Premessa


Prima di parlare dell’oggetto di questo articolo, vorrei ricordare alcuni gladiatori famosi nella storia:

  • BATO: gladiatore di valore, si rese antipatico a Caracalla, Dione Cassio riferì che l’imperatore lo fece combattere contro tre uomini uno dopo l’altro e gli negò la grazia, fu però seppellito con tutti gli onori;
  • COLUMBUS: originario di Nemausus (odierna Nimes, Francia) vestì l’armatura del mirmillone, ebbe un curriculum di 88 vittorie. Anche lui si inimicò il potente di turno, Caligola, che lo fece uccidere versando sulle sue ferite un composto tossico chiamato poi columinum;
  • LUCILIO DI ISERNIA: definito “uomo sanguinario“ , fu uno dei gladiatori sanniti più famosi, operò intorno alla metà del l° secolo a.C. nella scuola gladiatoria di Capua dove a fine carriera divenne addestratore. Tra i suoi allievi potrebbe esserci stato lo stesso Spartacus;
  • ASTACIUS: reziario, si meritò questo soprannome (letteralmente “gambero”) per la sua tecnica fatta di affondi e veloci arretramenti. Il Mosaico del gladiatore alla galleria Borghese di Roma lo raffigura mentre finisce il suo avversario con una pugnalata;
  • CARPOPHORUS: di questo gladiatore nordico Marziale si disse che proveniva da “una città del polo artico“. La sua specialità erano le belve, nei giochi per l’inaugurazione del Colosseo (80 d.C.) uccise 20 fiere e fu perciò esaltato come emulo dell’eroe mitologico Ercole;
  • CELADUS: un trace, non inteso come provenienza ma nel senso che indossò quel tipo di equipaggiamento gladiatorio. Scritte a Pompei parlano di lui, ma non per i suoi meriti di combattente, è infatti definito “ sospiro delle fanciulle “.

Una biografia a parte tratterò poi per Spartaco, il gladiatore ribelle.

Ma andiamo ad analizzare le diverse specialità, alcune meno pericolose

Come il lusorius, per esempio, combatteva con armi smussate nelle prolusioni.

Dentro le mura della caserma la vita cominciava all’alba. Voci rudi intimavano la sveglia, iniziava l’ennesima giornata di duro allenamento. Con un piccolo fuori programma, un una nuova recluta pronunciava il suo giuramento, un voto speciale e sinistro, che lo impegna a farsi “bruciare, legare, bastonare, uccidere“. Perché questa non è la Legione straniera e neanche una pur severa caserma di legionari romani.

Siamo in un ludus, uno degli oltre cento sorti in ogni provincia dell’impero romano. Palestre-prigioni che i gladiatori chiamavano casa e dove si imparava a combattere e a morire in nome dell’unico tiranno che gli imperatori stessi devono corteggiare : Il Pubblico.

Si sa che i primi combattimenti (munera) del lV-lll secolo a. C. erano cerimonie funebri, ma sappiamo anche che già nella tarda età repubblicana (l secolo a.C.) questi giochi si trasformarono in spettacolo per controllare le masse e l’aspetto sacrale restò come semplice pretesto.

Giulio Cesare, un maestro di propaganda, si inventò di celebrare grandi giochi per la morte del padre a ben 24 anni dalla sua scomparsa

Federica Guidi, archeologa

All’inizio i condannati a combattere con il gladio (una sorta di spada corta, da cui il termine gladiatore), erano spesso prigionieri di guerra (ed ecco spiegate le classi gladiatorie, che facevano riferimento ai popoli vinti dai romani).

Il loro armamento e i loro nomi, erano differenziati in base ai popoli di appartenenza dei prigionieri-combattenti (il gallo, il sannita, il trace e così via).

Augusto, imperatore che non amava i giochi, riorganizzò queste categorie con nomi che oggi definiremo “politicamente corretti“, ovvero che non offendessero ex avversari divenuti ormai, a secoli di distanza, cittadini dell’Impero. Con questa riforma, per esempio, il gallo diventò il mirmillone.

Con l’età imperiale ci fu anche un’altra innovazione, e quella di gladiatore divenne una professione e non più solo una condanna

Nell’arena presero a scendere anche uomini liberi, i cosiddetti auctorati, che si vendevano alle scuole con un apposito contratto stipulato con il Lanista, una sorta di impresario-manager delle scuole gladiatorie. Questi individui lo facevano per pagare i debiti, o comunque con il miraggio dei soldi.

