • Karaté-dô kata: 5-Heian, 2-Tekki (1983).

Per i suoi atleti è l’espressione più alta del Karate Tradizionale

Sono la rettitudine del suo comportamento, la sua lealtà e la profonda umanità che erano proprie di questo grande Sensei che lo fanno apprezzare da tutti i praticanti di Karate e non solo. Al di là dei diversi stili e delle singole federazioni.

Note


Mastro Fiore dei Liberi, maestro di Scrimia del XVI secolo

Se vuoi conoscere l’arte di combattere, porta con te tutto ciò che hai trovato negli insegnamenti, sii audace e non mostrarti vecchio nell’animo. Nessun timore vi sia nella tua mente, stai in guardia, puoi farcela!

Fiore de’ Liberi da Premariacco, figlio di Benedetto De Liberi nacque tra il 1345  ed il 1350 a Premariacco, comune a cinque chilometri da Cividale e a 15 da Udine.

Venne mandato sin da giovanissimo a frequentare le scuole di “Lettere umane“ e, data l’indole vivace, lo ritroviamo allievo alle scuole d’armi presenti in gran numero sul territorio friulano.

La giovanissima età per l’avvio alla carriera marziale era una consuetudine per quei tempi.

Mastro Fiore crebbe dunque in quella fucina di grande tradizione marziale

Se si pensa che il famoso condottiero Jacopo Del Verme ebbe il suo primo combattimento a 16 anni. Mastro Fiore crebbe dunque in quella fucina di grande tradizione marziale per uomini e armi, che in Italia dall’anno Mille era conosciuta con i nomi di Scrirm, Scrama, Scrima e Scrimia.

Spinto dal desiderio di sapere, il giovane friulano si mosse in lungo e in largo in terra padana e oltre le Alpi.

Cercava i migliori insegnanti dai quali apprendere i segreti dell’arte

La sua sete di conoscenza era enorme e per parecchi anni non ebbe sosta.

Ebbe due precettori tedeschi, Giovanni Lo Svevo e Nicolò da Toblem e diversi Maestri Italiani.

La reputazione di uomo d’armi se la conquistò sul campo di battaglia, nelle giostre e nei tornei in cui erano frequenti i duelli in armatura.

La sua fama di Maestro crebbe e il prestigio che si era guadagnato esigeva comunque un prezzo

Dovette infatti difendere il suo nome contro l’invidia in cinque terribili sfide lanciate da altrettanti “ Magistri Scrimidori.

Duelli mortali con spade affilate, senza alcuna parte d’armatura, se non un giacchetto di stoffa e un paio di guanti di pelle.

Duelli crudeli lontano da giudici e amici, in cui la sola regola era ferire mortalmente l’avversario.

Fiore per sopravvivere fece unicamente affidamento su se stesso, sulla sua conoscenza dell’arte, sulla sua spada e su Dio.

Uscire vincente da queste sfide portò altra gloria al Maestro friulano

La sua abilità e il suo sapere attirarono nella sua scuola molti uomini d’armi italiani e tedeschi.

Tra questi molti erano nobili e cavalieri, uomini d’arme e capitani di ventura, avvezzi tanto al campo di battaglia che al duello in steccato con ogni sorta d’arma.

Formati e forgiati all’arte di combattere erano tutti dotati di grande forza, destrezza e conoscenze tecniche superiori alla media.

Alcuni di questi si divertivano a dar prova della loro abilità come fendere con un sol colpo di spada una “mezena” di bue, salire rapidamente scale e pertiche con la sola forza delle braccia, eseguire verticali sui tavoli, eseguire piroette con indosso l’armatura, oppure abbattere al suolo un cavallo afferrandone il morso con una mano.

Alcuni di questi divennero per Mastro Fiore dei “figlioli“ dunque allievi prediletti

Giunto alla soglia dei sessant’anni fu chiamato per svolgere il ruolo di Maestro e precettore del giovane Marchese Nicolò III D’Este.

A corte istruì il giovane e nobile Signore di Ferrara e Rovigo nell’arte di combattere e armeggiare in armi et sine armis e si prodigò a dettare il suo sapere nel prezioso manoscritto FLOS DUELLATORUM.

Quanto ci è stato tramandato da Mastro Fiore è senza dubbio racchiuso nelle sue tre importantissime opere manoscritte, una delle quali datata 10 febbraio 1409

Apprendiamo dalle pagine di pergamena, vergate dalle mani di abili miniatori, che Fiore dopo quarant’anni di pratica e studio dell’arte non si riteneva ancora “ben perfeto magistro“.

Da uomo saggio e previdente, sapeva che sarebbe stata un’impresa tramandare di generazione in generazione anche solo la “quarta parte dell’arte“ senza trascriverne e fissarne i dettami tecnici su carta.

Ritenne così suo compito, come del resto fecero altri Maestri dell’arte , “farne memoria“ con un’opera scritta.

Tramandare in forma integra i segreti della “marcial virtud“ era l’azione più degna per un Maestro

Fiore, ormai anziano, vedeva questo come uno splendido atto finale a sigillo della sua carriera.

A rendere questo suo obbiettivo possibile fu il “Principo Misser Nicolò Marchese da Este”.

Quel Nicolò III per il quale venne chiamato come Maestro alla Corte di Ferrara.

Nicolò allievo brillante del vecchio Maestro ne raccolse l’eredità marziale

Tanto si sentì in debito verso il suo anziano Mentore e tanto ne reputò sublime la conoscenza dell’arte da mettergli a disposizione scrivani e disegnatori di corte per dare vita all’opera finale il “Fior di Battaglia“ sulle conoscenze marziali dell’arte di Scrimia medioevale.

E in questo clima favorevole che Fiore crea e ordina il suo manoscritto, circondato da validi miniatori e altrettanto validi disegnatori, malgrado lui vanti oltre a conoscenze alchemico-erboristiche e metallurgiche, insospettate doti di scrittore e disegnatore provetto.

Si colgono nelle parole del Maestro un senso di profonda soddisfazione per questa sua fatica

La più grande impresa della sua vita, un premio che superava di gran lunga la vittoria in una giostra, la salvezza in battaglia, o la sconfitta di un avversario in un duello mortale.

E in questo modo Fiore, come molti Maestri italiani ed europei, tutelò la propria scuola rendendola insensibile al tempo e ai capricci dei vanitosi, fissandone su carta concetti, principi e tecniche dalle fondamentali alle avanzate.

Grazie alla sua profonda conoscenza dell’arte, il Maestro illustra un interessantissimo sistema di relazioni tra attaccante e difensore, un modello didattico ineccepibile, con passaggi collegati e ruotanti sul sistema a tre eventualità, che vede l’azione e la sua contraria sviluppate fino alla contra-contraria.

Un sistema così sviluppato determina un vero e proprio programma articolato in una vasta gamma di tecniche e connessioni anche tra materie diverse come la lotta senza armi, il combattimento di daga e l’arte della spada.

Attraverso questo lascito e a distanza di sette secoli, Maestro Fiore può ancora trasmettere agli allievi del III millennio, il sapere marziale nella sua forma autentica ed integrale.

Una volta che decriptarono il sistema, attraverso opportuni passaggi non casuali, l’immenso patrimonio di tecniche, strategie ed azioni, diventa disponibile e la bellezza dell’arte di Scrimia si apre in tutta la sua forza marziale.

Note