Per quanto strano possa sembrare, nessuno è in grado di precisare le origini del seppuku; questa forma atroce di suicidio.

Ma il seppuku (lettura più colta dei due ideogrammi di harakiri, “ventre – taglio“) divenne col tempo il modo di morire in quattro situazioni diverse.

Era l’ultimo rifugio per evitare un’indicibile disgrazia come quella di cadere nelle mani del nemico.

Poteva essere effettuato come JUNSHI, suicidio alla morte del proprio signore, oppure essere l’ultima risorsa per contestare un superiore di cui non si approvava il comportamento. Infine poteva essere la sentenza capitale imposta a un guerriero dalle autorità.

Lo HARAKIRI, detto anche seppuku, era naturalmente prerogativa della classe samuraica

A monaci, contadini, artigiani e mercanti non era concesso darsi questo tipo di morte.

Un nobile della corte di Kyoto, ad esempio, avrebbe preso il veleno, ciò sta a significare che lo harakiri fu scelto perché principalmente era la dimostrazione di un coraggio quasi sovrumano, qualità che insieme alla lealtà era la somma, indispensabile virtù del Samurai.

Per usare le parole di uno storico:

la scelta di tale estrema sofferenza fu senza dubbio correlata all’idea che era obbligatorio per i membri dell’elitaria classe marziale mostrare il proprio eccezionale coraggio e la propria determinazione nell’affrontare una prova così atroce che la gente comune non poteva affatto sopportare

Bisogna anche tener presente che il ventre (hara) in Giappone era considerato il centro dell’uomo, dove risiedevano il suo spirito, la sua volontà, le sue emozioni.

Chi si apprestava a fare il harakiri doveva essere pronto a esporre questa sede per dimostrare la propria sincerità. Un brano da Sole e acciaio di Mishima ci fornisce una spiegazione alquanto singolare di questa specifica concessione:

Prendiamo una mela, una mela intatta, l’interno della mela è naturalmente invisibile, così all’interno di questa mela, rinchiuso nella polpa del frutto, il torsolo si nasconde nella sua livida oscurità, tremante nell’ansiosa ricerca di sapere se è una mela perfetta.

È certo che la mela esiste, ma per il torsolo questa esistenza è ancora insufficiente, se le parole non possono confermarla, allora l’unico mezzo per farlo sono gli occhi.

In realtà per il torsolo la sola sicurezza di esistere è esistere e vedere allo stesso tempo, c’è un solo modo per risolvere questa contraddizione: conficcare un coltello ben dentro la mela, spaccarla ed esporre il torsolo alla luce, a quella stessa luce che vedeva la buccia.

Yukio Mishima, Sole e acciaio (titolo originale 太陽と鉄
Taiyō to tetsu)

Ma l’esistenza della mela finisce a pezzi, il torsolo sacrifica l’esistenza per vedere.

Col tempo si realizzò che la morte per seppuku era non solo coraggiosa, ma anche “bella“

Era considerata un’onorevole e quindi esteticamente soddisfacente fine per una vita, per quanto breve, di leale servizio.

Sin dall’inizio del Xlll secolo almeno, il seppuku come pratica comune divenne talmente parte della tradizione Samuraica, che al figlio di un guerriero gli venivano impartite già nell’infanzia istruzioni al riguardo.

In epoca posteriore il Seppuku divenne una cerimonia rituale, specie quando a un samurai veniva imposto (o dal Governo o dal suo signore feudale) il suicidio.

Già verso la fine del XVll secolo erano state codificate regole molto complicate, come il numero di tatami da usare e la loro disposizione.

I tatami erano stuoie di giunchi di circa un metro per due, usate per coprire i pavimenti delle case.

Dovevano essere bordati di bianco e su questi veniva posto un grande cuscino sul quale il guerriero che doveva fare seppuku si poneva in atteggiamento formale.

Inginocchiato e seduto eretto sui talloni, circa un metro dietro di lui alla sua sinistra, stava inginocchiato il kaishakunin, l’assistente al seppuku. Egli era un amico intimo del protagonista, che brandiva la spada nelle due mani e il suo compito era di decapitare l’amico nel momento concordato insieme prima della cerimonia.

Così a meno che non gli fosse ordinato diversamente, il kaishakunin cercava di cogliere il minimo accenno di sofferenza o di incertezza, pronto a decapitare il condannato appena questi si conficcava il pugnale nel ventre dopo averlo preso dal vassoio che gli stava di fronte.

Si dice che sovente la decapitazione avesse luogo appena il pugnale era tolto dal vassoio o addirittura al solo stendersi della mano verso di esso.

I coraggiosi che riuscivano a portarlo a termine, si tagliavano da sinistra a destra e quindi volgevano la lama verso l’alto, questa tecnica era conosciuta come jumonji, taglio traverso, poi interveniva il kaishakunin.

Note

Bibliografia

  • Yukio Mishima, Sole e acciaio (titolo originale 太陽と鉄
    Taiyō to tetsu) tradotto da Lydia Origlia, Prosa contemporanea, Guanda, 1982  ISBN 8877462159.