Combattere nell’arena dava denaro e fama, che controbilanciavano la condanna sociale di questa professione. Diventando gladiatori si rinunciava infatti al proprio pudor, alla dignità civile, cosa gravissima agli occhi di un romano

Federica Guidi, archeologa

I giochi erano seguitissimi, ma disdicevoli, persino un lanista, a dispetto dei lauti stipendi, veniva escluso dalle cariche pubbliche, per il combattente ucciso c’erano di norma le fosse comuni, dove finivano anche ballerine e prostitute, eppure il fascino di questa figura restava indiscutibile, nel l secolo d.C. la febbre dell’arena spinse a combattere senatori, aristocratici, donne e persino alcuni imperatori.

Ma torniamo ai luoghi dell’addestramento, i ludi di proprietà imperiale o privati, a Roma il più celebre era il Ludus magnus, i cui resti sono ancora visibili non lontano dal Colosseo.

Grandi o piccole, queste strutture si somigliavano tutte: pianta quadrata o rettangolare, cubicoli per alloggi, magazzini per le armi, a volte prigioni (per gli “ospiti “ che non erano lì per scelta) e soprattutto un’ampia corte per le esercitazioni, a volte dotata di una piccola arena in cui l’ editor che finanziava i giochi poteva “testare“ in anteprima i suoi campioni.

Nel ludus si entrava come novicii, cioè principianti, e l’occhio esperto del lanista individuava subito in base alla conformazione fisica la specialità in cui inquadrare la nuova recluta, e così un uomo magro e scattante sarebbe potuto diventare un buon reziario, mentre uno massiccio e robusto andava bene per categorie armate più pesantemente, come l’oplomaco o il mirmillone.

L’ars gladiatoria seguiva regole precise che prevedevano scontri fra coppie bilanciate in base all’armamento, il combattimento avveniva ad digitum (cioè come ritengono in molti, finché uno dei contendenti alzava il dito in segno di resa), quasi mai all’ultimo sangue (sine missione).

Inoltre il lanista opponeva sempre gladiatori di pari esperienza, così il combattimento durava più a lungo. Se nessuno dei due prevaleva sull’altro, l’arbitro poteva sospendere l’incontro, far bere i duellanti e farli ricominciare.

Se uno dei due veniva ferito e cadeva a terra e chiedeva la resa alzando un dito

A quel punto l’editor decideva il destino dello sconfitto. Poteva farlo da solo o chiedere il parere del pubblico che gridava iugula (sgozza) o missum (lascialo andare)

Il pubblico e l’ editor rispondevano a loro volta con il dito alla richiesta di grazia, nei testi latini il gesto per ordinare la morte è indicato come il pollice o pollicem vertere, ma il significato è motivo di dibattito ancora oggi.

Pollicem premere voleva invece dire “sia risparmiato“, molti studiosi ritengono che la grazia venisse espressa con il pollice chiuso nel pugno, a mimare il gesto della spada che viene rinfoderata e la condanna con il pollice all’insù, l’idea che fosse rivolto all’ingiù si diffuse nell’ Ottocento, nei dipinti che rievocavano i duelli nel Colosseo.

Anche l’esercito romano fece ricorso ai gladiatori, giovani ben addestrati utili a sostenere le file dei militari

Nel 105 a.C. per esempio il console Publio Rutilio chiamò dei Maestri d’armi da Capua per insegnare ai propri soldati l’arte della scherma, mentre Vitellio nel 69 d.C. riunì una schiera di gladiatori per far fronte alle legioni del rivale Vespasiano, del resto anche il suo predecessore Otone aveva arruolato nell’esercito romano addirittura duemila gladiatori, come ricorda Tacito nelle sue Historiae .

Stessa cosa fece Marco Aurelio sul finire del ll secolo, rinforzando con alcuni gladiatori le file dell’esercito decimato dalle guerre contro le tribù germaniche.

Non mancarono casi opposti, soldati che confidando nelle doti guerresche apprese in battaglia, cercavano gloria e denaro nelle arene

Quest’ultima a pratica si diffuse talmente tanto che fu necessario emanare una legge, nel 357 d.C., che proibiva ai lanisti di stipulare contratti con i soldati per non indebolire i ranghi delle legioni.

Ai diversi tipi di gladiatori corrispondevano tecniche specifiche e per ciascuna di esse c’era un doctor, da non confondere con il medicus (che ovviamente in caserma non mancava) , il doctor era il Maestro d’ armi, spesso un ex gladiatore a riposo, insieme ad altri personaggi minori, per esempio gli unctores, i massaggiatori, ma anche contabili e guardie di sicurezza per impedire fughe o suicidi tra i gladiatori “forzati“.

Questo variegato team di atleti e personale costituiva la familia gladiatoria in cui il novicius faceva il suo ingresso

Dell’addestramento in sé si sa poco, tra gli strumenti quotidiani c’era la rudis, un gladio di legno concesso simbolicamente a fine carriera, diventava anche una sorta di salvacondotto per cessare l’attività. Con la rudis ci si allenava a coppie, ma spesso anche contro fantocci legati al palo, da cui il titolo di primus palus concesso al gladiatore più abile della scuola.

Terminata la preparazione di base l’aspirante diventava un tiro (recluta, da cui il termine tirocinio), ma era solo dopo il primo combattimento che meritava la qualifica di veteranus, a quel punto riceveva una speciale tessera gladiatoria in osso o avorio.

Era la carta d’identità su cui annotare un evocativo nome di battaglia ed eventuali vittorie. In generale i gladiatori si coprivano solo con un perizoma e una cintura secondo una tradizione che rimandava alla nudità di eroi e atleti greci.

Tra i miti da sfatare, quelli di una vita solitaria e sempre grama. Parecchi gladiatori avevano mogli e figli fuori dalla caserma e i pasti forniti dal lanista erano sostanziosi.

Tutto, anche la dieta, ruotava infatti attorno al combattimento nell’arena.

Feroce sì, ma raramente all’ultimo sangue, a dispetto degli iugula-gozza! urlati dalla folla, i combattimenti finivano spesso con una richiesta di resa

Questo anche perché il pubblico, in genere, aveva già avuto la sua razione di sangue poiché i combattimenti dei gladiatori avvenivano nel pomeriggio, dopo le varie battute di caccia e le condanne a morte.

Certo, come per i calciatori di oggi, per un campione che diventava ricco e famoso, c’erano migliaia di anonimi che morivano dimenticati e senza diritti, ma, proprio come le star del pallone, chi aveva fortuna o era particolarmente abile, poteva contare non solo sul riscatto (gli schiavi che facevano guadagnare bene il loro lanista, potevano comprarsi la libertà) ma persino un invidiabile ascendente sulle donne.

Gli esempi in tal senso non mancano, nelle satire di Giovenale (l secolo d.C.) si parla di un tale Sergiolus (Sergino) brutto e coperto di cicatrici, ma gladiatore, che fece perdere la testa alle matrone, che abbandonarono i mariti per fuggire con lui.

Proprio le leggende sul vigore sessuale dei dannati dell’arena alimentarono un ulteriore business: un indotto dei giochi gladiatori, il sangue e il sudore dei combattenti erano infatti venduti a peso d’oro come afrodisiaci.

Le statuette falliche dei gladiatori erano, tra i diversi gadget legati ai giochi, quelli forse più ricercati e meglio pagati.

La vita però era solitamente breve

Magari se si era fortunati e la carriera era gloriosa, in tutto, non si viveva più di 30 anni. Tanto durava la vita media di un gladiatore che in carriera poteva combattere da 5 a 34 volte, anche se molti non facevano in tempo a superare i primi incontri.

Le condizioni di vita non erano certo facili, specie se i combattenti non conquistavano grande fama. In un anno ogni gladiatore poteva scendere da due a quattro volte nell’arena, ma viveva in una condizione di stress continuo, accompagnato dalla paura di una morte disonorevole.

A volte l’angoscia era tale che sceglievano addirittura di togliersi la vita

In una delle sue lettere Seneca racconta la vicenda di Germano, avrebbe dovuto combattere contro gli animali in una venatio, ma prima di entrare nell’anfiteatro si recò nella latrina eludendo la sorveglianza, e prese il bastone con la spugna usato per pulirsi e se lo conficcò nella gola, morendo soffocato.

Note